Convinti, quando le cose vanno bene e quando le cose vanno male, che ciascuno deve fare il suo lavoro, ci troviamo come redazione di fronte a un evento globale, che concorre a mettere a nudo quelle paure che saranno l’argomento del terzo numero del nostro semestrale cartaceo.
Partendo dal testo di Angelo Miotto, abbiamo deciso – nostra vecchia passione – di lanciare un Decameron online, nella vecchia tradizione, di fronte alle paure, di riunirsi attorno al fuoco (della passione narrativa) e di raccontarsi storie.
Mandateci il vostro racconto di questi giorni di Corona virus, tra allarmismi, improvvisati esperti, legittime paure e doverose cautele. Va bene, al solito, qualsiasi linguaggio: audio, testo, video, foto. Inedito o citando altri. Scrivete a redazione@qcodemag.it e noi vi pubblicheremo.
Il contagio delle storie – 18
La compresenza dei corpi – Angela Curina
Il corpo. Un grumo di tensioni, elettricità, biologia, socialità, responsabilità. Un archivio di violenza repressa, rabbia inespressa, dolore fitto che s’insinua zitto tra le trame dell’epidermide e del rivestimento degli organi, poi si tuffa nella placenta, nel plasma.
Proprio ora che mi manca il corpo, mi sento fortemente legata alla natura. Non solo quella che ho intorno – seppur gli alberi mi fanno compagnia, seppur la terra mi sussurra “ci sono”. Non solo lei. Anche quella infinitamente piccola e infinitamente grande, quella delle molecole e delle galassie, dell’universo oscuro e degli insetti microscopici.
Sento la stretta che fa dipendere da lei un corpo che ho ma che non ho. È qui, il mio corpo: lo avverto fremere, faticare per la digestione d’un pasto pesante, appesantirsi per la sedentarietà, gioire del sudore che risale la costa, dell’acido lattico finalmente ritrovato.
Eppure non ce l’ho, non c’è, il mio corpo, perché nessuno ne afferma l’esistenza, poiché non si fa corpo collettivo, non subisce alcuna interferenza – non ci sono spintoni, sfiorate di mano, odori improvvisi di pelle cotta al sole. Non incorpora la compresenza di un Noi. Sta nella piccolezza dell’io e questo lo rende infimo, inesistente. Il collettivo non ha più corpo. Io mi sento voce, solo voce.
Una macchia nera su di una pagina bianca, un filo che è l’ultimo appiglio per tenere imbrogliata la matassa di me stessa e per allacciarla a quella degli altri. Per non sfilacciarsi.
Sarà forse che son troppo legata alla dicotomia mente – corpo; sarà che a volte mi chiedo quale sia il valore di queste mie carni al di fuori del loro essermi tramite, strumento. Ma forse, ora – in questo cadavere di presente in decomposizione -, forse, ora, vedo la luce. Intravedo, messo via l’occhiale spesso della carne e della velocità, un corpo che prende senso in quanto nodo di una connessione, coagulazione ininterrotta di storia e memoria, individuale e collettiva, intima e politica.
Scorgo il corpo nel suo essere un condensato di esistenze che cominciano molto prima di noi – quelle microscopiche stellari e quelle politiche, sociali. Vedo un corpo che viene forgiato da azioni d’altr*, da anni di sofferenze, sacrifici e lotte. Lo osservo nel suo essere artefice e spugna di collettività. Se il corpo è un coacervo di cavi elettrici connessi con l’arcaico, ora vi è un cortocircuito in corso: qualcun* salta in aria, esplode; altr* si spelacchiano; per alcun* si formano abrasioni e ferite; c’è chi ne esce intonso.
Corpi che immagazzinano i cambiamenti della terra, i mutamenti repentini, le ingiustizie. Assorbono e poi esplodono, come dighe dopo giorni mesi anni di pioggia. C’è chi dice che quando un fiume straborda è perchè Madre Natura si è incazzata; altr* sostengono sia conseguenza delle nostre azioni spropositate.
C’è chi, poi, crede che l’uscir fuori dai propri argini sia un semplice tornare a casa, riappropriarsi del proprio spazio, riprendersi il proprio luogo e la propria terra. Vorrei che i nostri corpi siano fiumi in esondazione. Vorrei si riappropriassero dello spazio naturale aggredendo quello artificiale.
