Convinti, quando le cose vanno bene e quando le cose vanno male, che ciascuno deve fare il suo lavoro, ci troviamo come redazione di fronte a un evento globale, che concorre a mettere a nudo quelle paure che saranno l’argomento del terzo numero del nostro semestrale cartaceo.
Partendo dal testo di Angelo Miotto, abbiamo deciso – nostra vecchia passione – di lanciare un Decameron online, nella vecchia tradizione, di fronte alle paure, di riunirsi attorno al fuoco (della passione narrativa) e di raccontarsi storie.
Mandateci il vostro racconto di questi giorni di Corona virus, tra allarmismi, improvvisati esperti, legittime paure e doverose cautele. Va bene, al solito, qualsiasi linguaggio: audio, testo, video, foto. Inedito o citando altri. Scrivete a redazione@qcodemag.it e noi vi pubblicheremo.
Il contagio delle storie – 7
Cronache da una gita – Paola Mormina
La notizia della chiusura della Lombardia mi rimbalza addosso sabato sera, seduta in un ristorante a Sestri Levante. Intenta a leggere il menù con le proposte del giorno, una voce dall’inconfondibile cadenza lombarda taglia quella piacevole brezza ligure, “fammi chiamare i carabinieri per capire se riusciamo a rientrare su”.
Dentro il ristorante la cameriera balbetta, non riesce a spiegarsi. La gente si alza velocemente svuotando il locale; scusate ma si è appena scatenato il panico qui adesso, dice sospirando.
Il polipo e le trofie al pesto, buonissime, scendono in silenzio, sia mai che sentano la mia cadenza capendo che io sono una di quelle irresponsabili che è uscita dalla Lombardia per andare ad infettare il mondo, perché c’è quasi da sentirsi in colpa ad essere vivi in queste settimane. Avevo un biglietto aereo per il Portogallo in tasca, viaggio programmato un mese e mezzo fa. Volo low cost, tutto perfetto: finalmente un po’ di relax dopo almeno 6 mesi che non uscivo neppure per un week end dall’area C, ma poi qualcosa è cambiato. “Mia madre deve stare in quarantena, il suo dentista ha il coronavirus e lei è stata lì settimana scorsa”, il cellulare lampeggia e lo schermo si accende su quel whatsapp che m’impone uno stop.
Niente Portogallo, dai. Mi dispiace per la mia amica, ma in fondo anche io ho una tremenda paura, paura di come le cose possano cambiare e travolgerti mentre sei lontano, fuori dai confini del tuo paese, ed è curioso come sia proprio quest’occasione a ricordarmi ancora una volta che i confini restano un’entità puramente astratta.
Ho iniziato a respirare di nuovo soltanto venerdì, appena ho visto il mare poco fuori Genova. Strano per me che con l’acqua ho un rapporto piuttosto diffidente, soprattutto quando il mare è aperto e profondo. Ma solo in quello spazio così libero trovavo lo stimolo a respirare a pieni polmoni, per questo la decisione di andarmene comunque via aveva preso il sopravvento, ma spesso si fugge dalle situazioni opprimenti per poi ritrovarle in ogni angolo amplificate nella sua forma, e anche lì la parola coronavirus era dappertutto.
Quello “state a casa” rimbombava da tutte le parti, fastidioso come una lisca di pesce incastrata tra i denti, io che non lo sopportavo manco a 16 anni quando a dirmelo era mio padre. “C’è qualcun altro in hotel?” chiedo al gestore dell’albergo di Rapallo la mattina seguente mentre mani nervose mi preparano il cappuccino, immerse come ogni altra cosa lì dentro in un silenzio surreale. “No. Aspettavo una coppia dal Piemonte stamattina ma mi hanno appena chiamato, non vengono per il virus”.
Sulla pedonale per Portofino penso a mia madre, lei che era davvero malata gravemente e sapeva di dover morire eppure non aveva paura, e poi a mio padre, che vive lontano da me ed è diabetico con problemi polmonari pregressi. Penso che in questi momenti si desideri calore umano, famiglia, e in mancanza di questo era stato solo puro istinto di sopravvivenza a spingermi tra la bellezza di quel paesaggio che passo dopo passo si apriva ai miei occhi, forse non dovevo necessariamente sentirmi in colpa.
Ci sono cose che sfuggono al nostro controllo, questo forse dobbiamo imparare, e il virus adesso ce lo sta insegnando. Gli esseri umani pensano di poter dominare tutto ma è sempre e solo la potenza della natura a rimettere le cose al suo posto gerarchicamente ricordandoci che siamo abbastanza insignificanti, ma soprattutto mortali. Sorprende come la nostra razza s’impegni ardentemente ad arginare tutto ciò che non dipende direttamente da lei, mentre non ha nessuna voglia di fermare la distruzione che perpetua proprio con le sue mani.
A Camogli il tempo si è fermato, anche se la barista è impegnata a distanziare ben bene i tavoli tra di loro, almeno un metro, mentre la focacceria ti lascia fuori in fila, perché se dentro ci sono due persone insieme e passano i controlli poi arriva la multa. Lo starnuto di un cane seduto per terra affianco a me mi strappa un sorriso, almeno lui è ancora libero di farlo pubblicamente senza doversene troppo preoccupare.
“Sei credente? Se ci credi allora prega, perché i miracoli possono sempre accadere”, mi disse un medico molti anni fa, quando la medicina aveva esaurito il suo compito con mia madre.
Ovviamente io non l’ho fatto, e ovviamente le preghiere non ci salveranno dal coronavirus. Ma forse credere che questa cosa prima o poi passerà, può fortificarci. La fiducia nel fatto che questa cosa detterà un cambiamento, un miglioramento, deve motivarci.
La paura dall’Esselunga milanese al supermercato australiano ha dimostrato ancora una volta che siamo tutti uguali e fragili, e alla fine anche i temibili incendi australiani si sono spenti da soli dopo mesi. Serve pazienza, pensavo lavandomi ferocemente le mani appena rientrata nel mio appartamento milanese per poi chiudere la porta. Bisogna stare a casa, è doveroso farlo adesso per il bene di tutti.