Avrebbe compiuto cent’anni nel settembre 2020 il Teatro Nazionale Accademico Kupalausky di Minsk, il maggiore teatro di prosa per il repertorio in lingua bielorussa, intitolato significativamente a quello che della lingua bielorussa è stato fra i più grandi cantori, Janka Kupala. Ma il 2020 è stato l’anno in cui nulla è andato secondo i piani, nel mondo e in particolare in Bielorussia, dove la rielezione illegittima del presidente Lukašenka in agosto ha generato un’ondata di proteste generalizzate che va avanti da mesi, accompagnata in parallelo da una durissima, violenta repressione.
Era il mese di agosto e il teatro, alla soglia dei suoi cento anni, si è trovato al centro non di celebrazioni solenni, ma di una paradossale, drammatica trasformazione. “Il teatro nei primi giorni delle proteste è diventato una toilette pubblica. Uomini in uniforme a decine andavano a pisciare nel teatro”, racconta C., attrice del teatro Kupalausky, ricordando il teatro accerchiato da mezzi militari e da uomini armati, alcuni con il volto coperto.
Oltre i cordoni che circondavano il teatro, “una filiale dell’ade” di fronte alla quale C. e lo staff del teatro, attori e tecnici, si sono fermati a riflettere, sospesi sullo sfondo di uno scenario infernale che si presentava ai loro occhi alla vigilia della riapertura della stagione teatrale, prevista per gli ultimi giorni di agosto. “Abbiamo capito che non potevamo fare finta di niente e andare in scena: questo è stato il pensiero condiviso che è diventato azione. In quel periodo noi eravamo ancora in ferie, ma ci siamo incontrati e abbiamo registrato il nostro primo videomessaggio. Non abbiamo fatto richieste, non abbiamo usato slogan…abbiamo solo detto che siamo contro le violenze, che non sappiamo come andare avanti a lavorare e che non è più possibile fare la vita di prima”.
“Molti teatri hanno continuato a lavorare”, racconta C., “si dicono contro le violenze, ci esprimono supporto, ma nonostante questo continuano a lavorare”. Per C. è inspiegabile il meccanismo che permette alle compagnie di proseguire normalmente la propria attività, magari andando in scena con commedie leggere, quando intorno infuria il terrore e i media diffondono le immagini di persone in fila con le braccia alzate, in piedi per otto ore contro un muro in un dipartimento di polizia. “Io semplicemente non posso”.
“Prima che si accendessero le telecamere – prosegue C. – noi ci siamo raccolti sulla scena, qualcuno di noi ha chiesto: voi tutti sapete cosa state firmando davanti alla telecamera? Noi abbiamo risposto “si”. E così è iniziato il processo. Sono iniziate le provocazioni da parte del Ministero della Cultura, con il licenziamento del nostro direttore… siamo stati tutti licenziati, tutta l’equipe del teatro è andata via, tutto il personale che muoveva l’attività del teatro è andato via… il teatro esiste solo come edificio”.
Solo le mura sembrano essere sopravvissute nell’anno del centenario; ma quelle mura, che ora marcano il confine di uno spazio vuoto, non sono mute e inerti. Al contrario, raccontano la storia di un teatro che ha attraversato decenni grigi e polverosi per le arti, imbrigliati dalla burocrazia e dalla censura, e che è riuscito, nonostante tutto, a mantenersi vivo e pulsante. E in questa occasione non è stato da meno.
La compagnia del teatro si è riunita per fondare un gruppo indipendente, che, in continuità con l’esperienza precedente, è stato battezzato Kupalaucy, quelli del Kupalausky.
C. spiega che il gruppo è in una lista nera “non ufficiale”: “non ci danno spazi, non ci danno permessi per andare in scena, ci spingono a esibirci in segreto”. In segreto sono riusciti a fare le prove e a mettere in scena uno spettacolo, andato in scena a porte chiuse. Ma esibirsi nel “sottosuolo” non è privo di rischi. Anche la massima segretezza, infatti, non può garantire che gli OMON – le forze speciali antisommossa note per la malagrazia con la quale ricorrono al manganello – non facciano irruzione. I Kupalaucy hanno quindi cercato altrove luoghi dove esprimersi con maggiore libertà e li hanno trovati nello spazio del web, dove continuano a esibirsi attraverso i canali YouTube, Facebook, Instagram.
