13 Luglio 2020
Dal sostegno al movimento statunitense alle rivendicazioni locali: intervista ad alcuni afroitaliani che sono scesi in piazza
Ho conosciuto Addes Tesfamariam lo scorso dicembre, quando ho tenuto un laboratorio di scrittura autobiografica insieme a un gruppo di afrodiscendenti all’interno del progetto Teatro Utile dell’Accademia dei Filodrammatici; ma di lei avevo già letto il racconto La maratona continua nell’antologia di scrittrici afroitaliane Future curato da Igiaba Scego (Effequ).
Il 7 giugno, a Milano, l’ho rivista sul palco della manifestazione di solidarietà con il movimento americano Black Lives Matter, insieme a Louis Fabrice Tsimanga (anche lui nel gruppo di scrittura), a Andi Nganso (cofondatore del Festival DiverCity), a Selam del centro sociale Cantiere e a tanti altri. Tutti giovani e con la pelle nera, come moltissime delle persone che li ascoltavano in una piazza affollata nonostante la paura per il Covid.
Ascoltando gli interventi ho ripensato ai testi che il gruppo di scrittura aveva prodotto, necessariamente più intimi e privati, mentre questi erano autentici manifesti politici, pieni delle parole forti che usa chi ha l’abitudine a ragionare e discutere della propria condizione. Mi sono accorta che c’erano molti elementi che non avevo ancora messo a fuoco. E come me, ho pensato, forse anche altri.
Per questo ne ho voluto parlare con loro.
E la nostra conversazione è partita proprio dalla manifestazione del 7 giugno di cui Addes (origini eritree), Selam (anche lei di genitori eritrei) e Andi (camerunense, arrivato qui per studiare a 18 anni) sono stati tra gli organizzatori e dove Fabrice (madre romana, padre congolese) è stato invitato a parlare.
«Dopo quanto accaduto negli Usa con l’uccisione di George Floyd ci siamo subito organizzati: per esprimere la nostra solidarietà alla causa afroamericana, ma anche per portare l’attenzione a quello che Black Lives Matter significa in Italia: vite stroncate come quelle di Abba (il 19enne originario del Burkina Faso ucciso a sprangate a Milano nel 2008, ndr), la condizione dei nostri fratelli e sorelle migranti e delle sorelle che lavorano per le strade, il razzismo che sperimentiamo quotidianamente. Volevamo far capire che un problema c’è anche qui, che la questione del valore delle vite dei neri non è solo statunitense», spiega Addes.
Aggiunge Selam: «In Italia abbiamo le nostre battaglie: per la cittadinanza, perché l’essere straniero non sia un crimine e tutti siano trattati in maniera dignitosa, perché il corpo nero non sia oggetto di razzismo. Le manifestazioni hanno coinvolto le comunità nere di tutta Europa perché la storia di questo continente si basa sul suprematismo bianco, che è stato applicato non in Patria ma all’estero, nelle colonie: il razzismo di oggi è la conseguenza di quella storia. Ma la classe dominante europea non accetta ancora l’uguaglianza».
«Bisogna richiamare i cittadini europei alla loro non verginità: è proprio dall’Europa che la questione del razzismo ha origine anche negli Usa», precisa Andi. «La risoluzione del Parlamento Europeo di qualche settimana fa, con cui si condannano razzismo e ingiustizia è pura ipocrisia, dato che nel frattempo si lasciano le persone morire nel Mediterraneo. Ecco perché durante la manifestazione abbiamo deciso – e siamo state tra le poche piazze a farlo – di gridare i nomi delle vittime della discriminazione in Italia. Per risvegliare l’attenzione.
Perché è come se vi fossero sempre due piani: quello di chi il razzismo lo subisce e quello di chi si ostina a sostenere che non esista.
Per questo occorre un lavoro pedagogico continuo, che è molto stancante».
