L’arcipelago del cane

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27 Marzo 2020

Intervista a Philippe Claudel

C’è un’isola, incastonata in mare aperto, tra due continenti. Ricorda di certo Lampedusa, ma collocarla geograficamente non è importante. Su questa isola, una mattina il mare deposita i cadaveri di tre uomini di pelle nera. In breve tempo vi si radunano intorno la ex maestra, il sindaco, il parroco, il medico e – infine – il nuovo giovane maestro, venuto da fuori. La maggioranza decide: nessuno dovrà sapere dell’esistenza di quei corpi, niente dovrà turbare la quiete dell’isola e soprattutto i suoi progetti di sviluppo turistico. È l’inizio del romanzo dello scrittore francese Philippe Claudel, L’arcipelago del cane (Ponte alle Grazie, euro 16): una storia che sebbene ambientata in un luogo fittizio (ma del tutto verosimile), è una parabola dei nostri tempi. Di quello che siamo e di ciò che stiamo diventando. Abbiamo incontrato l’autore a Milano, qualche mese fa.

 

Quando ho iniziato a leggere il suo libro credevo che il tema fosse la migrazione. Invece mi è parso più che altro un romanzo sul lato oscuro dell’uomo, che la migrazione rende possibile raccontare. Mi sbaglio?

I libri appartengono a chi li legge, dunque quale fosse la mia intenzione non è così importante: diciamo che la spinta a scrivere me l’ha data il fenomeno migratorio e soprattutto l’immobilismo di molte persone, specialmente in Francia, di fronte a questo dramma. Mi guardavo intorno: tutti eravamo al corrente di quanto succedeva, la tv e i giornali ci fornivano il numero dei morti nel Mediterraneo, eppure non cambiava niente.

Quindi ho voluto scrivere una sorta di parabola, di racconto filosofico, moderno e poliziesco, attraverso il quale mostrare una piccola comunità – rappresentativa della vecchia Europa – che, messa di fronte a un fenomeno nuovo, prende la peggiore delle decisioni. Ovvero: far finta di niente, in modo che il suo piccolo mondo possa andare avanti come prima. Per me è questo il soggetto del libro.

Lei scrive: «La maggior parte degli uomini non sospetta l’esistenza, dentro di loro, della parte oscura che pure tutti possiedono. Spesso sono le circostanze – guerre, carestie, catastrofi, rivoluzioni, genocidi – a rivelarla. Allora, quando l’uomo la contempla per la prima volta, nel segreto della sua coscienza, ne è inorridito e rabbrividisce». Forse la grande sfida dell’essere umano è riuscire a convivere con la propria parte scura senza subirne la tirannia?

Sì, ed è ciò che cerco di dire attraverso i miei libri e i miei interventi pubblici. È importante prendere consapevolezza che tutti noi abbiamo una parte oscura: non è riservata ai “cattivi” della storia, come i nazisti. Siamo fatti così, abbiamo una dimensione che ci porta verso il bene e una che ci porta verso il male. A seconda delle circostanze storiche e politiche la parte oscura può prevalere, e il lavoro morale dell’uomo consiste proprio nel fare in modo che essa sia contenuta, soffocata, tenuta in gabbia.

Il problema dei politici di oggi è che fanno di tutto perché questa parte prevalga: sia nei paesi occidentali, sia in quelli dove al potere c’è un islam politico con mire espansionistiche e dittatoriali. Si aizzano le persone le une contro le altre. Ed è proprio in questi momenti che è importante essere uomini: il cuore del mio lavoro è capire che cos’è un uomo.

Cito ancora dal suo libro: «Il Sindaco diceva a se stesso che, se il mondo andava come andava, era colpa degli uomini come il Maestro, impregnati di ideali e di bontà, che cercano in modo ossessivo la spiegazione del perché e del percome». Questo passaggio mi fa fatto pensare a quanto accade da qualche anno in Italia, dove la sinistra che si schiera a favore dell’accoglienza dei migranti in nome del rispetto dei diritti dell’uomo, viene accusata di essere intellettuale e “buonista”.

Succede lo stesso in Francia. La questione è complessa e proverò a schematizzarla. A destra si dice: “Stop alla migrazione, chiudiamo le frontiere, difendiamo i nostri valori culturali e sociali”. A sinistra si dice: “Accogliamo i migranti”. Ma entrambe le visioni sono contestabili e le analisi sbagliate. Sicuramente bisogna fare in modo di accogliere dignitosamente le persone che soffrono, che abbandonano il loro Paese per ragioni politiche e rischierebbero la morte se tornassero indietro.

