“Avete reso l’università un’azienda. Perseguendo solo il profitto”

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20 Ottobre 2021

Vi ricordate il discorso delle tre neolaureate alla Normale di Pisa?
Q Code Mag ha chiesto un’intervista: sono portavoce di un collettivo più ampio e qui ci spiegano il proprio piunto di vista

Fine luglio. Circola un video in rete e sui giornali mainstream ci sono tre neolaureate che alla Normale di Pisa in occasione della consegna dei diplomi leggono pacatamente un messaggio che la stampa definisce duro. E che Q Code Mag definisce giusto. Ma la cosa migliore, come sempre, è andare alla fonte, e chiedere alle protagoniste di spiegare comìè nata una critica costruttiva al sistema universitario, alla competizione sfrenata, alla logica del profitto, alla distribuzione delle risorse. Un contatto su linkedin, una mail di risposta, le domande cui rispondono non solo le tre dottoresse, ma tutto un gruppo di diplomati del 2020 che è autore di questa iniziativa.

Qui il video che ha fatto il giro della stampa e dei social a fine luglio.

E qui l’articolo che ha scritto Elisa Gianni per noi questa estate.

[Risposte a nome di Alessandro Brizzi, Paolo Bozzi, Michele Gammella, Niccolò Izzi, Virginia Grossi, Virginia Magnaghi, Lorenzo Maselli, Francesco Molinarolo, Cosimo Paravano, Giovanni Tonolo, Valeria Spacciante, Eleonora Tioli]

Il collettivo ha un nome? Come è nato?
Non è un collettivo. Si tratta piuttosto di una dozzina di diplomat* del 2020 che ha voluto collaborare alla stesura del discorso che è stato pronunciato durante la cerimonia di consegna dei diplomi.

Come avete deciso di scrivere e leggere il vostro testo?
Ogni anno la Scuola Normale, in occasione della consegna dei diplomi, dà la possibilità a* diplomat* delle due classi di Lettere e Scienze di tenere un discorso. Il nostro testo, che è quello di Lettere, è frutto di lunghe conversazioni nate già durante i nostri anni alla Scuola Normale. Siamo consapevoli di aver potuto godere di un privilegio eccezionale nel panorama universitario italiano, avendo a disposizione moltissimi spazi comuni in cui ritrovarci e dialogare. Mensa, aule studio e biblioteche alla Scuola erano sempre fruibili e questo ci ha permesso di creare facilmente e in modo informale una comunità. Senza questa dimensione comunitaria e di reciproco sostegno e confronto, il nostro discorso sarebbe stato molto diverso. Sapevamo che alcune criticità erano state percepite da una buona parte di noi. Abbiamo cercato di mostrare come il disagio di ciascun* sia in realtà una declinazione individuale di problemi sistemici che ci è sembrato inevitabile denunciare. Abbiamo deciso di sfruttare la natura ufficiale della cerimonia di consegna dei diplomi per portare questi problemi all’attenzione del corpo docente e di una platea ancora più ampia, nella speranza di suscitare ulteriori prese di posizione. L’eco mediatica però è stata totalmente inaspettata.

Che reazioni ci sono state da parte dell’istituzione?
Ci sono state due repliche del direttore alla fine della cerimonia (visibile su YouTube) e sul Tirreno (17 luglio). Il direttore ha poi rilasciato un’intervista a Repubblica di Firenze il 30 luglio.

Torniamo al vostro intervento. Come lo avete scritto?
Ci trovavamo e ci troviamo in luoghi diversi del mondo. Il discorso è stato il prodotto di diverse riunioni su Zoom che talvolta si protraevano fino a tarda notte. È stata una bella occasione per ritrovarsi di nuovo insieme a due anni dalla fine del nostro percorso in Normale.

Siete un gruppo e volete rifuggire i personalismi, viviamo l’era dei leader e del personalismo: perché la scelta?
Non siamo un collettivo, siamo un gruppo di compagn* d’anno che hanno lavorato insieme al discorso.  Abbiamo scelto di rifiutare il personalismo esattamente perché ci opponiamo alla logica individualista e competitiva che spesso l’accademia impone. Nel corso dei nostri anni in Normale, abbiamo scoperto di avere posizioni simili sugli argomenti trattati nel nostro discorso, dunque abbiamo deciso di esprimerle collettivamente. Abbiamo avuto l’occasione di sperimentare in prima persona che la ricerca, nella sua forma migliore, è un’esperienza collettiva molto più che individuale. Il nostro discorso – letto da tre persone, ma scritto da molte di più – cerca di essere in linea con quest’idea di accademia, che vorremmo diventasse quella dominante.