La “prima”, nell’anno del centenario, è andata in scena online ed è stata proiettata in uno dei cortili di Minsk.
Qui, in uno dei cortili che già nelle prime settimane delle proteste sono diventati arene di discussione per le persone che qui reclamano lo spazio pubblico negato dalle autorità, per assistere alla rappresentazione si sono riunite 200 persone. Di fronte a questa partecipazione, afferma C., si sono convinti di aver fatto una scelta terribile, difficile, ma giusta. “Ci arrestano periodicamente, ci processano, ci multano, ma noi viviamo, esistiamo e abbiamo capito quanto questo sia necessario per le persone”.
Persone che oggi sono impegnate con ostinato coraggio a ripensare la propria immagine, usando tinte diverse dai toni grigi di passività, senso di sfiducia e isolamento che hanno caratterizzato i quasi tre decenni di regime di Lukašenka.
In questo processo la cultura e le arti hanno un ruolo di primo piano.
Non è un caso che proprio un’opera d’arte, Eva, il dipinto del pittore ebreo bielorusso Chaim Soutine, sia diventato simbolo di dissenso ancora prima delle contestate elezioni di agosto. Il quadro faceva parte della collezione privata di Viktar Babaryka, principale avversario Lukašenka, che è stata confiscata nel giugno 2020. All’immagine originale di Eva, che è diventata il fulcro di una campagna denominata Evalution, è stato aggiunto un dito medio alzato non solo contro la confisca dell’opera seguita all’arresto arbitrario di Babaryka, ma anche contro gli abusi del regime.
Non è un caso neppure il fatto che la fase delle proteste sia attraversata da un’energia creativa che ha dato linfa a tutte le forme d’arte, dal teatro, alla musica, alla street art, come se tutta l’intera folla, vasta e multiforme, delle persone che prendono parte attiva nelle proteste, in questa fase cruciale di svolta, andasse in cerca di linguaggi per immaginare e descrivere un futuro, che sembra ancora pallido e incerto. Nessuno sa come sarà il dopo, dice C. “sarà qualcosa che di sicuro non abbiamo ancora negli ultimi cento anni. Io penso che quando questa lotta sarà finita, inizierà una nuova lotta, per capire cosa saremo”. Eppure, con tutte le sue incognite e le asperità che inevitabilmente verranno, il futuro, sostiene C, è l’unica prospettiva possibile. “Tutti sappiamo che non c’è modo di tornare indietro. Da qui il nostro cammino può essere solo in avanti”
Sulle strade di Minsk il fiume di auto scorreva lento, rallentato dalla folla che iniziava a raccogliersi con le bandiere bianche e rosse, come ogni domenica. Y. e suo marito procedevano in macchina con i finestrini aperti dai quali mostravano con le mani il gesto della vittoria. Lungo il percorso, li hanno fermati degli uomini armati che stazionavano a un posto di blocco, con un veicolo che non sembrava quello ordinario di pattuglia dei vigili urbani.
Gli uomini armati hanno fatto segno a un vigile di avvicinarsi e poi si sono allontanati. Il vigile, senza comprendere bene la situazione, ha chiesto i documenti. “Mio marito gli ha chiesto “che cosa ho fatto?” ma il vigile non riusciva a rispondere. Noi avevamo le tendine in macchina e ci hanno vietato quelle. Hanno fatto un verbale per le tendine e poi ci hanno sequestrato la macchina”. Dopo la macchina, quello stesso giorno, hanno portato via anche S. suo marito.
Il giovedì successivo, né la macchina, né suo marito avevano ancora fatto ritorno a casa, racconta Y., una delle tante persone che dal 9 agosto, giorno della rielezione illegittima del presidente Lukašenka, protestano pacificamente contro il suo regime autoritario e reclamano a gran voce il diritto a elezioni libere.
