28 Ottobre 2020
Se gli ultimi anni hanno riportato sul tavolo l’importanza della programmazione economica da parte dello Stato, attenti dibattiti sono necessari […]
“Questa programmazione non potrà certo esaurirsi nello spazio di pochi anni, ma dovrà abbracciare un vasto orizzonte temporale. Nel contesto di essa appaiono insufficienti sia i piani settoriali, in cui si trascura l’interdipendenza dei vari problemi e se ne tentano soluzioni parziali (e come tali insoddisfacenti e fra loro incompatibili), sia gli interventi occasionali, adottati in base a esigenze immediate, e non chiaramente inseriti in una visione di lungo periodo del processo di sviluppo.”
Parole condivisibili, pensieri ragionevoli, pragmatici, con una visione consapevole che si spinge ben oltre la contingenza. Sono forse riferite al Recovery Fund, tema sensibile del dibattito economico degli ultimi mesi, insieme al MES? Si sta parlando della strada da costruire per uscire dalla drammatica, feroce crisi causata dalla pandemia di COVID-19?
No. Queste parole sono state scritte nel 1963 dagli economisti Giorgio Fuà e Paolo Sylos Labini nel libro “Idee per la programmazione economica”. Non erano anni di crisi, al contrario, l’Italia stava vivendo il suo “miracolo”. Eppure, proprio nella fase del boom, il governo (allora guidato dal cosiddetto “centro-sinistra”: Democrazia cristiana, Partito repubblicano, Partito socialista democratico, con l’appoggio esterno del Partito socialista) era consapevole di dover intervenire per indirizzare lo sviluppo economico e correggere una serie di squilibri di vario tipo, perché crescita sostenuta non significa necessariamente maggiore benessere per tutti.
Di grande interesse a questo proposito è la Nota aggiuntiva sui problemi e le prospettive dello sviluppo e della programmazione scritta da Ugo La Malfa, allora ministro del Bilancio, nel 1962:
“L’impetuoso sviluppo si è accompagnato al permanere di situazioni settoriali, regionali e sociali di arretratezza e di ritardo economico le quali […] non riescono a trarre sufficiente stimolo dalla generale espansione del sistema […]. Le pur notevoli capacità di crescita dimostrate dall’economia italiana non ci consentono di raffigurare il nostro ulteriore sviluppo economico come un movimento automatico destinato a continuare”.
E ancora:
“La politica economica deve […] darsi carico della predisposizione di tutti i mezzi atti a rendere stabile il processo di sviluppo […] Lo stesso progredire economico e il raggiungimento di livelli più elevati di reddito e di consumi lasciano scoperta […] un’ampia serie di bisogni […] la cui soddisfazione rappresenta la condizione di un ordinato e libero vivere civile […] La politica economica può assumere un contenuto concreto solo facendo diretto riferimento a ciò che possa e non possa realizzarsi attraverso il meccanismo in atto.”
Vale la pena precisare che La Malfa era un liberale in materia economica, un convinto sostenitore dell’economia di mercato. Ma i liberali di allora bene avevano chiaro i limiti dei meccanismi di libero mercato, in una visione della politica e della società assai articolata, in cui il “mercato” era solo uno degli elementi della riflessione. Una constatazione amara questa, poiché la differenza con il mainstream economico dei nostri giorni è dolorosa per la miopia di quest’ultimo, appiattito pressoché unicamente su ragionamenti di allocazione efficiente e ottimizzazione.
Si sottolinea inoltre come queste considerazioni si circoscrivano in un alveo teorico non marxista e non anticapitalista (l’economia di piano è un’altra storia e la si dovrà raccontare in un altro momento), al fine di rendere evidente come – con buona pace di molti politici ed economisti – l’intervento statale in economia sia storicamente componente intrinseca dell’economia capitalista.
E ancora, il ruolo cruciale dello Stato nella preparazione del percorso di crescita e sviluppo era tema centrale della materia di quei decenni, dal mondo “sviluppato” che si lasciava alle spalle la Seconda Guerra Mondiale, alle economie delle “ex” colonie, che si interrogavano sul futuro post-indipendenza.
Nomi come Rosestein-Rodan, Nurkse, Myrdal, Baumol, Hirschmann sono ora ahimè relegati studi e insegnamenti di nicchia, ma la domanda che ci si poneva era vitale e potente, tanto da essere ancora pressante ai nostri tempi, nonostante l’oblio di molti: come si sviluppa un’economia? Su quanti e quali settori occorre puntare? La crescita sarà “bilanciata” o “sbilanciata”: se si dà priorità ad alcune specifiche attività, che ne sarà delle altre? Quesiti troppo rilevanti per essere lasciati al mercato, agli scambi individuali, perché all’epoca l’economia sapeva pensare molto meglio di oggi in termini aggregati, collettivi, anche di classe.
Il lavoro di Fuà e Sylos Labini si inserisce nel solco della Nota di La Malfa, elaborando una proposta programmatica di lungo termine che mirava proprio a porre le basi di un’economia che col nostro linguaggio contemporaneo definiremmo ora “più equa e inclusiva”. Scrivono gli autori già nell’introduzione del libro:
“Fra i problemi strutturali dell’economia italiana, che non hanno trovato soluzione nel pur rapido sviluppo passato o che questo stesso sviluppo ha posto, i più urgenti riguardano:
Senza scendere eccessivamente nel dettaglio, proviamo a riassumere i quattro punti individuati da Fuà e Sylos Labini nel seguente modo: a) dislivelli di produttività e remunerazioni tra settori e all’interno dei settori stessi; b) profondi squilibri territoriali, in particolare tra Nord e Mezzogiorno, con conseguenti massici flussi migratori interni e rischi di spopolamento di alcune aree; c) crescita di consumi caratteristici di alti livelli di reddito accompagnati da consumi essenziali inferiori “anche al minimo richiesto per consentire un tenore di vita civile”; d) “un’ampia fascia di redditi intollerabilmente depressi”, con un occhio attento anche alla distribuzione cosiddetta “funzionale” del reddito, ossia tra capitale e lavoro.