Ci raccontate, ognun* di voi se volete in qualche riga, qualche fatto vissuto a testimoniare la denuncia che avete espresso?
Abbiamo parlato della Normale perché è stata, insieme all’Università di Pisa, la nostra università, ma quello che abbiamo sperimentato può applicarsi a moltissimi contesti accademici: troppo spesso si è mess* davanti a delle difficoltà (presentazioni, seminari, tesine) senza che vengano adeguatamente forniti gli strumenti per affrontarle. Bisognerebbe spostare l’attenzione dal risultato (l’esame e il voto) al processo (la didattica), dal performativo al formativo.
Facciamo un esempio semplice: abbiamo tutt*  letto un libro difficile di cui abbiamo capito poco e su cui abbiamo faticato – esperienza comune di normalist* e non. Abbiamo a volte finto di averlo capito (fake it till you make it, si dice in inglese) perché chiedere aiuto a chi insegna ci avrebbe reso vulnerabili e ci avrebbe visto perdenti all’interno di malsane logiche competitive. Questa ossessione performativa danneggia l’apprendimento e sarebbe il caso di dire chiaramente che, se è verissimo che ci sono difficoltà formative, non c’è alcuna gloria o utilità nell’affrontare quelle inutili o che si possono evitare. Sarebbe bene, invece, ripartire dall’apprendimento come esperienza graduale e collettiva, frutto della cooperazione tra chi insegna e chi impara. La retorica dell’eccellenza fa credere che le capacità di un individuo siano innate, quando invece vanno pazientemente costruite. Il risultato è che ci si sente spesso sbagliati, inadatti a uno standard di fatto insostenibile.

Ultima domanda, sicuramente difficile: come si cambia la situazione, strategie, metodi, conflitto…
La domanda è ampia e non sapremmo rispondere in modo esaustivo, ci limitiamo quindi alla nostra esperienza. Innanzitutto bisogna rendere normale ciò che ancora non lo è e mostrare che quello che passa per immutabile o naturale può essere cambiato.
Ad esempio, il cronico definanziamento dell’università pubblica non deve essere accettato come un dato di fatto, ma identificato come una precisa scelta politica. Il PNRR, per esempio, non parla di aggiunte al fondo di finanziamento ordinario (FFO), già drasticamente ridotto nel 2008 e che già prevede al suo interno una quota premiale distribuita in base a logiche competitive e ‘meritocratiche’. Molto di più si punta su competitività, merito e collaborazione con il mondo delle imprese, ma l’idea che questi criteri possano essere di qualche utilità per contrastare le disuguaglianze rimane a nostro avviso sbagliata. Sia chiaro: quello che auspichiamo non è un mero ritorno all’università che esisteva prima delle riforme, ma l’attuale sistema di valutazione, standardizzato e premiale, produce storture e disuguaglianze – disuguaglianze che proprio il mondo dell’università dovrebbe invece combattere. Qualsiasi cambiamento non accompagnato da un rifinanziamento generalizzato sarebbe insomma solo una foglia di fico.

Poi si possono anche proporre migliorie facilmente realizzabili. Nel nostro discorso abbiamo offerto un piccolo suggerimento sulla questione di genere: dei corsi di formazione per alliev* e docenti sarebbero di grande aiuto per riconoscere e decostruire stereotipi e automatismi diffusi. Sarebbero utili ovunque, non certo solo alla Normale.

Usare le occasioni che si hanno per mantenere alta l’attenzione su questi temi sarebbe importante. L’ultimo punto della domanda menziona il conflitto: non tutt* sono stat* content* del nostro discorso, ma speriamo di aver aperto un dibattito. La reazione al nostro discorso, che in tutta sincerità proprio non ci aspettavamo, dimostra il bisogno di rilanciare temi come la disuguaglianza in varie dimensioni pubbliche.