Y.era impegnata già prima delle elezioni a Minsk, in iniziative civiche di quartiere, finalizzate a creare reti tra i cittadini stanchi della dittatura e desiderosi di un nuovo corso. “Utilizzavo Telegram quando ancora non era di moda”, dice. A causa del suo impegno ha perso il lavoro, nel maggio scorso, ma non si è fermata. A giugno, quando è stato arrestato Viktar Babarika, principale avversario di Lukašenka nella competizione elettorale, ha preso parte alla prima manifestazione.
Con l’avvicinarsi delle elezioni, ha iniziato a produrre braccialetti bianchi, segno di riconoscimento fra i sostenitori dei candidati dell’opposizione, e ha continuato nei mesi successivi, quando i braccialetti sono entrati a far parte dell’apparato di simboli della lotta al regime.
Y. prende parte alle proteste anche in altre forme. Scrive lettere ai prigionieri politici, che dalle carceri in cui vengono rinchiusi con un regime durissimo, non riescono a comunicare con l’esterno, e porta avanti ogni giorni un’azione di boicottaggio nei confronti del governo, evitando le merci prodotte dalle aziende di stato, che in Bielorussia sono numerose e molto presenti sul mercato. “Le aziende di stato sono gran parte dell’economia del paese, ma sono quasi tutte in perdita”, spiega Y. “corre voce che ai dipendenti di alcune aziende abbiano proposto lo stipendio in merci” Ridurre i profitti delle aziende statali, quindi, è importante per indebolire il governo.
Intanto, Y. continua a partecipare alle marce pacifiche, insieme a migliaia di cittadini bielorussi, Ma proprio durante durante una di queste marce, suo marito è stato arrestato e condannato a dieci giorni di carcere con l’accusa di resistenza all’arresto.
“Di domenica hanno arrestato mio marito, lunedì io aspettavo di sapere se ci sarebbe stato o meno un processo. Alle 4.10 di lunedì sarebbe iniziato il processo, ma io l’ho saputo solo alle 4.30, venti minuti dopo. Fanno così perché la persona si senta sola e demoralizzata. Io non sono riuscita a parlare con mio marito, ma sono andata comunque al tribunale. C’è stato uno spostamento nell’orario della seduta e solo per caso sono riuscita ad andare. I parenti stretti hanno il diritto di presenziare…era un circo, una sceneggiata”, racconta Y., “l’accusa ha presentato i rapporti di due poliziotti secondo i quali mio marito avrebbe fatto resistenza all’arresto”. Ma le informazioni riportate nei rapporti erano visibilmente false. In entrambi i rapporti il giorno indicato come data dei fatti era il 12 novembre, ma il processo si è tenuto il 9. “Come ha potuto compiere una violazione della legge nel futuro?” si chiede Y., che è riuscita a a filmare il momento dell’arresto e il suo video dimostra chiaramente non è stata fatta alcuna resistenza. Nonostante questo, ha deciso di non sporgere denuncia, perché sa che verrebbe ignorata o respinta. “I processi” continua, “sono condotti tutti nella stessa maniera. Non c’è alcuna logica, non è possibile indovinare come si comporteranno le forze dell’ordine e le decisioni dipendono da cosa vuole o non vuole il giudice. Qui nel quartiere in questi giorni hanno arrestato una ragazzina, poi sono stati arrestate tre persone perché stavano in gruppo all’ingresso di un negozio. I tribunali non funzionano, le norme giuridiche sono tutte violate, nessun diritto è più rispettato”.
