Sei stata in un bosco di notte. Hai incontrato un uomo che non ricordava chi fosse. Insieme a due amici cercavi di sanare la sua paura, colma di gentilezze e buone intenzioni che poco dopo avresti dimenticato.
L’uomo diceva di lavorare in una segheria, di sapere com’è il tronco quando scorre sotto il palmo e viene modellato, ma quando vi siete fidati di lui vi ha condotti in una catapecchia, un cumulo di fango e legno marcio, buono solo per dare rifugio alle ragnatele, alla polvere che scintillava nell’aria.
Non eri davvero tu a inveire contro quel vecchio senza memoria e dunque senza racconto, senza più uno straccio di storia che lo aiutasse a orientarsi, a distinguere i tempi, lasciando andare ciò che non torna: non eri tu, era una delle protagoniste di Întregalde di Radu Muntean, che ieri sera ha vinto il premio come miglior lungometraggio al 33° Trieste Film Festival.
Tu eri solo una delle tante ombre scivolate dentro una sala cinematografica, ansiosa di immagini che ti traghettassero in un altro mondo – eppure, per il tempo che è stato concesso, davvero hai indossato la vita di qualcun altro, ne hai assorbito la lingua, le movenze. Da anni leggi e ascolti i pareri di chi parla del cinema come un’arte in estinzione – voci monotone, annoiate persino da loro stesso suono e non ti fidi; pensi che siano i soliti uccelli del malaugurio, profeti di apocalissi che non arrivano mai, uomini spaventati che si consolano nel pensiero che ogni cosa stia per finire.
Tu invece sai che non smetteremo mai di scivolare dentro una soglia buia, lungo un crinale fatto di velluti, del ronzio di un proiettore, immobili e sbarrati a guardare chi potremmo essere, le case in cui potremmo abitare, gli amori che in altre realtà potrebbero consumarci.
Credi che il cinema si avvicini segretamente all’infanzia – ha lo stesso incanto, la stessa promessa buia del libro che si schiudeva prima di dormire; una storia raccontata a bassa voce da qualcuno che ci amava, a questo somigliano le
proiezioni a cui ci affidiamo.
Per questo non sopporti chi tradisce questa fiducia, chi trasforma questa soglia in una silenziosa tortura e ne fa una prigione affollata da fantasmi senza pace. Raccontare richiede sempre una responsabilità, non sopporti chi non se la assume e vuole solo urlare, essere compreso.
Per giorni non hai fatto che scivolare da un cinema all’altro, inchiodando parole sulla carta che fossero come atterraggi, punti di fermi di un viaggio attraverso paesi che non avevi mai visitato, e a tratti hai avuto anche paura, certo.
Vagando per un deserto che non conoscevi, tutto era sgranato e il cielo caduto si confondeva con la sabbia, non c’era nessuno che ti aiutasse a orientarti. Sugli altopiani dell’Albania hai pianto con un uomo in lutto per la propria figlia, nei villaggi remoti della Georgia hai cercato un filo che congiungesse l’anima di una defunta con il luogo della sua morte – è questa l’antica usanza di certe regioni screziate da un Sole diverso, da colori che non sapevi nominare.
Sei stata una murena nascosta tra i fondali, ti sei morsa il fianco ma era solo per confondere i pescatori, lasciare tracce ostili del tuo passaggio, indizi che parlassero di te nell’acqua mentre tu fuggivi lontana; hai compreso la rabbia scura di una ragazza che voleva abbandonare l’isola in cui era cresciuta, e quando hai riso con voce troppo alta con le musiciste di un’orchestra slovena, sedute a bere caffè corretti e parlare di tutti gli amori andati a male, altri ti hanno lanciato occhiate severe, ma non potevi trattenerti.
Ogni volta, uscita dalla sala, lasciavi che questi fantasmi benevoli ti accompagnassero lungo il porto, mentre passeggiavi il vento si alzava e il buio si posava sul mare.
Quando la città sembrava finire camminavi ancora oltre, lungo le scale che si arrampicano sui palazzi; degli sconosciuti ti hanno chiesto chi fossi e hai dato nomi nuovi. Per un attimo, oltre la vetrina di un caffè affollato, hai visto la studentessa che sei stata.
Seduta su un treno ora conti sulle dita tutte le identità che hai sperimentato. Provi a guardarti da fuori, a essere solo un riflesso sul vetro che riceve tutto il paesaggio, tutto il mare che sfila oltre i finestrini. A fine corsa ti attendono una casa, un lavoro, una vita unica e sola, di nuovo ti confonderai in mezzo a migliaia di altre vite uniche e sole.
Ti domandi se la ragazza che intravedi sia diversa da quella che è partita; forse non esteriormente, e c’è sempre lo stesso nome scritto sul biglietto. Eppure adesso sai che esisteranno sempre delle soglie – una sala buia, un libro schiuso, una pagina bianca – in cui potrai sfilarti via quello che sei e inventarti diversa, abitante di città o mondi che in realtà non hai mai conosciuto.
Non c’è niente di male nel non sentirsi mai a casa; forse, per alcune persone, la sola casa è il viaggio.