Occorre favorire l’integrazione, garantire accesso all’istruzione e alla sanità. Ma è necessario chiedere qualcosa in cambio e quelli che voi in Italia chiamate “buonisti” non ne vogliono sapere. La contropartita dev’essere il rispetto delle usanze dei Paesi di approdo: non si può pensare di portare in Francia o in Italia il proprio modo di vivere religioso, sociale, culturale. Nelle grandi città francesi, inclusa Nancy dove vivo, si vedono in giro sempre più donne musulmane che indossano il velo. Sulla questione, a destra dicono: “Ah, non è possibile, questa non è più la Francia!”. A sinistra rispondono: “Vabbè, è solo un foulard”. Nessuno osa prendere una posizione intermedia e sottolineare che sì, bisogna accettare i costumi degli altri, ma anche noi in Occidente abbiamo i nostri e tra questi c’è che le donne non si velano. Tanto più che il velo, in ambito musulmano, è comunque un segno di sottomissione: la donna lo porta per non suscitare desiderio nell’uomo.

L’Europa, Francia inclusa, ha lasciato Paesi di frontiera come l’Italia e la Grecia a sbrigarsela da soli, in nome del regolamento di Dublino: e questo ha fomentato la destra. La Germania ha accolto – soprattutto per questioni demografiche, ma anche per motivi umanitari – un milione di persone: e anche questo ha fomentato le destre.

Eccoci dunque al mio romanzo: c’è il Sindaco, che è un politico pragmatico e poi c’è il Maestro che non ha responsabilità politiche, ma ha delle idee. Bisognerebbe riuscire a coniugare il mondo ideale con quello pragmatico. Il Sindaco ha ragione a dire che il Maestro è idealista; ma anche il Maestro ha ragione nel cercare verità e umanità.

La posizione del Sindaco sul Maestro fa venire in mente anche il modo semplicistico con cui le destre, oggi, affrontano i problemi. La complessità è come negata, anzi irrisa.

Viviamo in un’epoca di semplificazione. Il mondo diventa sempre più complesso, ma le risposte dei politici sono semplicistiche. L’esempio più evidente è Donald Trump, che pare convinto di poter gestire questioni politiche o diplomatiche con un tweet. Quelli come lui sanno che la maggior parte delle persone è stupida e dunque mandano messaggi facili che sottintendono: “Io sono come voi”. Nel mio libro il sindaco non ama la cultura. E pure il commissario prende in giro il medico quando questi afferma che i libri gli sono serviti a comprendere il mondo.

Il dibattito è sempre aperto tra chi è intellettuale e chi non lo è. L’intellettuale fa molta fatica a spiegare l’importanza della cultura: ma la verità è che, senza, torneremmo a essere come bestie che si fanno condurre docilmente al macello. La cultura è sempre più minacciata, la gente legge poco o libri sempre più stupidi e guarda alla tv programmi idioti. Io dico spesso che la bomba più pericolosa del nostro presente non è quella atomica, ma la stupidità dilagante.

Coltivare la propria parte luminosa, in contrasto con quella oscura, non è un lavoro che tutti possono fare da soli: chi è meno privilegiato dovrebbe essere aiutato dalla società, non crede?

Il mio Paese e il suo non sono regimi totalitari: l’accesso all’educazione è democratico e gratuito. Tutto inizia da lì: se la famiglia è carente nell’educazione, deve pensarci la scuola. È qui che occorre investire. I professori dovrebbero essere pagati di più. Invece in Francia hanno stipendi da fame e non ho mai visto nessuno scendere in piazza per loro.

È interessante che lei dica questo, perché spesso qui in Italia abbiamo la sensazione che gli altri Paesi europei stiano meglio di noi…

Quello che trovo incredibile è che né i francesi né gli italiani si rendano conto di quanto sono privilegiati. Vivere in Europa è una fortuna ed è ovvio che tutti vogliano venire qui quando altrove si muore di fame, non c’è lavoro né un sistema sanitario che funzioni. Quindi ciò che va fatto è da una parte accogliere, dall’altra creare le condizioni perché le persone possano vivere decentemente nei loro Paesi. Le società più ricche devono fare uno sforzo per investire in Paesi più sfortunati perché il gap venga colmato. Ma ci vorrà molto tempo. Un secolo fa eravamo in pieno colonialismo, andavamo in questi Paesi e ci riempivamo le tasche; ora le tasche dobbiamo svuotarle affinché essi possano raggiungere il nostro livello di sviluppo. La popolazione africana è sempre più giovane: se non facciamo nulla si arriverà a una situazione di guerra. Chi non possiede spirito umanitario dovrebbe capire che è anche una questione di interesse: il nostro.