L’abuso dilaga e le violenze non conoscono freni: Y. ricorda che il giorno precedente le forze dell’ordine avevano picchiato a morte un ragazzo di poco più di trent’anni, Raman Bandarenka, un artista che partecipava alle proteste. Ma il pugno di ferro del regime non ha esitato neanche davanti a ex rappresentanti delle forze dell’ordine che hanno lasciato il proprio incarico in segno di disapprovazione nei confronti della condotta del governo. “Ho un conoscente – racconta Y. – che lavorava nel dipartimento distrettuale degli Affari Interni, i suoi ex colleghi lo hanno arrestato e gli hanno dato prima quindici giorni, poi dodici, in tutto ventisette giorni. Per venticinque giorni è rimasto in una piccola cella di isolamento. Non aveva un letto e poteva solo sedersi su una sedia, era scalzo sul pavimento di cemento. Queste sono condizioni di reclusione disumane. Non gli passavano comunicazioni dall’esterno, non gli davano abiti caldi. E’ diabetico e non gli davano l’insulina. Questo è il trattamento che riservano ai propri uomini, come azione dimostrativa di quello che può accadere a chi lascia le forze dell’ordine”
Non è stato risparmiato neanche il personale sanitario, che negli ospedali assiste alle conseguenze del delirio di violenza che infuria in Bielorussia. “Le persone arrivano in ospedale in condizioni terribili. Non sono persone, ma corpi massacrati…I medici sono sotto shock”. Non sono mancate le proteste e le manifestazioni di sdegno da parte del personale sanitari, che, inevitabilmente, ha subito ritorsioni e arresti.
Più volte, mentre racconta, Y. si chiede come sia possibile questo delirio a cui non riesce neppure a dare un nome. Poi, finalmente, lo trova.
“Io mi meraviglio che nel paese dove così spesso si parla di vittoria sul fascismo siano cresciuti tanti fascisti. Non si può chiamare diversamente. Questo è vero fascismo”.
Nel racconto di Y, “fascismo” non ha il suono artefatto di un termine “forte”, scelto per destare clamore e creare effetto; risuona più come la sintesi asciutta e drammatica di ciò che accomuna, oltre le divise e le bandiere, attraverso la storia e la geografia, le dittature, ovvero il tragico sgretolarsi dei diritti fondamentali, il crollo impietoso delle difese dell’individuo di fronte agli abusi di regimi spesso corrotti e violenti, che, sfondato ogni argine, possono insinuarsi negli anfratti più nascosti della vita quotidiana, arrivando ovunque e a chiunque e manifestando il proprio arbitrio con metodi più o meno manifesti.
Con gli arresti, i processi farsa, le torture, ma anche con metodi più subdoli, rivolti a indebolire le persone anche dal punto di vista economico e, quindi, particolarmente efficaci in un paese già gravato da difficoltà economiche.
Le vittime di detenzione politica, le persone che hanno affrontato spese legali o sanzioni, quelle che hanno perso il lavoro per ritorsione sono supportate da fondazioni come By_help e BYSOL, ma gli aiuti ricevuti sono stati sottratti dal governo dai conti dei beneficiari. Con un meccanismo simile, il regime provvede anche a riscuotere le multe.
Per Y. l’intento delle autorità è molto chiaro: “per l’ennesima volta dimostrare che le persone sono merda, delle nullità”. E forse convincerle ad accontentarsi dell’atmosfera grigia e soffocante che ha oppresso la Bielorussia per ventisei anni. Sono ancora molti quelli pronti a tornare indietro nel nome di un desiderio di stabilità che a Y. appare incomprensibile.
“Che cosa hanno da perdere? Uno stipendio da 500 rubli? io non capisco queste persone, non capisco le loro esigenze. Se li contiamo, 500 rubli sono sono 150 euro. Con quei soldi vai due volte a fare la spesa. Tutto quello di cui si preoccupano è pagare le bollette comprare la vodka, comprare da mangiare e questo è tutto, non hanno altre esigenze”.
Tutto intorno a loro, però, c’è la lotta incessante e coraggiosa di un paese che invece vuole, pretende di meglio ed è sicuro che il meglio verrà, anche se con costi altissimi. “Non c’è dubbio che il regime cadrà”, dice Y, “questo accadrà al duecento percento e non può essere diversamente, ma mi preoccupa molto il fatto che nel tempo che e ancora rimane – 6 mesi, un anno – soffriranno molte persone. Già ora non è rimasto nessuno che non abbia conoscenti in carcere. La mia paura è che in due mesi o sei mesi o il tempo che resta, faranno in tempo a mettere in carcere tutto il paese”
C’era una volta sul confine orientale d’Europa, a pochi chilometri da una grande città capitale, un bosco di pini e di abeti che nel loro fitto nascondevano dallo sguardo altrui esistenze segrete e invisibili agli altri. Non erano però elfi, né fate, ma le ombre di migliaia di persone portate nel bosco da uomini in divisa e mai più ritornate.