Questa stanchezza, quasi un’esasperazione nel dover ribadire concetti ancora poco ovvi per una cittadinanza che continua a pensarsi culturalmente (e cromaticamente) omogenea, è lamentata da tutti i miei interlocutori. La fatica maggiore, mi spiegano, non consiste nel contrastare le manifestazioni evidenti di intolleranza (chi si esprime in maniera chiaramente razzista è consapevole di ciò che fa) ma nel richiamare l’attenzione su certi automatismi del pensiero. E del linguaggio.
Come quella definizione “di colore” al posto di “nero” che così poco piace agli afroitaliani e così tanto viene usata, paradossalmente, proprio da chi vuole essere politicamente corretto.
Per fare chiarezza chiedo aiuto a Louis Fabrice: «Sembra un giro di parole. Dici “di colore” e la prima cosa che ti viene da domandarti è: “Quale colore?”. E sappiamo benissimo qual è. Sembra un modo per nascondere un handicap, un eufemismo di quelli che si usano per questioni su cui non c’è serenità: come quando diciamo che qualcuno “è stato portato via da un brutto male” perché parlare di morte e malattia ci fa paura. Ma se usiamo un eufemismo per descrivere il colore della pelle di qualcuno, vuol dire che siamo a disagio. Nel mondo anglosassone si dice of colour, è vero: ma lo si fa per includere tutti coloro che non sono bianchi. Sarebbe bene usare anche qui questo spazio verbale, per dare un ombrello alle tante persone che vengono discriminate ma sono lasciate fuori dal discorso dei neri».
La fatica, mi spiega ancora Louis Fabrice, non nasce solo dal dover fornire continue spiegazioni, ma anche dal fatto che spesso le questioni inerenti al razzismo vengono sminuite. «Fai presente che la blackface è offensiva e il benaltrista di turno ti accusa di occuparti di cose superflue mentre ci sono i migranti che muoiono in mare. Parli dei migranti e ti fanno presente che ci sono i terremotati che aspettano ancora la casa. Io invece penso che sia giusto chiedere tutto: sia rispetto nel linguaggio, sia la possibilità per la gente di arrivare qui attraverso canali sicuri. Perché tra le due posizioni non c’è alcuna dicotomia».
Non c’è, in effetti. Anche perché questo movimento di protesta, che ha fatto sentire la propria voce in molte piazze italiane (da Torino a Trieste, Modena, Roma, Napoli) e che pur non essendo strutturato a livello nazionale certamente conta su un’ampia rete di connessioni, appare inclusivo di ogni battaglia per i diritti: delle donne, della comunità Lgbtq+, dei braccianti agricoli, dei ragazzi di seconda generazione in attesa della legge sullo Ius Soli. E dei migranti, naturalmente. «Qualche settimana fa durante un dibattito qualcuno ha lanciato un provocazione: per operare un cambio di prospettiva basterebbe abolire le frontiere», racconta Andi. «Ed è proprio così.
Viviamo in un sistema in cui ci sono persone che, con il loro passaporto, hanno accesso a un numero limitato di Paesi mentre altri possono andare ovunque.
Allo stesso tempo il capitalismo e la globalizzazione hanno deciso che le merci possono circolare liberamente. Questo genera già un vantaggio del Nord rispetto al Sud. L’essere cresciuto in un paese quasi al 100% nero mi fa analizzare in maniera diversa anche il Black Lives Matter. A volte noi stessi ci dimentichiamo che c’è quella terra lì, l’Africa, che ci guarda. I miei amici che vivono in Camerun sorridono quando leggono i miei interventi sui social, mi dicono: “Finché qui, economicamente, non saremo responsabili dei nostri corpi, le vostre battaglie non conteranno niente”. Quello del passaporto è un punto centrale. Non so, a volte penso che l’unica cosa che potrebbe risolvere la questione sarebbe una migrazione di massa. Perché è il razzismo, alla fine, nasce da lì».
In un’intervista rilasciata qualche giorno prima della manifestazione di Milano, Selam aveva detto: «In questi giorni chiedete ai vostri amici neri come stanno» e questo suo invito mi aveva sorpreso. Io non solo non lo avevo fatto, ma porre la domanda mi sarebbe sembrato scorretto, perché avrebbe significato sottolineare una differenza, quando nella mia personale visione dei rapporti umani il colore della pelle – come altri elementi che ci caratterizzano come aventi origini diverse – non ha e non deve avere alcuna rilevanza.
