Anche io sono Christiane F.

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25 Agosto 2020

Intervista alla terapeuta Ines Testoni, su vecchie e nuove dipendenze

Una miriade di fattori si intrecciano quando si vogliono indagare e spiegare le ragioni per cui una parte della popolazione è spinta verso l’abuso di sostanze stupefacenti. Fattori sociali, economici e politici che cambiano in base all’epoca e al luogo oggetto dell’analisi.

Se guardiamo al singolo individuo notiamo che, come è ovvio, ogni storia ha le sue peculiari e personali ragioni che la rendono unica da quella di chiunque altro. Ciò che però accomuna talvolta i tossicodipendenti, a prescindere dall’epoca dal luogo e dalla storia personale, è un’accentuata sensibilità nei confronti sia della realtà circostante che dell’interiorità.

Su questo aspetto ho voluto soffermarmi e per farlo ho deciso di partire da una figura nota, quella di Christiane F. Non importa di che generazione tu faccia parte, che tu abbia 60 anni o 20, il nome di Christiane F. ti sarà familiare. Un libro (1979) e un film (1981) l’hanno resa l’eroinomane più famosa al mondo e la sua storia, impressa nell’immaginario collettivo, attraversa le generazioni.

E ad emergere dalle pagine di Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino è proprio la profonda intelligenza di Christiane che, nonostante la giovane età, riesce chiaramente a distinguere le storture della società in cui vive e la superficialità con cui gli adulti stessi conducono la propria esistenza.

In lei troviamo anche una ragazza che alla soglia della vita e della scoperta del sé, decide di fare un passo indietro, perché fare un passo avanti verso la consapevolezza risulterebbe eccessivamente pesante e così l’eroina diventa il rimedio a questa pesantezza.

Del legame fra spiritualità e dipendenza ho parlato con Ines Testoni, psicologa-psicoterapeuta e professoressa di psicologia sociale all’Università di Pavia. La professoressa dà inizio alla sua narrazione da Roberta Tatafiore, la traduttrice di Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino, “una figura di grande profondità e senza dubbio capace di rintracciare la profondità di questo testo”.

Tatafiore nel 2009, dopo una riflessione meditata, scelse di togliersi la vita. Il suo è un caso classico di “suicidio razionale”, mi spiega Testoni.

“Il suicidio è una scelta radicale di rinuncia a una possibilità di vita interamente cosciente, piena, così come può essere data a una persona che invece che arrendersi dinanzi ad alcune esperienze difficili, dolorose cerca di affrontare la difficoltà e attribuirle un significato”.

Con la decisione di uccidersi, Tatafiore lega inconsapevolmente la propria storia a quella di Christiane, la protagonista del libro che aveva tradotto molti anni prima. La dipendenza da sostanze stupefacenti, per quanto assurdo possa sembrare, rappresenta il suicidio e l’opposto del suicidio stesso.

Infatti, “i percorsi di dipendenza sono una forma di rinuncia, un arrendersi rispetto al fronteggiamento del male, una forma di resa ma anche di difesa. Negli studi che ho fatto” – continua Testoni – “è venuto fuori che le dipendenze hanno in qualche misura a che fare con una rinuncia alla vita ma allo stesso tempo sono una forma di negoziazione pur di non suicidarsi”. La dipendenza di Christiane quindi non è solo la manifestazione di un desiderio di autodistruzione, ma anche l’espressione di un disperato anelito alla vita.

Un altro aspetto che emerge con forza dal testo e che, oltre ad emergere con forza, si delinea in maniera estremamente netta e chiara, è il ruolo determinante della società nell’influenzare la stabilità psicologica degli individui, soprattutto dei più giovani.

La sensibilità di Christiane non si esprime solamente verso l’interno, in relazione alle questioni più intime e familiari, ma anche verso l’esterno, nella sua insofferente suscettibilità nei confronti della realtà in cui è immersa. Le aberrazioni della nostra società la inducono a sviluppare un sentimento di nausea per la società stessa, tanto da arrivare nelle ultime pagine ad affermare: “Pensavo che doveva esserci una via di mezzo. Né doversi adeguare completamente a questa società di merda, né farci completamente distruggere”.