Per cinquant’anni la loro storia e la loro fine erano rimaste impigliate fra le radici degli abeti e dei pini, che nulla potevano raccontare. Potevano però farlo gli uomini. E così, nel 1988, mentre nel muro di silenzio che avvolgeva l’Unione Sovietica si aprivano le prime crepe, in un articolo intitolato “Kurapaty, la strada della morte”, gli storici bielorussi Zyanon Paznjak e Yauhen Shmyhaliou, portarono alla luce terribili fatti di cui, evidentemente, non solo gli alberi avevano conservato memoria. L’articolo raccoglieva i racconti degli abitanti della zona, secondo i quali nel bosco di Kurapaty, alla periferia di Minsk, la capitale della Bielorussia, negli anni precedenti alla Seconda Guerra Mondiale ogni notte risuonavano suoni sinistri di spari.
La scoperta fece molto rumore e fu aperta un’inchiesta. Così iniziarono gli scavi: dal sottosuolo emersero più di 500 fosse che contenevano resti umani e bossoli di proiettile provenienti da pistole e fucili di fabbricazione sovietica, tutte tracce di un massacro portato avanti senza sosta dall’NKVD, la polizia segreta sovietica, negli anni compresi fra il 1937 e 1941, quelli più neri del Terrore staliniano.
L’inchiesta stabilì che nelle fosse comuni erano finite almeno 30mila persone: uomini adulti, persone comuni, ma anche un certo numero di intellettuali.
Intorno al bosco di Kurapaty, però, rimase un’ombra di mistero. I fatti accertati vennero messi in discussione da una seconda indagine, condotta nel 1994, dopo il crollo dell’URSS, che seguiva un’ipotesi diversa, ovvero che i responsabili del massacro fossero in realtà ufficiali nazisti e le vittime in gran parte ebrei uccisi durante la seconda guerra mondiale.
Indagini successive confermarono la prima versione, ma non riuscirono a risolvere tutti gli interrogativi. Ancora oggi infatti si crede che il numero delle vittime cadute nel bosco di Kurapaty sia stato decisamente superiore, fra le 100mila e le 200mila persone. Inoltre, nessuna giustizia è stata mai fatta per quel crimine atroce: secondo la procura che chiuse il caso nel 1989 gli ufficiali che avevano compiuto il massacro avevano a loro volta subito la pena capitale in epoca sovietica oppure erano già morti.
I cittadini però non ebbero dubbi sulla posizione da prendere riguardo ai terribili fatti e già nel 1989, in occasione della tradizionale giorno della memoria, che coincide con la festa religiosa di Ognissanti e con la commemorazione dei defunti, una gruppo di persone si mise in cammino verso Kurapaty e piantò una grande croce. Da quel giorno le marcia si è ripetuta ogni anno e le croci sono arrivate a circa un migliaio.
Le autorità mostravano, invece, un atteggiamento ambiguo rispetto al sito. Kurapaty fu dichiarato formalmente un monumento storico statale e un territorio posto sotto tutela, ma né il presidente Lukašenka, né altri membri del governo bielorusso hanno mai visitato il luogo in veste ufficiale. Il progetto di costruire un memoriale e una cappella è stato lasciato cadere nel vuoto, lo stesso vuoto creato nei libri di storia bielorussa, dove non si faceva menzione alcuna di Kurapaty. Ma se le autorità volutamente lo ignoravano, la gente faceva esattamente l’opposto, visitando costantemente il sito e impegnandosi su base volontaria nella sua conservazione e pulizia.
Con il tempo, Kurapaty è diventato luogo di preghiera per cristiani di tutte le confessioni. E non solo: pur nell’atmosfera asfittica del regime autoritario del presidente Lukašenka, Kurapaty era diventato anche simbolo politico di opposizione attiva.
