Gli acidi mi hanno fatto male. Narrazioni operaie dalla Viscosa di Roma

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3 Dicembre 2020

Recensione dell’ultimo libro di Niso Tommolillo

“Posto su un terreno ondulato, ricco d’acqua, elemento indispensabile a questa industria,  lo stabilimento si presenta come una massa enorme di bianchi fabbricati, i quali si tre file,  si seguono gli uni agli altri […]. Appena entrati vi prende il silenzio, l’ordine; l’alacrità:  è una macchina gigantesca che pulsa insieme con il ritmo delle altre, accolte dentro gli ampi  capannoni”.

G. Nerbini – Industrie romane. L ‘industria della seta artificiale. 1925 –

Roma, la città eterna. Tantissimi di noi sono passati per la Prenestina, lunga direttrice che da Porta Maggiore consente di arrivare nella zona est della capitale. A un certo punto, percorrendola, in tanti avranno notato un’infinità di capannoni, una zona industriale li sulla sinistra in prossimità del quartiere Pigneto. Forse in tanti e tante si saranno chiesti cosa fosse. Una lunga zona perimetrale apparentemente inaccessibile nel verde di una città in abbandono. Dietro quelle mura e accanto al presidio territoriale del centro sociale EXSNIA esisteva una fabbrica storica: la Viscosa. 

Niso Tommolillo è un antropologo, e nel suo primo libro Gli acidi mi hanno fatto male. Narrazioni operaie dalla Viscosa di Roma edito per i tipi de Il Galeone, ci riporta dentro la storia di quelle operaie e operai che hanno animato le vicende di quella fabbrica e del quartiere intorno ad essa. Gli acidi mi hanno fatto male è un’etnografia profonda e spassionata, una ricerca solida dentro le storie, parafrasando Demaziere e Dubar da leggere tutta d’un fiato.

Forse in pochi sanno che ogni operaio assunto, minorenne o maggiorenne, fosse periodicamente schedato dall’istituzione. Una pratica, che ancor prima dei reparti di confino, aveva il compito di schedare attitudini e caratteristiche del soggetto. Pochi sanno o si immaginano che quei documenti, alla pari delle cartelle cliniche delle istituzioni totali par excellence come le carceri e manicomi, contenessero all’interno storie specifiche di normali cittadini che di lì a poco avrebbero costituito l’anello indispensabile per la produzione di capitale, trasformandosi in operai e operaie. Niso Tommolillo ha dedicato anni di archivio impegnati a scovare questi rari documenti, facendoli riemergere per poi imbastirne una ricerca e un volume magistrale.

 

La copertina del libro, dal sito di edizioni Il Galeone

 

Sono 163 le pagine dense di narrazioni e riflessioni. Un libro che si struttura con un indice preciso di tre capitoli. Un capitolo dedicato alla storia della Viscosa e alle modalità di realizzazione della ricerca, uno che traccia le storie di chi animò quei capannoni e la storia di un movimento operaio in divenire e un ultimo capitolo, una postfazione conclusiva di Osvaldo Costantini, antropologo e docente di Antropologia Culturale che fa il punto su un lavoro coraggioso.

Tommolillo realizza con il suo volume un’operazione bellissima. Attraverso le schede degli operai ricostruisce dei personaggi parlanti. Romanza con dolcezza e forza le storie di alcuni di loro ricostruendone in punta di piedi le loro identità dimenticate. L’identità mutevole di chi, da semplice cittadino, diventa operaia e operaio nella Roma degli anni venti. Quella di Tommolillo è una scelta metodologica che, come scrive nelle prime pagine del volume rappresenta: “un atto di coscienza, un’assunzione di responsabilità civili, sociali e addirittura morali dello studioso, una presa di distanza dalla presunta neutralità del sapere scientifico distinto dalla politica”.

Un esercizio comune a una letteratura antropologica che ha visto spesso utilizzare questo utensile per poter scolpire storie di vita dimenticate e subalterne. Basti pensare all’immensa letteratura sui manicomi e sulle carceri dove l’unico modo di raccontare la vita umana fu quella di tradurre in parole le cartelle cliniche dei ristretti. La fabbrica è istituzione totale poiché, come l’autore sottolinea a più riprese, la sua organizzazione riesce per esigenze produttive e di controllo sociale a totalizzare e entrare a gamba tesa nelle vite delle operaie e degli operai scandendone tempi di vita e di morte.

Tempi di vita perché il welfare aziendale spinto all’inverosimile scandisce la giornata dell’individuo sostenendolo apparentemente in ogni suo bisogno primario.

Tempi di morte invece, perché è in mano all’istituzione fabbrica fatta di politica, scienza medica e capitale a decidere se un individuo fosse più o meno adatto a un reparto specifico, abile o meno al maneggiare sostanze tossiche e cancerogene e di conseguenza degno della vita.

La storia dell’opificio della Viscosa, destinato alla produzione di seta artificiale della Società Generale Italiana della Viscosa ha inizio il 5 settembre del 1923. A pieno regime furono circa 3000 gli operai e le operaie assunte. La scelta della direzione fu quella di assumere al suo interno una percentuale pari a circa il 40 per cento di manodopera femminile. Operazione utile al mantenimento di investimenti salariali bassi. Le donne venivano semplicemente pagate di meno degli uomini e, avere in stabilimento un’elevata percentuale femminile, sopperiva pienamente all’obiettivo dell’amministratore delegato piemontese Fassini.