Ho subito pensato a un articolo letto da poco su Jacobin in cui l’autrice Ottavia Spaggiari scriveva: «L’approccio della cosiddetta color-blindness è ormai considerato un’ideale sterile, incapace di tradursi nel mondo reale. Se ci si ostina ad affermare di non notare il colore della pelle altrui, si svilisce l’esperienza di chi bianco non è, ed è costretto a vivere una realtà in cui ogni minimo aspetto della quotidianità è mutuato dalla lente razziale».
Avevo scoperto di essere colour-blind e avevo appresso che questo non era necessariamente un bene: volevo capire meglio. «Se ti trovassi a camminare da sola per una strada, di sera, ti sentiresti uguale a Andi?» mi domanda Selam. «Be’, ma io sono una donna», obietto subito. «Ecco, appunto: è questa la differenza», risponde lei. «Un uomo che cammina per strada avrà necessariamente un livello di attenzione diverso dal nostro. Noi sappiamo cosa vuol dire dover scegliere attentamente le strade da percorrere e i vestiti da indossare, un uomo può solo fidarsi di quanto gli spieghiamo noi. Per questo invitavo le persone a chiedere ai loro amici neri, molti dei quali avevano sicuramente visto il video di George Floyd: “Come state, come state vivendo questa situazione?”. Magari non avrebbero avuto voglia di parlarne, ma si sarebbe creata un’apertura di dialogo. Bisogna ascoltare e fare domande. E mi riferisco anche ai media: se si parla di razzismo bisogna interpellare i ragazzi italiani figli della migrazione, perché conoscono la questione per esperienza e questo vale più di ogni teoria». Anche Addes mi fornisce una risposta: «Non c’è niente di male a rimarcare le differenze. Anzi, vogliamo usarla la frase fatta: “Il mondo è bello perché è vario”?
La diversità esiste ed è discriminatorio insistere che siamo uguali.
Immagina un ragazzino italiano bianco che si stupisce perché un compagno di classe figlio di immigrati non ottiene su un compito i suoi stessi risultati: ma è chiaro, dato i suoi genitori non parlano italiano! Questa è colour-blindness: voler cancellare le differenze che non ci fanno partire dallo stesso punto».
Il regista afroamericano Spike Lee, lo scrittore afroamericano Ta-Nehisi Coats, la scrittrice franco-marocchina Leila Slimani (e chissà quanti altri di cui non sono a conoscenza) hanno commentato le molte piazze statunitensi ed europee usando la stessa parola: ottimismo. Perché, hanno dichiarato, il numero di bianchi che hanno manifestato insieme ai neri fa ben sperare per il futuro. Ed è successo anche in Italia.
Mi racconta Ester Elisha, attrice e regista (madre italiana, padre del Benin, nella foto qui sotto con la scrittrice italo-somala Igiaba Scego), che era in piazza a Roma e che raggiungo al telefono: «Vedere questa grande partecipazione di persone che non fanno parte della comunità afrodiscendente – tra cui tantissime mamme – mi ha riconciliato con l’umanità. Perché è chiaro che la discriminazione non è un problema dei neri, ma dell’umanità intera. La questione ha mille facce, ma di certo il privilegio bianco e l’idea della whiteness come qualcosa di forte, positivo e migliore, vanno smantellati e sono i bianchi in primis che devono farlo, rendendosi conto di quali privilegi hanno e diventando consapevoli delle domande che non sono mai costretti a porsi».