Si è penetrata la terra con ruspe scavatrici, pale di trattore. Occhio non vede cuor non duole. Lo si è fatto di fretta, la terra zitta. Se non parla è consenziente, chi tace acconsente. Forza, dai, veloci con ‘sti lavori! Occhio con vede cuor non duole: finché la Terra non si lamenta dello stupro va tutto bene.
Poi, al primo rigurgito di fastidio, riconvertiamo tutto in industrie eco- sostenibili. Non si accorgerà, vedrete. Cazzate.
Vorrei i nostri corpi possano esondare per tornare ai loro spazi, per riprendere
i tempi secolari degli alberi, quelli lenti dei passi, quelli magnetici dei voli d’uccello. Vorrei i nostri corpi possano strabordare per riappropriarsi d’una storia che è stata per troppo tempo governata da altri, per riaffermare diritti
sulle espropriazioni.
Serve rifarsi collettività, ricucire gli strappi della socialità, recuperare un corpo d’insieme e lasciare che con lentezza si ricostituisca non tanto tramite rapporti di (ri)produzione affannata, di tensione incancrenita; non seguendo la scia d’un desiderio inculcato, d’un soldone con un Cristo incistato. Vorrei ci si toccassero le mani, ci si baciasse, ci si abbracciasse. Si condividessero insieme gli spazi e i corpi.
E si lasciasse fare la lentezza, la si lasciasse penetrare nel tornio che ci forgia, per ricostituire la forma di un corpo collettivo. Voci di lotta si insinuano tra le maglie del lavoro, gridano “noi non ci stiamo più”. Passano, tra gli spazi lasciati vuoti dall’intreccio di gambe e braccia, istanze combattenti, urli potenti, sibili irriverenti. Dobbiamo ricostituirci prima che ci ricostituiscano. Dobbiamo reagire e non lasciarci prendere.
Sono tornata dal Marocco giorni fa. A Casablanca volevo svolgere una ricerca sui nessi tra l’espropriazione della terra e quella del corpo femminile. La prima cosa di cui ci si accorge, camminando per le vie in un qualsiasi quartiere della città, è che manca la presenza pubblica delle donne. Rettifico: non in un qualsiasi quartiere, ma di quelli più miserevoli, popolari. Le vedi, le donne, sedute ai bar dei quartieri borghesi, nelle vicinanze delle scuole americane, dei grandi centri commerciali.
Donne con in testa un velo che sembra di seta, magari appuntato sul lato con occhiali da sole. Nei quartieri popolari invece le uniche donne che attraversano lo spazio sono quelle uscite a fare commissioni, che si recano al mercato e poi rientrano nei perimetri del privato. Ecco che allora mi chiedo: la presenza del corpo femminile nello spazio pubblico, in Marocco, è una questione di classe?
Non so darmi una risposta definitiva. So per certo però che ci sono spazi dove i corpi si ritrovano insieme in quella che Judith Butler definirebbe “l’alleanza dei corpi”. Spazi femminilizzati, non sessualizzati, che corpi di madri, figlie, lavoratrici, casalinghe, vecchie e giovani condividono senza pudore e senza fastidio.
Penso allo spazio dell’hammam, il bagno dove donne di ogni età si ritrovano nude, belle, a compiere il rito del lavaggio collettivo del corpo.
Passano, tra i colpi sulla schiena, tra le gittate d’acqua bollente, le intime confidenze di voci calde in una stanza calda; s’intrufolano timide confessioni, semplici chiacchiere, solidali sorrisi. Ci sono le mani sui corpi, c’è la vicinanza delle bocche, dei seni. C’è l’attingere dallo stesso sapone, il sedersi su sedie diverse eppure vicine, dove i busti sono a pochi centimetri dallo sfiorarsi. Lì ho sentito l’alleanza dei corpi, ho sentito forte la presenza femminile fuori dal solo spazio del privato. Ho sentito una collettività donna farmi sua e io farla mia. L’ho avvertito tramite l’esperienza fisica, tramite il corpo. E allora, mi chiedo: il corpo è la misura del collettivo? La collettività e le
connessioni sono possibili solo attraverso la compresenza? Ripenso molto, in questi giorni eterei, a quella condizione di estrema fisicità. C’è la voce e non c’è il corpo, ora. C’è la parola che ci tiene strett* ma sempre abbastanza distanti da non contagiarci.