A questi concetti ripetuti con parole più o meno simili in molteplici occasioni, accosta altrettante volte idee diametralmente opposte, come, per fare un esempio, quando dice “Più di tutto mi piaceva sognare che ero un’allegra teenager, allegra come quelle della pubblicità della Coca-Cola.” La Coca-Cola è il simbolo per eccellenza di un sistema che dipinge il consumo come la via per il raggiungimento della felicità e che propone, con l’aiuto del luccichio dei cartelloni pubblicitari e degli spot televisivi, immagini illusorie che stonano con la cornice in cui sono inserite.

Una contraddizione tra aspettative e reale che non lascia indifferenti gli animi di quanti, come Christiane, sono in grado di percepire questa antinomia, anche se non di comprenderla fino in fondo. In lei il rifiuto del modello di vita imposto si affianca al desiderio di far parte di quello stesso modello che rifiuta. Per comprendere questa distorsione bisogna considerare che quella di “Christian f non è altro che la storia di una donna intelligente e sensibile […] che parla in un modo particolare, come chi cerca di dare senso e capire la propria condizione e quindi volgere verso una risoluzione, in quel momento storico in cui i giovani avevano una portata esistenziale”, afferma Testoni. In un periodo in cui i ragazzi erano “triturati dal bipolarismo USA-URSS che significava capitalismo verso socialismo reale”, vi fu terreno fertile per un grande attivismo culturale e per la messa in discussione dell’ordine costituito, uno slancio intellettuale che, secondo la Professoressa, fu corrotto dalla diffusione delle teorie psichedeliche.

Seppur capace di comprendere quanto di sbagliato esiste nel sistema, a Christiane mancano gli strumenti per poter fare il passo conclusivo e ciò si spiega nel fatto che “le ragazze dell’epoca non avevano un modello alternativo di vita, perché alle donne non era dato in quel momento storico lì. Una critica senza una possibilità di costruzione. Stava molto male ma non aveva un modello alternativo per essere donna. Non riusciva a concretizzare il senso della critica e neanche il senso dell’azione.”

Intelligenza significa anche saper osservare e saper interrogarsi su ciò che si osserva. Ma sapersi interrogare quando non si trovano le risposte può diventare ragione di angoscia.

La fragilità si trasforma in ammirazione per chi indossa la maschera della sicurezza, in desiderio di identificarsi in un gruppo, di farne parte per non sentirsi abbandonati a se stessi ma guidati, che porta anche al desiderio di riconoscersi in un modo di pensare condiviso piuttosto che sentirsi assolutamente svincolati e in balia della sofferenza del proprio Io.

In Christiane lo si vede nel suo desiderio esasperato di sentirsi inclusa e accettata in quei gruppi di amici che ai suoi occhi appaiono alla moda e forti, al punto di arrivare a convincere se stessa a volere ciò che in realtà non vuole e a essere chi in realtà non è, pur di essere considerata come gli altri del gruppo.

Questo desiderio di accettazione e identificazione raggiunge la massima espressione nella parte conclusiva del testo, quando Christiane, che sta lottando adesso per rimanere al di fuori di quelle amicizie che hanno stretto la sua esistenza attorno alla dose di ero, dice: “In un certo senso sarei stata volentieri giovane durante il periodo nazista. Allora i giovani avevano un’idea di come stavano le cose e avevano ideali. Credo che per un giovane è meglio avere falsi ideali che non averne nessuno”.

Queste parole la professoressa Testoni le spiega affermando che Christiane “sta parlando da persona che non avendo delle chance desidera che qualcuno la guidi, che è un po’ alla base di qualsiasi dipendenza. I tossicodipendenti hanno bisogno di qualcuno che li irreggimenti.” Le sue parole sono quindi “espressione del suo bisogno di essere dipendente. Poi se vogliamo entrare nel merito del perché le persone abbiano bisogno di essere dipendenti questo è il grande scenario che ha aperto la scuola di Francoforte, pensiamo ad Erich Fromm, discutendo sul perché gli esseri umani preferiscono la dipendenza piuttosto della libertà. La libertà ha un costo. Per libertà non intendo quel concetto ontologico secondo cui puoi scegliere di creare o annientare qualcosa, ma semplicemente il percorso di liberazione dal dolore che ti rende dipendente perché ne senti il giogo.”

E liberarsi dal dolore che si fa giogo non è affatto facile, diventa una sfida quotidiana con se stessi da cui si può uscire vittoriosi solo se, sostiene Testoni, affrontiamo il dolore quotidianamente e cerchiamo di significarlo.

