Si seppe della sciagura la mattina del 4 maggio: era stato verso le otto e mezza, un’esplosione al Camorra, un’esplosione spaventosa; avevano visto una gran nube di fumo uscire dalla bocca del pozzo, un boato sordo. Baseggio, il caposervizio, era ferito anche lui, alla testa, lo avevano portato a Massa, all’ospedale. Eppure Baseggio non era ancora entrato sotto, alle otto e mezza. L’esplosione l’aveva colpito lassù, all’esterno. Certo la prima ‘gita’ del Camorra era sparita, tutti morti, cinquanta o sessanta, chissà. Le notizie che si diffusero subito erano vaghe e contraddittorie, ma la gravità del disastro fu subito chiara a tutti: le esperienze precedenti avevano insegnato che una esplosione in una miniera di lignite, e in particolare una miniera ‘difficile’ come quella di Ribolla, assume sempre proporzioni tragiche.
Negli anni ’50 l’Italia si domandava chi fosse? Oggi, dopo tutto questo tempo, non è detto che la risposta sia stata trovata, non è detto che la risposta esista.
In quel tempo, come è stato in altri tempi e sarà ancora, si viveva una delle infinite transizioni italiche: economiche, politiche, culturali. E d’identità.
Due scrittori, differenti e simili allo stesso tempo, cercavano tracce di un racconto sull’identità tra le colline della Maremma.
Carlo Cassola e Luciano Bianciardi sono stati due intellettuali veri, di razza, del tipo che si pone domande. Del tipo che nella letteratura, in maniera diretta o indiretta, vedono anche uno strumento sociale.
I due si sono incontrati nelle lotte politiche e civili contro la cosiddetta Legge truffa del ’53, decisero che le radici della malattia italiana che mostrava i suoi sintomi nella disillusione dei valori della lotta partigiana potessero e dovessero essere cercati nella provincia italiana. Perché magari là era anche la cura.
Mentre lavoravano a quattro mani a un’inchiesta letteraria in Maremma, il 4 maggio 1954, una devastante esplosione nella miniera di lignite a Ribolla – un villaggio minerario di proprietà della Montecatini – uccide 43 lavoratori.
Non è stata la fatalità, ripetiamo: la sciagura è successa perché non si teneva in sufficiente e doverosa considerazione la vita dei minatori. Esistono quindi responsabilità ben precise e accertate, da parte della direzione della miniera che ha diretto i lavori in quel modo, e da parte della società Montecatini che ha accettato e forse anche sollecitato un simile procedimento.
In fondo le conclusioni dei due scrittori coincidono con quelle della commissione d’inchiesta, ma la Montecatini offrì risarcimenti alle famiglie delle vittime, che non si costituirono parte civile; il processo si concluse – dopo la pubblicazione del libro, che venne pubblicato da Laterza nel 1956 – con l’assoluzione di tutti gli imputati. La tragedia del lavoro divenne una ‘terribile fatalità’.
In I minatori della Maremma, libro capolavoro di Cassola e Bianciardi, che MinimumFax ha il grande merito di aver ripubblicato in una bellissima edizione a fine 2019, c’è molto di più. C’è una storia della Maremma, c’è una storia d’Italia. E una grande lezione di quello che può fare la letteratura quando incontra il giornalismo, e viceversa.
Per trovare un assaggio di reportage, con gli autori che camminano nei vicoli di questi villaggi minerari cresciuti attorno alle miniere della Maremma, bisogna aspettare pagina 158. Per trovare il virgolettato di un minatore, l’oggetto che diventa soggetto del racconto, bisogna aspettare pagina 94.
Lo stile non è giornalistico, non usa il tono di voce del reportage, se non raramente. Anche se di giornalismo, quello vero, c’è lo sguardo. Nei dettagli e nel non mettersi mai davanti alla storia. Eppure ci sarebbe tanto da dire, perché quel 4 maggio 1954, quando la notizia arriva, Bianciardi è tra i primi ad accorrere sul posto. E i morti li conosce uno a uno, li ha frequentati per tanto tempo, ci ha giocato a carte e ci ha bevuto vino.