Scrivo molto e una delle prerogative per farlo è sempre stata il poter vivere fisicamente le situazioni. Rifletto spesso a come cambi la carne in relazione alle circostanze e a quali siano gli smussamenti, le frane e le ricomposizioni conseguenti al contagio col vivere. Ora invece questa scrittura nasce dall’isolamento in quarantena, da un corpo spaventato dai giorni sedentari, da arti che non possono concretizzare a pieno il loro potenziale di movimento.
La scrittura nasce per sanare le ansie di ora e in vista di domani. L’altro giorno mi sono imbattuta in una frase: “la romantizzazione della quarantena è una questione di classe”. Quando il corpo non c’è più quello che resta è la voce, ma quali voci hanno il potere di parlare, ora? Di quali carni intendiamo il suono? Quali sono le bocche che riescono a giungere sino alle nostre orecchie, oggi, se non quelle di cui comprendiamo la lingua, se non quelle che hanno accesso alla virtualità, se non quelle i cui corpi possono posarsi nel caldo d’una casa con accesso a internet?
“Il corpo non può essere dissociato dalle condizioni infrastrutturali e ambientali del suo vivere e del suo agire. La dipendenza, nostra come delle altre creature viventi, dalle forme di sostegno infrastrutturale ci espone a una specifica vulnerabilità che possiamo sperimentare in tutti quei casi in cui non siamo sostenuti da nessuno, quando quelle condizioni infrastrutturali iniziano a decomporsi o quando ci troviamo a essere radicalmente privi di sostegno, in condizioni di precarietà. Agire in nome di quel sostegno, quando ne siamo privi, è il paradosso dell’azione performativa plurale nel regime di precarietà”.
È Judith Butler che scrive in “L’alleanza dei corpi”. La politica non significa la stessa cosa per tutti. Più si è precari più si è esposti alla politica. L’impossibilità dei contatti personali mette in difficoltà nel ricevere i servizi.
Pur con la devozione per il progresso tecnologico, per lo sgancio dai limiti materiali e carnali, dovremo sempre (almeno spero) fare i conti con il corpo, con la sua stanchezza, la sua freschezza. Ci sarà sempre un mercante che sistema la verdura con la cura d’un padre perché ci saranno sempre stomaci da sfamare. Ci saranno sempre mani che s’impregnano del sangue d’un grembo perché ci sarà sempre una futura madre. Ma oggi ci accorgiamo di quanto la mancanza del corpo e la sola presenza virtuale, astratta, eterea, sia di svantaggio a coloro che sono legati alla fruizione del corpo per esistere.
Chi migra lo fa col corpo, per fuggire a una condizione potenzialmente letale. Chi vive in strada lo fa col corpo, e solo quello è strumento della sua esistenza.
Chi subisce violenza in casa è costrett* a patire col corpo, a sopportare, a incassare. Chi è in carcere sperimenta sul suo corpo la condizione dell’impossibilità di azione e diviene solo una voce, che molto spesso è messa a tacere o mal riprodotta da chi se ne fa ambasciatore.
Quando Judith Butler parla di alleanza dei corpi, afferma che grazie alla compresenza fisica ci è possibile creare un Noi, una collettività che porti avanti una lotta comune contro la precarietà che tutt* esperiamo. La precarietà è una condizione politica che determina vulnerabilità di fronte allo sfaldarsi delle reti economiche e sociali di sostegno e un’esposizione massimizzata all’arbitrio della violenza.
Tramite la comprensione di questa condizione condivisa di precarietà – che a livello corporeo riguarda tutt* poiché siamo tutt* esseri naturali e siamo tutt* memorie carnali di una storia di appropriazione ed espropriazione, violenza e resistenza -, potremmo giungere a una lotta collettiva volta all’autodeterminazione. Lotta che deve però muoversi su nuove basi: non più fondate sull’individuo ma sull’interdipendenza.
Superata questa fase asfissiante occorrerà ricomporre, ricucire, ristabilire. Ecco che la ricostruzione può passare per il corpo, un corpo che si allea con quello altrui, un corpo in compresenza.
Un corpo a contatto, vivo insieme a quello adiacente. Un corpo che con la sua scesa in strada intende sovvertire la gerarchia tra gli assi di oppressione che mina le basi della ricomposizione.