“davanti a quello specchio mollavano completamente il loro io. Diventavano solo la maschera di se stesse, una maschera che doveva piacere ai tizi con la moto super-fantastica. Ero incazzata nera quando vidi tutto ciò. in un certo senso mi faceva pensare a me stessa. Io pure mi ero stratruccata e travestita, prima per piacere ai tizi del giro dell’hascisc, poi a quelli dell’ero. Anch’io avevo come rinunciato al mio io per essere solo una bucomane.”

Ancora una volta Christiane si mostra estremamente perspicace, conscia di sé e capace di cogliere anche negli altri il valore nascosto dei gesti all’apparenza più innocui. A essere però rilevante di questo breve passaggio non è il fatto di dimostrare nuovamente la sua profonda intelligenza, ma di aprire la strada per una riflessione più generale sulla condizione umana. A uno sguardo distratto, il comportamento delle compagne è semplicemente il tipico atteggiarsi dei ragazzi in età adolescenziale che non ha niente a che vedere con quello di un eroiname.

Tuttavia, come Christiane nota, nonostante non possano essere messe sullo stesso piano in termini di gravità, il loro agire è generato da un moto interiore comune, sintomo in entrambi i casi di una insicurezza che cercano di superare attraverso la negazione del sé.

Ogni storia ha le sue circostanze specifiche che ne influenzano il percorso e che spiegano il perché l’incapacità di dare senso alle pulsioni interiori e alle storture del mondo esterno si esprima in un modo piuttosto che un altro.

Per lavorare al superamento di questo conflitto intimo e destabilizzante è necessario creare uno spazio di riflessione sulla spiritualità, Ines Testoni su questo punto è risoluta: “i giovani hanno grande bisogno di spiritualità. Noi abbiamo tolto l’insegnamento della religione cattolica dalle scuole perché giustamente non può essere una sola religione che stabilisce come possiamo gestire il nostro pensiero […] però non è che è stata sostituita con un’ora di riflessione sulla spiritualità e la trascendenza, un dialogo inter-religioso.

I giovani hanno bisogno di chiedersi quale sia la ragione della trascendenza vera e propria.” Serve quindi fornire gli elementi utili per imparare a relazionarsi con la propria spiritualità, evitando così che si ricorra a comportamenti adottati per evitare il confronto, perché le dipendenze servono proprio “per non affrontare la sofferenza. […] Le dipendenze anche dalle persone e dalle situazioni anestetizzano rispetto al dolore. Questo perché diventa un altro tipo di lavoro, un lavoro routinario che si fa per abitudine”, mi spiega la professoressa Testoni. La dipendenza da sostanze stupefacenti, emblema e apice di tutti quei comportamenti che assorbono tutte le energie e gli sforzi, diventa un’attività “routinaria che ti mette in un loop che conosci, tra l’altro sotto l’istanza dell’urgenza e quando si è sotto l’urgenza è tutto anestetizzato e di conseguenza si può evitare di fare quel lavoro mostruosamente pesante e difficile che è la elaborazione del senso del dolore in una società che non dà l’opportunità per confrontarsi rispetto a che cosa significa soffrire.”

Sono convinto che dentro molti di noi viva un malessere esistenziale che facciamo difficoltà a significare. Le modalità in cui rifuggiamo dal confronto con noi stessi possono prendere le più diverse e, in alcuni casi, insospettabili forme. E se per qualcuno la fuga prende la forma della dose di eroina, per altri può essere il cibo, quando diventa un’attività perseguita in maniera compulsiva alla ricerca di un appagamento irraggiungibile.

Per altri può essere la necessità costante della compagnia per evitare la solitudine. Per altri il bisogno irrefrenabile di una relazione amorosa. Per altri ancora l’ossessionata determinazione al raggiungimento di successi in ambito lavorativo o di studio. Come Christiane, molti combattono con un dolore che in certi momenti è in grado di farci sentire sopraffatti, un dolore che può esistere talvolta anche senza che ci sia nessuna ragione per cui esista. Un dolore che la fragilità e sensibilità d’animo intensificano e che le esperienze negative della vita possono ulteriormente acuire. Il passo più importante e difficile sta nel riconoscerlo, accettarlo e affrontarlo invece che tentare di assopirlo. E nel non avere paura a chiedere aiuto se si sente di non potercela fare da soli. Perché non si è mai gli unici a portare un dolore, anche quando tutto intorno sembra splendere e il buio sembra essere solo dentro di noi.