Elogio del margine

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30 Gennaio 2022

Conversazione con Helena Třeštíková Dispacci dal Trieste Film Festival – 5

«Resto sempre in contatto con i soggetti dei miei documentari, anche dopo la conclusione del film, e non potrebbe essere altrimenti: ognuno di loro diventa parte della mia vita.»

L’eco del Trieste Film Festival non si è del tutto esaurita, e la voce di Helena Třeštíková risuona calma e decisa nonostante le intermittenze della conversazione virtuale. Sullo schermo del computer i riquadri delle nostre abitazioni sono zattere sospese in diversi punti d’Europa: io mi collego da Milano, lei da Praga, città in cui è nata nel 1949 e che non ha mai lasciato – non ne aveva motivo: se ci sono autori che traggono ispirazione solo mettendosi in viaggio, incontrando storie e mondi lontani, nei suoi documentari Třeštíková posa l’attenzione su ciò che le accade intorno, e in particolare su soggetti e storie marginali, invisibili ai più. È poi questo che insegna ai suoi studenti della FAMU di Praga: avere pazienza e affilare lo sguardo, perché «se la realtà ci appare così chiara e leggibile forse è perché non la stiamo guardando abbastanza.»

Di pazienza ce n’è sicuramente voluta per realizzare René, presentato al 33° Trieste Film Festival: un documentario crudo e ipnotico che racconta vent’anni di vita di René Plásil – scrittore, ladro recidivo, intellettuale cinico e lucidissimo che ha trascorso gran parte della sua esistenza in carcere, sperimentando brevi periodi di libertà.

Proprio in carcere avvenne l’incontro con Třeštíková: «Era il 1989, René era ancora un adolescente. Al tempo mi interessava il mondo del carcere minorile, volevo capire come l’esperienza della prigione in giovane età avrebbe poi influenzato la vita e le scelte dei ragazzi, una volta usciti. Scelsi di di concentrarmi su cinque soggetti, e tra questi c’era René. Rimasi subito colpita dalla sua intelligenza, dal suo spirito polemico e sempre lucido. Inevitabilmente il racconto si è poi concentrato su di lui

Inevitabilmente dice Třeštíková, e nella fatalità di questo avverbio, in questo lasciar intendere che le cose potevano andare solo così e non altrimenti, risiede forse il cuore non solo di ogni documentario, ma di ogni racconto che si possa dire riuscito: quella sensazione in cui le cose si distaccano da noi, e ogni lavoro inizia a pulsare di vita autonoma. «Sai, all’inizio hai un’idea ipotetica di come il film perfetto dovrebbe essere, ma alla fine i film creano la loro storia e tu puoi soltanto seguirla e riprendere quello che accade. D’altronde se non fosse così, se non scoprissimo niente di nuovo, avrebbe senso fare questo mestiere?»

René non è l’unico film in cui Helena Třeštíková si concede di seguire un soggetto per molto tempo. L’osservazione a lungo termine rappresenta anzi la sua specialità: lo dimostrano i sedici anni da cui scaturisce Anny, che con delicatezza e calma inscalfibile ci racconta la vita di una sex worker; o i trentacinque anni di A marriage story, un documentario che è poi anche una paziente dissezione di un matrimonio come tanti, in cui Ivana e Varclav consumano la propria quotidianità senza grossi drammi, ma senza neanche la certezza di essersi mai veramente amati. 

Eppure da questo tempo incredibile Třeštíková distilla soltanto un’ora o due.

«Il montaggio,» ammette con un leggero sorriso, «è senz’altro la parte più difficile e però anche vitale di questo tipo di lavori. Mentre riprendi sei immerso in quello che accade, non ti rendi davvero conto di cosa ti servirà. Io dopo ogni giornata ripresa preparo una trascrizione scrupolosa di ogni scena girata,» mi dice, e poco dopo estrae dalla massiccia libreria alle sue spalle un blocco di un centinaio di fogli protocollo rilegati insieme.

In molti si sono interrogati su quale sia l’approccio giusto da adottare quando scegliamo di raccontare la vita di una persona, su quale sia il confine che separa la curiosità genuina dal voyeurismo e dalla violenza, ma se esiste un codice etico del documentario deve essere lì, tra quelle pagine pazientemente compilate che Helena Třeštíková sfoglia davanti ai miei occhi, dove ogni momento del suo rapporto con René è appuntato senza omissioni o gerarchie.

«Questa per me è una preparazione fondamentale prima di entrare in sala di montaggio. Dopodiché inizia il lavoro vero e proprio, a cui collaborano non solo i produttori, ma anche drammaturghi e script editor che ci aiutano a definire la storia. Così insieme al montatore condensiamo lentamente il film in una forma più breve

Forse è per l’inglese imperfetto in cui traghettiamo le nostre conversazioni, ma il termine condensare mi arriva nella sua accezione fisica prima che figurata, e davvero capisco che raccontare una storia non è altro che questo, assecondare un passaggio di stato, dalla materia scivolosa dei giorni salvare l’essenziale e lasciare che pian piano si rapprenda, arrivando a solidificarsi in forma definita.