Tommolillo centra il punto e riesce plasticamente nell’esercizio di restituzione di una ricerca complessa a un pubblico ampio. Un libro che interessa la dimensione sociale operaia forse più intima, quella della malattia professionale. Fulcro attorno al quale l’autore fa ruotare la narrazione.

Furono infatti centinaia gli operi e le operaie che si ammaleranno a causa del lavoro in Viscosa. Tommolillo riflette sulla dimensione sociale della malattia attraverso un approccio figlio di una tradizione storica, quella “dell’antropologia della malattia” che vede autori come Philippe Bourgois utilizzare le biografie come lame affilate utili al disvelamento della brutalità della storia e della società. Tommolillo – detta alla Bourdieu – esercita a pieno questo sport restituendoci uno spaccato storico capace di farci riflettere sul contemporaneo.

I capannoni della SNIA Viscosa, tratto dal sito "Centro documentazione territoriale Maria Baccante Archivio Storico Viscosa"

Gli acidi mi hanno fatto male. Narrazioni operaie dalla Viscosa di Roma, mi perdoni l’autore, è sì, un libro di ricerca, ma è anche una perfetta sceneggiatura di un film ancora da realizzare. Un insieme di battute capaci di riportarci attraverso una rara semplicità di un linguaggio, all’interno di quelle catene di montaggio e all’interno di quelle case operai anguste che attorniavano la fabbrica, facendoci percepire l’odore acre del filato e l’intensa pressione del regime fascista.

Al centro delle storie di queste “cartelle operaie” che ne descrivevano attitudini, capacità e ideologie Niso ritrova i profili dei protagonisti di una storia emblematica dell’imprenditoria tessile italiana e del suo proletariato.

Come spesso accade in queste storie sono i primi giorni di lavoro, le aspettative dei lavoratori e delle lavoratrici a darci uno spaccato della speranza di chi vede la propria chimera all’interno della fabbrica. Come spesso accade sono le prime ricadute sanitarie a ribaltare le storie personali.

Si chiama Alessandra. E’ questo il nome che Tommolillo dà a una delle operaie della Viscosa. Attorno a questa figura ruota la storia. La storia di una Roma nell’immediato post dopo guerra e dei suoi affetti più cari, la storia di un quartiere e di una fabbrica che come una vicina di casa è per la protagonista colei da cui andare a bussare per chiedere aiuto. La fabbrica le aprirà le sue porte di lì a breve.

Accanto ad Alessandra si materializzano altri operai che vivono parallelamente le loro vicissitudini operaie, i soprusi del sistema fabbrica e la violenza della malattia professionale, spesso celata e mai riconosciuta. La Viscosa chiuderà nel 1959.

Parte degli spazi su cui ricadeva l’impianto, al centro di tentativi di speculazione immobiliare furono, nel febbraio del 1995, restituiti alla collettività attraverso l’occupazione dello stabilimento ormai in abbandono e alla nascita Centro Sociale autogestito e autofinanziato EXSINA.

Parte di queste storie sono frutto di immaginazione potrebbero dire alcuni ma, parte di queste storie, sono anche il frutto di un lavoro di adattamento che vede la freddezza del profiling costruito dal potere incrociato a dolcezza e capacità dell’autore di ridare politicità a questi uomini e queste donne attraverso le parole. Tentativo pienamente riuscito quello di dipingere i contorni di una storia lontana nel tempo ma paradossalmente contemporanea. Tommolillo conosce e vive nel quotidiano le storie odierne delle fabbriche. Ne conosce i contorni e le sostanze. È forse questa sua presenza nel mondo reale e una conoscenza della materia che maneggia con cura a legittimarlo nelle ricostruzioni delle storie datate quasi un secolo.

La SNIA Viscosa, oggi. Tratto dal sito "Rerum Romanarum"

Gli acidi mi hanno fatto male. Narrazioni operaie dalla Viscosa di Roma, affronta la storia della Viscosa. Facendolo ci porta come una macchina del tempo all’interno degli impianti dell’Isochimica di Avellino, nei reparti di confino della Fiat di Pomigliano piuttosto che nei cantieri dell’ILVA di Taranto. Un contemporaneo viscoso di cui si muore ancora e di cui forse dovremmo vergognarci.

Gli acidi mi hanno fatto male è un libro per un pubblico ampio. Mi permetto di consigliarlo a chi si avvicina alla ricerca sociale come a chi fosse appassionato di reportage e giornalismo di inchiesta o, perché no, a quei tantissimi documentaristi e registi che sono alla ricerca di una storia da raccontare attraverso le immagini.

Ordinate questo libro nella vostra libreria di fiducia, acquistatelo direttamente dal sito web dell’editore Il Galeone. Sostenete queste piccole esperienze e questi autori che esercitano un compito oggi non semplice, quello di raccontarci spaccati della nostra storia spesso relegati al silenzio.