Per questo motivo è stato oggetto di diversi tentativi di rimozione da parte delle autorità: nel 2001 il governo approvato il progetto di ampliamento della superstrada che attraversa il bosco, costruita negli anni Cinquanta, quando delle fosse comuni nessuno era a conoscenza; poi nel 2014, ha ritirato la tutela per interesse storico-culturale dall’area dove si trova il bosco; poi ancora nel 2017 ha approvato la costruzione di un Centro Direzionale nelle vicinanze del sito delle fosse, su un terreno acquistato nel 2013 con un’operazione illegale, avvenuta quando la stessa zona era ancora sottoposta a tutela.
Ma tutti questi tentativi si sono scontrati ogni volta con la resistenza ostinata dei cittadini, gente comune, attivisti, intellettuali, religiosi, che sono sempre intervenuti compatti in memoria delle vittime della violenza spietata e arbitraria di Stalin e in difesa del sito, che negli anni e nelle traversie ha acquisito un valore simbolico ancora maggiore. Nel 2018 la tradizionale commemorazione è diventata più “grande” e la marcia del 1° Novembre è stata preceduta il 29 ottobre dalla Notte dei poeti fucilati per ricordare intellettuali e poeti caduti nel bosco di Kurapaty.
Dall’altra parte, però, Lukašenka ha proseguito la sua battaglia contro il sito memoriale, inviando nell’aprile 2019 i bulldozer ad abbattere e rimuovere parte di quelle croci che a suo avviso rappresentano “una manifestazione superflua” contro i crimini dello stalinismo, quando in fondo Stalin potrebbe non essere l’unico colpevole. Infatti, come essere sicuri che non siano stati i fascisti a compiere il massacro?
Nel dubbio, il presidente non ha perso tempo, ordinando alle forze dell’ordine di disperdere le manifestazioni di protesta ed eseguire l’arresto di quindici attivisti.
A guardare gli eventi dell’aprile 2019 adesso, sembrano quasi una prova generale di quello che è accaduto in scala aumentata nel novembre scorso, quando i bielorussi si sono messi in marcia verso Kurapaty per la tradizionale celebrazione, esponendosi al rischio di ritorsioni da parte del regime, impegnato con ogni mezzo a reprimere l’ondata di proteste pacifiche iniziata nell’agosto 2020, in seguito alla rielezione controversa e contestata del presidente.
La celebrazione, come era prevedibile, è terminata con l’arresto di 231 persone, accusate di aver organizzato un’azione che viola gravemente l’ordine pubblico, reato punibile con il carcere fino a tre anni.
Una reazione, quella del governo, che ha moltiplicato le sue forze rispetto al passato, ma allo stesso tempo si sono moltiplicati e si moltiplicano gli spazi di opposizione e dissenso ben al di fuori dal tormentato perimetro di Kurapaty, il bosco che c’era e c’è ancora, con i suoi alberi silenziosi, le sue croci e le sue voci contro le violenze di ieri e di oggi. Una voce che in questi mesi grida più alta e più forte.
E’ probabile che non tutti siano in grado di collocarla con precisione sulla carta geografica, persa com’è nel mucchio di nuovi stati emersi dalle macerie dell’URSS, eppure la Bielorussia è il centro geografico d’Europa. E centrale non è solo per la geografia, ma anche per la storia e la memoria europea. Questo piccolo paese, di appena trent’anni di storia e poco più di nove milioni di abitanti, infatti, porta sul volto i segni profondi di una tragedia collettiva, la Seconda Guerra Mondiale, che su questo lembo di Europa Orientale si è abbattuta con furia maggiore che altrove, trapassandolo più volte da più parti e aprendo voragini che non si sono mai più rimarginate.
