di Clara Capelli and Giacomo Maria Salerno
26 Gennaio 2021
Intervista al ricercatore Giacomo-Maria Salerno sulle implicazioni del turismo nella “città turistica” per antonomasia, Venezia.
Quando parliamo di turismo, a Venezia spetta indubbiamente un ruolo centrale nel discorso. Città storica, città romantica, città del Carnevale e dello shopping di lusso, Venezia è a pieno titolo la meta turistica per eccellenza, la destinazione sognata letteralmente da milioni di turisti nel mondo. Ma essa è al tempo stesso anche l’esempio più evidente di come i flussi del turismo di massa possano gravare su una città, lacerandone il tessuto socio-economico, oltre a causare onerosi danni ambientali.
“Per una critica dell’economia turistica – Venezia tra museificazione e mercificazione” (edizioni Quodlibet) del ricercatore Giacomo-Maria Salerno è un ricco e accurato lavoro di analisi dell’intreccio tra turismo in epoca neoliberale e contesti urbani che sui flussi turistici si plasmano, diventando città merce, luoghi di passaggio per il consumo di esperienze; a farne le spese è la dimensione abitativa, in particolare per chi non possiede redditi e patrimoni sufficienti a evitare l’espulsione nelle periferie del valore. Salerno illustra e disseziona queste dinamiche per parlare di Venezia, così come descrive la storia turistica di Venezia e i suoi più recenti sviluppi per raccontare di turismo e città.
La condizione presente determinata dalla pandemia non toglie rilevanza alcuna alle riflessioni del libro, al contrario – come si legge nel prologo -, esse si fanno strumento per comprendere diversi aspetti della crisi socio-economica nonché della sua portata. Q Code Mag ha intervistato Salerno per discutere del suo libro e del suo lavoro di ricerca.
Critiche e proteste contro l’economia turistica a Venezia vanno indietro nei decenni. Nel libro tu citi un bellissimo documentario di Guido Vianello, La Città: era il 1974, eppure il problema della “monocultura del turismo” si delineava già allora con chiarezza, in contrapposizione al polo industriale di Marghera.
La specializzazione turistica di Venezia compie i primi passi intorno al Settecento, con il Grand Tour [il viaggio culturale in Europa dei giovani aristocratici, NdR] e i fasti del Carnevale. Già nell’Ottocento la cosiddetta “economia del forestiero” era una voce rilevante della disastrata economia cittadina, ponendo così le basi di quello che diverrà noto più avanti come “il problema di Venezia”.
All’inizio del XX secolo poi, per iniziativa di Giuseppe Volpi e Piero Foscari, si gettano le basi per una Venezia industriale e “fordista”, che se per un verso avrebbe dovuto liberare la città “dal suo venale chiaro di luna da camera ammobiliata” – come scriveva Marinetti in quegli anni – per l’altro inaugura una prima forma di zoning [destinazione del suolo urbano a scopi specifici, NdR] che proietta le attività produttive verso la terraferma, rafforzando la funzione turistica della città storica e del Lido, centro del turismo balneare di quegli anni.
Lo sviluppo di Marghera e Mestre nel quadro di quella che veniva chiamata allora la “Grande Venezia” diverrà poi, dopo la Seconda Guerra Mondiale, il volano per lo spopolamento della città storica. A partire dagli anni Cinquanta, infatti, si verifica un vero e proprio esodo da Venezia, a cui hanno largamente contribuito le scelte della classe dirigente, con politiche abitative che hanno espulso le fasce più povere della popolazione dalla città; una “bonifica umana”, come illustra la ricercatrice Clara Zanardi in un libro di recente pubblicazione.
Tra gli anni Settanta e gli anni Novanta, mentre si approfondiva la crisi dell’industria fordista, assistiamo a un’impennata dell’economia turistica di Venezia e alla riconversione a finalità turistiche di sempre maggiori porzioni della città. Venezia, già largamente spopolata, si presenta quindi “preparata e predisposta” all’esplosione della crescita mondiale del turismo avvenuta negli anni Novanta.
Le giunte comunali di quegli anni hanno attivamente favorito l’intensificarsi dei flussi turistici attraverso una serie di misure di liberalizzazione, che hanno portato all’aumento del numero di posti letto a seguito di riconversione di strutture e case abbandonate o sfitte.