Siamo davanti a una fotografia letteraria. Una sorta di mania per i dati, anche minimi, assale i due autori che da un lato si aggrappano ai numeri, come a voler – da scrittori – urlare la realtà dei loro racconti. Numeri, cifre, dati: un manifesto. Non siam qui a inventare nulla, questa è la storia di generazioni di uomini e di donne della Maremma, i figli della miniera.
In quelle pagine, però, c’è un mondo intero. Quella dell’entroterra che viveva a giornata, quella dei contadini che sognano di diventare operai. C’è la storia stessa di quelle miniere che fin dagli Etruschi sono innervate in quella terra. E ciclicamente, l’aumento della produzione dei profitti, raccontano di salari che restano uguali e manodopera sfinita.
Raccontano la storia stessa del movimento operaio: le prime Mutue, le Leghe, i sindacati e i partiti. Uomini che, uscendo alla luce giorno per giorno, affascinate dalle figure dei primi predicatori politici, anarchici o comunisti, scoprono di avere dei diritti.
Un’epopea umana, politica e mineraria. Fino all’avvento del fascismo e alla Liberazione. E Cassola e Bianciardi, prima di portare – rispettivamente a Roma e Milano – le loro battaglie culturali, raccontano un’odissea di provincia.
Che porta i suoi morti, le sue storie. Una grande lezione di giornalismo, da parte di questi due scrittori, arriva dallo stile asciutto. La povertà, la fatica, non vanno ‘dipinti’, non sono elementi di colore. Vanno raccontati. Tutta la parte finale del libro è dedicata a loro, con nomi e cognomi, una Spoon River della miniera, della povertà, dello sfruttamento. E della memoria.
La memoria è un’altra grande ferita, in Maremma e in Italia. Perché quel mondo di fame e miseria, dove un operaio su due era gravemente malato di lavoro, è rimossa in una serie quotidiana di morti sul lavoro e di migranti – merce. La memoria è la ferita, della Maremma e dell’Italia, della barbarie fascista.
Qualche tempo fa, a Grosseto, si voleva dedicare una via a Giorgio Almirante. Fu proprio lui uno degli italiani coinvolti nella strage di Noccioleta, borgo minerario dove una casta di fascisti locali, dopo la caduta del fascismo nell’estate del ’43, non accettava che le cose fossero cambiate. E usò il braccio armato delle SS naziste per punire quei ‘rossi’ che non stavano più chini a lavorare o in carcere. Fu un eccidio: tra il 13 e il 14 giugno 1944, furono 77 i minatori giustiziati sulla strada per Larderello, 21 quelli deportati in Germania. In tutto perirono nella strage 83 operai di Niccioleta.
Cassola, per anni, fu perseguitato da quella strage. Un partigiano come lui, operativo in quella zona, pochi giorni prima dell’eccidio guidò un’azione che portò alla morte di otto soldati tedeschi. L’idea che l’eccidio fosse la rappresaglia per quell’attacco tormentò Cassola, fino al processo dei responsabili, che chiarì come i due fatti non fossero legati. Ma Cassola non scrive nulla, nell’inchiesta, non si mette davanti alla notizia.
I minatori della Maremma è un libro epoca, un libro mondo. Un’Italia che non c’è più, si direbbe, ma sarebbe un grave errore. Perché le lotte per i diritti, sono innervate nella storia di questo Paese e delle dinamiche globali. Oggi, come allora, siamo di fronte alla perdita del potere di chiedere dignità di fronte al lavoro. I cottimisti della Maremma, oggi, siamo tutti noi, la legione di precari che non dovranno aspettare i predicatori dei diritti, ma lottare per riprenderseli.