Spesso si parla dei migranti solo come vittime di carestie, guerre. Però molti di loro scappano semplicemente perché non hanno possibilità di progredire.

Per questo bisogna aiutare la crescita dei Paesi in via di sviluppo: affinché il sogno da realizzare, per le giovani generazioni non sia in Occidente, ma a casa loro. Il nostro è il mondo dei Kardashian: questa famiglia assurda è diventata l’emblema di un modello di vita ideale. Attraverso la tv, i giornali, l’industria del lusso, l’Occidente propone un sogno. Ma poi si lamenta se qualcuno vuole venire qui a inseguirlo. E c’è di peggio: spesso chiediamo a chi lavora a basso costo – nei laboratori di abbigliamento, per esempio – di contribuire a creare gli oggetti del sogno occidentale, salvo poi impedire loro di ambirvi.

Posso tornare per un attimo alla questione del velo? Ci sono molte donne musulmane che rivendicano il loro diritto di velarsi: perché qualcuno dovrebbe impedirglielo?

La questione è complessa. Molte dicono che il velo fa parte dell’identità personale e dunque è una questione privata: ma nel momento in cui essa viene mostrata in pubblico, smette di esserlo. Trovo normale che in Francia abbiano vietato il velo negli uffici pubblici: un funzionario pubblico non può portarlo. Ma poi: non vi fa nessun effetto vedere una donna, in estate, con 35 gradi, coperta dalla testa ai piedi, mentre accanto a lei il marito è in shorts e maglietta?

Noi viviamo in Paesi democratici, dove donne e uomini hanno gli stessi diritti e mi spiace, ma velarsi è un segno di sottomissione. Perché una donna dovrebbe velarsi, nell’interpretazione religiosa? Per non accendere il desiderio dell’uomo. Questo implica che la donna è una creatura che non può vivere la propria vita normalmente.

Molte donne velate insistono che questa sottomissione è una nostra proiezione.

Mi capita sempre più spesso che mi raccontino storie accadute a Nancy che riguardano donne francesi di origine maghrebina che non portano il velo e vengono fermate per strada e rimproverate da uomini arabi: “Sorella, così non va bene!”. Quelle che possiedono una personalità forte li mandano a quel paese. Altre, invece, per non avere problemi si velano.

Non molto tempo fa un amico mi ha raccontato che in uno dei quartieri di Nancy con il più alto tasso di musulmani una donna francese (non musulmana) di 40 anni, che pedalava indossando una gonna, è stata accostata da alcuni uomini che l’hanno rimproverata perché si sentivano provocati dal suo abbigliamento. Episodi come questi accadono di continuo, e non era così fino a 10 anni fa. Molte persone di sinistra non si rendono conto di questa situazione perché non abitano in periferia, dove la geografia umana è cambiata. Ma basta allontanarsi un po’ dal centro per ritrovarsi in zone dove gli uomini sono barbuti e indossano la djellaba e le donne sono tutte velate…

Per chi vive da generazioni in questi quartieri, si tratta di trasformazioni difficili da accettare. Tanto più che se uno di noi si reca in vacanza in un paese musulmano starà bene attento a non mostrarsi in spiaggia in topless o in perizoma. Insomma, è complicato. Bisogna essere al tempo stesso tolleranti e pieni di umanità, ma anche esigenti sulla difesa dei valori repubblicani, sociali e democratici.

Il suo libro si conclude con una sorta di vendetta cosmica, che ricorda i finali delle tragedie greche. Mi è parso che la sua visione, complessivamente, fosse pessimista. Ma durante questa conversazione ho cambiato idea.

Se scrivo libri politici – nel senso che vogliono fare riflettere sul nostro modo di vivere la polis, lo spazio pubblico – e sollecito riflessioni anche tragiche, è perché sono ottimista. Se non lo fossi, penserei che non ne vale la pena. Il mio intento è scatenare una reazione: è vero che un libro non può cambiare il mondo, ma può accendere una riflessione. Noi siamo gli artigiani del nostro destino e possiamo agire contro la politica che non ci piace. Purtroppo, però, l’indifferenza trionfa: è la grande malattia del secolo, insieme alla stupidità.