Nel documentario di Vianello, le industrie di Porto Marghera vengono ancora presentate come un possibile antidoto allo spopolamento e alla trasformazione dell’intera città in un “baracòn da fiera”, come si sente dire da una voce fuori campo, o in una città-museo, come si legge nei cartelli di un corteo operaio. Paradossalmente però, e in una sorta di eterogenesi dei fini, quel tipo di politiche industriali incentrate sullo sviluppo della terraferma e sulla conservazione “estetica” della città storica sono finite per inserirsi nella traiettoria di quello stesso problema, favorendo l’abbandono della Venezia insulare da parte dei propri abitanti. L’“ondata” turistica si è potuta poi riversare nei molti spazi vuoti della città, consolidando la monocoltura ed acuendo le fragilità del tessuto sociale, come reso evidente dalla crisi attuale.
L’industria, insomma, non ha salvato la città. Nel libro cito una provocatoria affermazione di Pier Luigi Cervellati, secondo cui Venezia può ormai essere considerata come la periferia di Mestre, la sua appendice monumentale. Se prima il luogo della produzione del valore era Marghera, e lì ci si dirigeva ogni mattina per andare a lavorare, ora la vera fabbrica è Venezia stessa: una popolazione ormai prevalentemente residente in terraferma vi si riversa ogni giorno per allestire la macchina turistica, e sempre meno può permettersi di risiedervi.
Qual è il rapporto tra “industria della nostalgia” e patrimonio storico-culturale? La “città museo” può essere un modo per preservare tale patrimonio?
Su conservazione e patrimonio o heritage ci sarebbe moltissimo da dire. Nel quadro dell’economia turistica, spesso la conservazione va di pari passo con una specie di imbalsamazione di elementi e porzioni della città, che diventano corpi estranei alla sua stessa vita, sorta di “memoriali” destinati al consumo. Alla tutela si accompagna infatti immancabilmente la “valorizzazione”, che di solito si traduce in semplice sfruttamento del bene patrimoniale da parte di attori privati.
Si pensi ad esempio alla zona di Piazza S. Marco, spazio iper-turistificato sempre più estraneo alla vita quotidiana degli abitanti e oggetto di una serie di operazioni speculative, come denunciato recentemente da Paola Somma. Quando poi questo meccanismo si estende all’intera città e si arriva a parlare di “città museo”, di Venezia come “museo a cielo aperto”, si ammette concettualmente anche l’introduzione di un tornello che ne marchi l’ingresso, e perché no, di un biglietto da pagare per entrare in città. Ma staremmo ancora parlando di una città in quel caso, o di qualcosa di diverso?
Possiamo dire che la museificazione delle cosiddette città d’arte sia una declinazione europea di quell’economia estrattiva che nei paesi post-coloniali si basa sullo sfruttamento intensivo di risorse accumulate nei secoli.
A questo tipo di “estrattivismo turistico” possiamo ricondurre tanto i resort in Thailandia – insieme al loro devastante impatto ambientale -, quanto appunto i centri storici europei, che finiscono per diventare dei centri commerciali a cielo aperto, parchi tematici in cui il passato, rappreso nel tessuto urbano e nell’atmosfera in cui è immerso, viene arricchito narrativamente[1] e sfruttato attraverso il consumo turistico.
Pare insomma che non si sia trovata ancora soluzione al problema indicato da Pompeo Molmenti, secondo il quale se non era lecito “condannare gente viva ad abitare tra le fredde pareti di un museo, e se Venezia non deve essere un museo, non può nemmeno perdere o sciupare ciò che il mondo le invidia”. Il patrimonio storico e culturale di una città andrebbe quindi inteso come un bene comune, la cui fruizione dovrebbe essere garantita in primo luogo ai suoi abitanti, che devono poter continuare ad essere tali: ciò che occorre preservare è la vita delle città, non tanto e non solo i loro aspetti esteriori.
Nel libro parli del turismo come di una forma contemporanea di “colonialismo interno”[2]. Come hanno risposto i movimenti locali a questa forma di colonizzazione?
Il parallelismo che traccio tra il turismo e le economie coloniali si basa su quelle che mi sono sembrate varie analogie strutturali tra i due fenomeni. L’economia turistica è infatti un’economia fortemente basata sulla rendita, la quale a sua volta tende ad accentrarsi e a creare società estremamente dipendenti dall’attività estrattiva.