«Pensa che una prima versione del film risale al 2008: ebbe un certo successo, partecipò a molti festival internazionali e vinse il premio come miglior documentario all’European Film Festival. Il massimo che si possa sperare, per lavori di questo tipo. Eppure io sentivo che c’era ancora altro da scoprire. Quella prima versione si concludeva con un tentativo di furto da parte di René nel mio appartamento…» Helena Třeštíková si concede una breve risata. «Mi sembrava un gesto così assurdo,» continua, «qualcosa che nemmeno il miglior sceneggiatore avrebbe potuto immaginare. Il nostro rapporto avrebbe potuto interrompersi lì, e invece proprio da quel momento ho capito che volevo andare avanti, scoprire ancora altro di lui. René è una combinazione insolita di intelligenza e asocialità, non ha mai smesso di affascinarmi. Ho ricominciato le riprese immediatamente dopo la conclusione del primo film, e poi sono andata avanti. Per altri 13 anni.»

La Storia, con i suoi magnifici eventi, la dissoluzione del comunismo, le rivolte in piazza, i governi che si avvicendano, resta un sottofondo annoiato nella vita di René: gli annunci dei notiziari rappresentano l’unico indizio che il tempo continui a scorrere, ma la città ritagliata oltre la finestra del carcere non è qualcosa che si possa davvero toccare o comprendere.

La regista sembra essere l’unico legame con il mondo esterno, anche nei brevi momenti di libertà, che René spreca perlopiù vagabondando per la città o prendendo treni senza una direzione precisa.

Eppure il loro rapporto non è mai del tutto pacifico: se da un lato Helena Třeštíková rappresenta la sua unica amica, lo incoraggia nella scrittura (il film è scandito dalle lettere che René le scrive e poi legge ad alta voce), dall’altro assistiamo anche a momenti in cui René la accusa di voler sfruttare la sua vita.

«Non mi piace vedere un film in cui il creatore e il protagonista sono sempre in armonia,» confessa Třeštíková, «quel tipo di uguaglianza è qualcosa che devi ricercare continuamente, non è mai data una volta per tutte. E poi la vita è anche discussione, soprattutto quando incontri una mente brillante e polemica come quella di René: rinunciare a questo aspetto sarebbe stato come mentire, e invece io ricerco l’autenticità. So che in lavori così complesso autenticità può apparire un concetto controverso, ma se dovessi darne una definizione direi che non voglio ci sia differenza tra come le persone appaiono a telecamere spente o accese. Ecco questa è l’autenticità, questo significa cogliere la vita nel suo fluire. E naturalmente questo effetto lo ottieni solo dopo lunghi periodi di tempo

È proprio questa autenticità ciò che più affascina del film di Třeštíková, la rinuncia a facili rappresentazioni: il fatto che René non sia mai una vittima o un eroe maledetto, ma anzi un co-autore che rivendica la propria libertà, con la rabbia inestinta di un personaggio letterario che non fa che peregrinare di romanzo in romanzo, senza mai volersi adeguare a una trama.

Del resto la marginalità non è solo uno spazio di privazione, ricordava bell hooks, scrittrice e attivista mancata questo gennaio, che ha fatto della propria identità (donna, nera, proveniente dalla classe operaia) un punto di forza, la possibilità di sviluppare uno sguardo personale ed esclusivo sul mondo: «la marginalità» scriveva, «è un luogo radicale di possibilità, uno spazio di resistenza.»

Mi appare allora chiara l’importanza di esperienze come il Trieste Film Festival, ecosistemi in cui proliferano film che difficilmente troverebbero spazio nei circuiti ufficiali.

Non è allora un caso che gran parte degli autori proiettati al festival fossero autrici (proprio al contrario di quanto accade normalmente), e che queste autrici portassero nei loro lavori – giacché il semplice essere donna non basta per sperare in una rivoluzione – mondi, personaggi, situazioni che raramente ci capita di vedere nelle sale cinematografiche.

«Negli ultimi anni gran parte degli studenti ammessi nella scuola in cui insegno sono donne,» dice Třeštíková, «è un dato che mi fa piacere ma su cui mi soffermo fino a un certo punto: non le scegliamo per il loro genere, ma perché sono più meritevoli. E aggiungo che in Repubblica Ceca, ma nell’Est Europa in generale, c’è una scena di registe estremamente interessante. Senz’altro qualcosa sta cambiando, non era così quando io ho cominciato. Vedremo cosa succederà, ma c’è un vento nuovo che spira. E bisogna seguirlo