E’ una pagina di storia poco nota, ma i fatti e le cifre che la raccontano sono spaventosi. La Bielorussia ha pagato un prezzo altissimo per la sua posizione geografica, esposta da ogni lato alle violenze delle forze contrapposte: da una parte la Germania Nazista, dall’altra l’Unione Sovietica, che già prima della guerra aveva provveduto a seminare morte nella zona negli anni terribili delle persecuzioni staliniane. Le perdite furono immani. Nel secondo conflitto mondiale la Bielorussia ha perso circa 3 milioni di persone, pari al 30 percento della sua popolazione totale.
Fra le perdite – di persone, case, villaggi, culture – molte appartenevano al mondo ebraico. Quella degli ebrei bielorussi è una storia di secoli, che ha avuto inizio nel 1400 circa. Sul finire del 1700, sotto l’impero di Caterina II di Russia, la presenza ebraica è diventata un tratto caratterizzante del territorio. In quegli anni l’imperatrice emanò un decreto che confinava la popolazione ebraica dell’impero russo nella “zona di insediamento” compresa fra il Baltico e l’attuale Ucraina. In Bielorussia la presenza ebraica passò da circa 80mila persone nel 1648 a 910mila nel 1897. Nel giro di meno di due secoli quel decreto imperiale si sarebbe trasformato nella condanna alla distruzione del mondo ebraico dell’Europa Orientale, già vessato per decenni dall’antisemitismo russo e impoverito dalle purghe sovietiche, poi annichilito per sempre dalle orde naziste, arrivate in Bielorussia nell’estate del 1941. Non c’è accordo sul numero totale delle vittime dell’Olocausto in Bielorussia. I numeri oscillano fra 600mila e 900mila. Fra quarantamila e sessantamila solo quelle uccise a Malyj Trostenec, il quarto campo di sterminio più grande e probabilmente meno noto d’Europa. Altre sono cadute nei numerosi eccidi perpetrati in maniera spietata e capillare in tutta la Bielorussia e la loro conta potrebbe non essere definitiva in questo territorio dal quale continuano a emergere fosse comuni. Una delle più recenti scoperte risale al 2019, a Brest, città al confine con la Polonia. 1200 persone dimenticate per decenni nel sottosuolo sotto il vai e vieni indifferente di una città che non sa o non ricorda, dove la sinagoga è diventata un cinema e di quelle vite non resta più traccia.
Da quando, con l’Unione Sovietica, è caduto anche il divieto di ricordare, sono apparse lapidi più o meno visibili, memoriali più o meno noti, qua e là qualche comunità ebraica, come a Polack e a Babruisk, ha ripreso la sua vita, ma tutto intorno rimane il vuoto irreversibile di un intero universo sociale, culturale e religioso incenerito dall’odio e dal fuoco delle armi.
Molti sono i villaggi ebraici scomparsi per sempre, ma anche al di fuori del mondo ebraico ci furono centri abitati distrutti dei tedeschi e mai più tornati in vita, come il villaggio di Khatyn, 156 abitanti, civili, chiusi per rappresaglia in un fienile e bruciati dai Nazisti nel marzo del 1943. Solo un uomo è sopravvissuto.
Intanto, le persone combattevano e cadevano anche nelle azioni di guerriglia partigiana, messe in atto dalla popolazione bielorussa contro gli occupanti tedeschi. In Bielorussia erano attivi circa 400mila partigiani; fra questi anche gli ebrei che erano riusciti a sfuggire ai massacri e a unirsi alla resistenza.
Costretti ad arretrare dall’URSS, i tedeschi lasciarono dietro di sé una scia nera, ma il ritorno dei sovietici aprì un nuovo capitolo di violenza. Allontanato il nemico, i sovietici si diedero da fare per punire severamente i collaborazionisti, accusati di attività controrivoluzionaria e tradimento, quest’ultimo considerato il più esecrabile dei crimini controrivoluzionari, punibile con la pena di morte. Gli arresti, i processi, le pene non colpirono solo cariche politiche, funzionari pubblici, rappresentanti delle forze di polizia, ma furono applicati anche a civili che erano rimasti nel proprio posto di lavoro durante l’occupazione tedesca, interpreti, insegnanti, tecnici, impiegati, spesso vittime di una giustizia sommaria.