Louis Fabrice non è rimasto sorpreso dalla nutrita partecipazione di bianchi a Milano. «Essendo la maggioranza, davo per scontata la loro presenza. Mi ha stupito invece che ci fossero così tanti neri, considerato che i numeri delle nostre comunità non sono quelli degli Stati Uniti o della Francia. I bianchi li ho visti molto attivi anche sui social. O, meglio, dovrei dire le bianche. Forse perché già impegnate nella lotta all’oppressione di genere, le donne sembrano avere più facilità a riconoscere altri tipi di discriminazione. Mentre gli interventi fuori luogo in Rete sono stati fatti quasi sempre da “maschi bianchi etero” espressione ormai stereotipata, ma che forse ha qualche ragione di esistere. Comunque concordo sull’ottimismo, anche perché non possono essere i neri a far finire il razzismo. Non può essere l’oppresso a determinare la fine dell’oppressione, a meno di eliminare l’oppressore: ma non è certo ciò di cui stiamo parlando».
Eppure, negli interventi che si sono susseguiti in piazza, a Milano, si sono fatti ripetuti riferimenti a un temuto “effetto moda”. Come se ci fosse l’impressione che una parte di coloro che manifestano in sostegno del BLM lo faccia in nome di una generica solidarietà, di una vaga partecipazione a un movimento globale, senza sapere esattamente quali siano i termini della questione: né negli Usa, né in Europa, né tantomeno in Italia.
Con il risultato di non riuscire a impegnarsi fino in fondo. Certamente – mi dicono tutti i miei interlocutori – gli italiani dovrebbero informarsi di più. Ma Andi aggiunge un altro elemento: «Credo che molti dei ragazzi che sono scesi in piazza in nome del Black Lives Matter, sia italiani sia di origini straniere, non sarebbero disposti a fare lo stesso per la legge sulla cittadinanza. È come se ci fosse una sorta di timidezza. O forse si tratta di disillusione». «Io credo invece che ci dobbiamo dare tempo», interviene Selam.
«Siamo un paese di migrazione recente: io che ho quasi 30 anni appartengono alla prima generazione italiana di origine straniera.
Da una parte dobbiamo costruire consapevolezza nei più giovani; dall’altra dobbiamo considerare che la popolazione straniera in Italia è molto variegata e c’è una grande quantità di white passing (persone che, pur avendo origine straniera, non vengono identificate come tali in base al colore della pelle, ndr) il che fa sì che la tensione sociale non sia per tutti alta allo stesso modo. Penso però che sul tema della cittadinanza, considerando sia i diretti interessati, sia coloro che sono pronti a fornire la loro alleanza, la forza c’è e si potrà lavorare».
Se le questioni sono tantissime (economiche, giuridiche, lessicali) ce n’è un’ultima di cui mi interessa parlare con Esther: quella della rappresentazione della diversità nell’arte.
«Attraverso il mio lavoro di attrice ho cercato di dare il mio contributo alla causa, interpretando ruoli che andassero contro gli stereotipi. Il cinema, la televisione, la letteratura possono fare molto per cambiare la narrazione di una società: perché finché le storie di chi ha origini straniere verranno raccontate da chi è italo-italiano, la narrazione sarà sempre incompleta.
Ogni artista porta il proprio sguardo sulla realtà, dunque più voci avranno spazio, più il racconto si arricchirà di nuovi punti di vista.
Sono da poco partite le riprese di Zero, serie tv che nasce da un’idea di Antonio Dikele Distefano (scrittore italo-angolano, ndr) e ne sono molto contenta. Anch’io sto lavorando ad alcuni progetti su questi temi. La mia fortuna è stata di avere due genitori che mi hanno sempre sostenuta, trasmettendomi l’idea che potessi fare qualsiasi cosa. Per questo vorrei incoraggiare i ragazzi più giovani – che vogliano fare gli attori, ma non solo – a mettersi in gioco, usare le nuove tecnologie per inventarsi possibilità e trovare la loro voce, senza aspettare un’occasione dall’esterno. Mi piacerebbe soprattutto che portassero avanti la lotta contro il razzismo senza cadere nella trappola di farne la loro identità. Vorrei dire loro: combattete prima di tutto per la libertà di essere voi stessi. Il razzismo non siete voi».
(Le foto della manifestazione di Modena sono state scattate da Dante Farricella che ha documentato l’evento per la Rivista Africa; le foto della manifestazione di Milano sono state gentilmente concesse da Cantiere; la foto della piazza romana è una gentile concessione di Esther Elisha).