Giovanna Marini non ha mai voluto essere una cosa sola: musicista, cantautrice, studiosa di musica popolare, insegnante e direttrice di cori, la musica è stata per lei un’ininterrotta scoperta, la possibilità di moltiplicare le vite che le era concesso vivere.
La fragilità ma anche la bellezza del documentario Giovanna. Storie di una voce di Chiara Ronchini sta tutta qui, nel tentativo di raccontare in novanta minuti una figura che non ha mai voluto rinchiudersi in un’identità e un mestiere che fossero quelli e quelli soltanto, tracciando un ritratto che non ha la compostezza dei lavori conclusi, ma il disordine vivace di certi bozzetti preparatori, di certi disegni cubisti che sono fatti solo di sfumature, di profili continuamente assommati.
«Cercavo la musica, e invece trovavo la gente» dice Giovanna Marini davanti a un fondale nero che dissolve lo spazio, e lascia risaltare il suo volto attento e gentile, definito da una luce morbida.
La macchina da presa non la inquadra mai frontalmente, ma si tiene sempre laterale, a volte si avvicina e a volte si allontana in una continua danza di attenzione.
Ai racconti di Marini si alternano filmati di archivio e soprattutto riprese dei luoghi in cui si è esibita, oppure da cui ha tratto i canti politici e sociali che tanto la affascinavano e poi hanno fatto la fortuna del suo repertorio: la musica risuona e intanto scorrono le immagini di un’Italia diversa, marginale e desaturata, fatta di risaie senza più mondine, paesi di pietra ormai spopolati, campi paludosi, fabbriche disertate, vecchi casolari che oggi sono nidi per uccelli.
Capiamo allora che questa è una storia di fantasmi, anche, la storia di una parte di paese che è scomparsa lasciandoci con il prurito della sua mancanza.
C’è una sincerità, un senso di riconoscenza nelle confessioni di Giovanna Marini, qualcosa che è difficile rintracciare in molti personaggi che abbiano raggiunto un minimo di successo o prestigio sociale: mentre altri non fanno che raccontarci le loro vittorie, e come la loro vita sia stata un inesausto brillare, Giovanna Marini si rivela solo in una costellazione di incontri e affetti.
Non si è “fatta da sola”, anzi, si è fatta proprio grazie agli altri, grazie a tutta quella “gente” che le ha affidato i propri canti, grazie a Roberto Leydi che la accompagnò nello studio e nella riscoperta della musica popolare operaia e contadina, e grazie soprattutto a Pasolini che per primo, a una serata letteraria, le cantò una canzone in dialetto friulano.
A lei, che fino a quel momento era solo una giovane musicista diplomata al conservatorio, quella melodia colpì subito, voleva sapere su quale libro fosse scritta. Lui si mise a ridere e le disse che proveniva dalla tradizione orale, non stava scritta da nessuna parte.
Viene il dubbio che di storie Chiara Ronchini avrebbe potuto sceglierne anche solo una: avrebbe potuto raccontare anche solo dell’amica di quell’intellettuale così fuori dalle righe – lui sì, lui davvero bruciava di una luce anomala – del quale ammirava l’intelligenza affilata, ma non soffriva la sua nostalgia, la convinzione che il mondo stesse andando per forza in malora.
Avrebbe potuto raccontare solo della madre che doveva guadagnarsi da vivere, e allora caricava i bambini in macchina e portava la sua musica ovunque, o dell’infaticabile studiosa che cercava le melodie più raffinate per riproporre i canti che scopriva.
Oppure avrebbe potuto raccontare solo dell’insegnante nel quartiere Testaccio e della carismatica direttrice di cori, e io avrei voluto sapere tutto del quartetto di donne con cui girava l’Italia negli anni Settanta, avrei voluto seguirle nel loro furgone impolverato e sapere chi era quella sconosciuta che guidava mentre le altre sonnecchiavano, con una salopette scucita e tutte quelle le mappe sul cruscotto.
Eppure scegliere uno solo di questi profili avrebbe rischiato di appiattire il ritratto di Giovanna Marini a un’icona, e in un festival così affollato di voci e storie plurali mi chiedo se ne abbiamo ancora bisogno, di icone. Di santi e martiri da adorare, di padri e madri intoccabili che ci indichino il cammino.
Ripenso alle immagini dei concerti di Giovanna Marini, ai palchi così affollati di musicisti, ognuno con una storia, una voce diversa, e mi domando se la rivoluzione possa essere qualcosa di molto più piccolo rispetto a quanto avevamo immaginato, qualcosa che non ha a che fare con la conquista del potere ma con la rinuncia al potere.
Se scoprissimo che non è mai stato destino che dovessimo farcela da soli, cavare fuori un talento e imporci sugli altri – se ci scoprissimo strumenti, voci esatte e flebili di un coro, di una melodia che si tramanda da sempre: non sarebbe anche questa una rivoluzione?