E poi ci furono ancora le decine di migliaia di bielorussi deportati in Germania e costretti ai lavori forzati, che, tornati in patria, andarono incontro all’ostilità delle autorità sovietiche e a una nuova deportazione nei campi di lavoro in Siberia.
Quando la pace finalmente tornò, nel maggio del 1945, trovò un intero continente ferito, bruciato, ridotto a un mucchio di polveri e rovine.
Quelle macerie diventarono in gran parte d’Europa il luogo dove i sopravvissuti, sconvolti, giurarono che gli orrori della guerra, della violenza e della dittatura non sarebbero accaduti mai più e si impegnarono a costruire un mondo più libero e democratico. E poi poco alla volta abbiamo iniziato a dimenticare. Abbiamo fatto in tempo a classificare le tragedie collettive come un problema esclusivamente altrui, a innamorarci di nuovo degli autocrati e a stancarci della democrazia, che ormai ci appare quasi un vezzo superfluo e poco funzionale di non sappiamo che fare.
La Bielorussia, invece, tornata negli steccati del regime sovietico, è stata separata dalla memoria collettiva europea. I sopravvissuti non riuscìrono neppure a piangere tutti i propri morti, molti dei quali, soprattutto gli ebrei e le vittime della polizia segreta sovietica, stridevano come un elemento dissonante nell’epopea trionfalistica della grande vittoria dell’URSS sul fascismo. E’ passata dalla dittatura sovietica a una nuova autocrazia, caricatura di quella precedente, ma non ha dimenticato, né abbandonato le prospettive di costruire un paese più libero. Anzi, ora sembrano più vive che mai.
Dallo scorso agosto i bielorussi stanno lottando senza armi, a parte il coraggio, per liberarsi del presidente Lukašenka che ha sigillato per ventisei anni il paese nella morsa di un regime corrotto e soffocante. Di fronte alle loro richieste, la reazione del governo è stata di una violenza tale che sembra aver liberato dal sottosuolo gli spettri del passato: arresti di massa, processi farsa, torture, pestaggi. Ma la gente non si ferma. In questi mesi, e forse, silenziosamente già negli anni precedenti, si è data un obiettivo, un progetto, nuovi linguaggi e un’idea di società nella quale in qualche modo sembra risuonare lo spirito di quell’Europa appena uscita dall’orrore della guerra, che voleva immaginarsi libera e solidale. A ben guardare, in questo momento, in Bielorussia non c’è solo parte della nostra memoria, in questo momento in Bielorussia c’è più Europa che altrove.
In un paese dall’economia in affanno come la Bielorussia, il settore IT ha rappresentato per anni una singolare e fortunata eccezione, ma gli ultimi eventi contro potrebbero cambiare il quadro in maniera radicale. Un articolo di The Bell racconta il ruolo delle aziende IT nelle proteste contro il regime e le prospettive per il futuro.
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Fin dalle prime ore del movimento di opposizione a Lukašenka, il canale Telegram Nexta, che in bielorusso vuol dire “qualcuno”, è subito diventato la principale piattaforma social di informazione e coordinamento delle proteste.
Ma per il fondatore di Nexta, Stsyapan Putsila, la lotta aperta al regime è iniziata anni prima, quando ha iniziato a diffondere inchieste su casi di corruzione in Bielorussia.
Fra queste, il documentario “Lukashenka, criminal materials”, del 2019, che racconta il controverso percorso politico del presidente.
La Russia è stata fin dall’inizio una presenza visibile e multiforme sullo scenario delle proteste in Bielorussia. Un articolo del collettivo Meduza prende in esame una delle sue facce, descrivendo il ruolo di editor e giornalisti russi nei media di Stato bielorussi.
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Il documentario Courage, presentato al Festival del Cinema di Berlino, racconta la Bielorussia attraverso le vicende di tre attivisti del Belarusan Free Theatre.
In un’intervista del Calvert Journal il regista Aliaksei Paluyan ripercorre le difficoltà affrontate nel corso delle riprese e riflette sugli ostacoli dell’essere artista in un paese soffocato dall’autocrazia,
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