Nel caso di Venezia, questa dipendenza si è tradotta in una vera e proprio monocoltura, che si oppone alla diversificazione economica inglobando ogni aspetto della vita della città. L’amministrazione pubblica veneziana ha consentito o facilitato questo processo, facendosi – attraverso precise scelte politiche – comitato d’affari per grandi società internazionali, come nel caso delle compagnie crocieristiche e del comparto alberghiero. Queste sono appunto dinamiche tipiche di un’economia coloniale.
Un’altro livello di analogie è legato, oltre che all’aspetto economico, al modo in cui questa economia si relaziona con quelle che potremmo chiamare le “alterità” che popolano il nostro mondo. Pensiamo allo sfruttamento del centro di Napoli a fini turistici, che ne cattura l’elemento popolare per trasformarlo in folklore, monetizzando la vita e la cultura della città e al tempo stesso minacciando la possibilità per le classi popolari di poter continuare a viverci.
Lo stesso vale nei confronti del passato sedimentato nel patrimonio storico e artistico delle nostre città, sfruttato proprio in ragione del suo essere altro dal presente di condomini e di periferie in cui la maggior parte di noi vive.
Come scriveva David Lowenthal “il passato è una terra straniera”, e l’industria turistica è uno dei modi principali per prenderne possesso e sfruttarlo economicamente. In definitiva, tanto il presente quanto il passato del patrimonio culturale, tangibile e intangibile, sono beni comuni sedimentati nel tempo, risorse collettive di cui l’industria turistica si appropria per il profitto di pochi, consumandoli e ridistribuendo scarsamente i guadagni.
I movimenti di protesta come quelli raccolti attorno Rete SET provano a contrastare questi processi, innanzitutto proponendo una lettura diversa dalla narrazione dominante e mostrando come dietro alle retoriche del turismo come risorsa si celi in realtà lo sfruttamento intensivo di interi territori.
La principale innovazione di questi movimenti sta nell’aver saputo costruire una critica complessiva al modello della “città turistica”, articolandola poi in lotte specifiche, contro la precarietà del lavoro o per il diritto alla casa, o ancora sulle questioni ambientali, che a Venezia hanno trovato grande risalto per l’attività del Comitato No Grandi Navi. La questione cruciale però resta a mio avviso la capacità di contestazione complessiva del modello della città turistica, nel tentativo di opporvi una prospettiva di diritto alla città, vale a dire del diritto a vivere in una città per chi la abita e non per chi la sfrutta, una città insomma più giusta e inclusiva.
Turisti ed economia turistica. Come si colloca la critica al sistema della città turistica rispetto al nostro agire?
Posto che al contrario di quanto spesso si dice non siamo tutti turisti, perché il turismo se lo può permettere solo chi ha i mezzi e il passaporto giusto, non credo sia utile fare del moralismo rispetto ai comportamenti individuali. Occorre però criticare in modo consapevole l’economia turistica contemporanea e opporvi un’azione trasformativa.
Si è parlato molto in questi anni dei “nomadi digitali”, della cosiddetta “dromomania”, di una coazione a muoversi che influenza il nostro modo di “consumare” i territori, rendendo una parte della popolazione mondiale “popolazione in transito”, di passaggio di città in città. Dall’altra parte, tuttavia, non dobbiamo dimenticarci the right to stay put, il diritto a stare fermi dove siamo, a rimanere. Se le città diventano short-term cities, centri di transito saturi di appartamenti su Aibrnb, bistrot uguali l’uno all’altro e negozi di paccottiglia, cessano di essere città vive, e i loro abitanti vengono progressivamente espulsi nelle periferie.
La critica deve rivolgersi al modello di città. Per esempio, sarebbe importante mutare prospettiva e parlare di città più giuste anziché di “turismo sostenibile”, che spesso si traduce in poco più che uno slogan di washing per l’industria turistica, per consentire in primo luogo alla gente di abitarvi. È in questa chiave che si deve contestare l’economia turistica, nel quadro delle rivendicazioni per il diritto alla città e alla casa.
[1] Con la nozione di arricchimento si fa riferimento al recente lavoro di Luc Boltasnki e Aranaud Esquerre, “Arricchimento. Una critica della merce”, ed. Il Mulino.
[2] Lefebvre, La borghesia e lo spazio, in Spazio e politica. Diritto alla città II, infra, p. 121. È in questo senso che si spinge a parlare di un “neocolonialismo interno”, per maggiori dettagli si rimanda a questo link.