Sempre per esigenze di spazio e opportunità espositiva, si sceglie di non riportare dati attuali a prova del fatto che le preoccupazioni espresse in “Idee per la programmazione economica” siano le stesse che dovrebbero animare i “policy-makers” (l’utilizzo dell’inglesismo è deliberato) che si misurano con lo sviluppo dell’economia italiana, specialmente di questi tempi. In maniera più o meno articolata, l’urgenza dei problemi è evidente a chiunque legga.
Facendo un balzo di quasi sessant’anni, giungiamo ora al 2020, l’annus horribilis della pandemia di COVID-19. Come molti economisti hanno osservato, l’Italia non era ancora ritornata ai livelli del 2008, anno della crisi finanziaria, presentandosi alla prova della Storia di quest’anno estremamente vulnerabile, sia da un punto di vista di risorse pubbliche – segnate da anni e anni di austerità – sia in termini di reddito disponibile medio delle famiglie. A ciò occorrerebbe allargare la prospettiva storica dello sviluppo economico italiano agli anni Novanta (se non addirittura più indietro) e alle politiche adottate in quel decennio.
A rileggere Idee per la programmazione sembra di vedere descritto il Paese di oggi. Senza però l’ottimismo da clima di boom economico, in uno stato di rabbia e prostrazione per una crisi che dura da anni.
Le conseguenze di questa paradigma ideologico sono chiare, ora più che mai. Ciò che preoccupa è la persistenza dello stesso, la pervasività di questa lente nell’approcciarsi a strategie e piani di crescita e sviluppo.
Nella prima metà del 2020, in piena pandemia, l’Unione europea è intervenuta con una serie di misure emergenziali per fare fronte alla crisi legata alla pandemia e al blocco delle attività. L’unicità della situazione e la portata delle sue conseguenze, richiedevano infatti decisioni eccezionali, con la speranza (nostra) che non si ripetessero i madornali errori della crisi del debito sovrano 2010-2011.
Fra queste misure figurano la sospensione temporanea del Patto di Stabilità e Crescita (il patto che richiede un rapporto deficit di bilancio/PIL inferiore al 3 percento e di tendere a un rapporto debito/PIL del 60 percento); l’allentamento delle maglie su una serie di regolamenti per consentire interventi statali per realtà economiche in difficoltà; il lancio del SURE (Support to mitigate Unemployment Risks in Emergency, 100 miliardi di euro, una sorta di cassa integrazione europea); la mobilitazione di finanziamenti alle imprese per circa 40miliardi di euro tramite la Banca europea degli Investimenti; e la messa a disposizione di un MES sanitario[1]. Dopo la grave gaffe di Christine Lagarde, la Banca centrale europea ha adottato il PEPP (Pandemic Emergency Purchase Programme, per un totale di 1.350 miliardi di euro), programma di acquisto di titoli di Stato dei Paesi membri.
Nel mese di luglio è stato annunciato dopo lungo dibattere l’ormai celebre Recovery Fund (Next Generation Europe, NGEU), un piano di 750 miliardi di euro (360 miliardi in prestiti e 390 in grant), dei quali all’Italia dovrebbero spettare 209 miliardi di euro (127 di prestiti e 82 di grant, cui si aggiungono i 27,4 miliardi di euro tramite il SURE).
Dopo anni e anni di politica di consolidamento di bilancio, di tagli e di delega del governo dei fenomeni economici al privato e al mercato, ci si trova fra le mani una seppur limitatissima possibilità di programmare, quanto meno un piccolo spazio di manovra per pensare alla ripresa dalla feroce crisi che si è abbattuta sull’economia mondiale.
Sorvolando sulle difficoltà e sui ritardi che il Recovery Fund (unitamente al Bilancio UE 2021-2027) sta incontrando per diventare effettivamente operativo, in questa puntata del Glossario si vuole piuttosto rivolgere l’attenzione alla predisposizione del piano di progetti e riforme che l’Italia dovrà presentare per l’erogazione dei fondi. Sempre per valutazioni di relativa brevità, si decide inoltre di accantonare ogni – importantissima – considerazione sulle modalità di finanziamento in sede italiana e di Unione europea/Eurozona del mondo che verrà.
Parlando di pervasività del paradigma dominante, un segnale di criticità si può infatti individuare già nel rapporto “Iniziative per il Rilancio – Italia 2020-2022”, presentato nel giugno 2020 dalla task force guidata da Vittorio Colao, di professione dirigente d’azienda.
Costo calcolato di 170 miliardi di euro in cinque anni (secondo calcoli dell’Osservatorio sui conti pubblici di Carlo Cottarelli), il cosiddetto “Piano Colao” si allinea in buona sostanza con i piani di sviluppo di tante economie del mondo, non necessariamente ascrivibili al club del capitalismo avanzato: modernizzazione dell’impresa, transizione green, “sviluppo inclusivo”, sia in senso territoriale sia sociale, con un occhio alle categorie più discriminate o “vulnerabili” (per usare il linguaggio della cooperazione allo sviluppo), in un ampio paniere in cui si fanno ricadere donne, giovani, disabili, aree periferiche.
Coerentemente con la sensibilità di alcuni esperti che hanno preso parte al rapporto, motore della ripresa e della crescita è il settore privato per sé, da rivitalizzare attraverso i sempreverdi programmi di formazione dei lavoratori per la riqualificazione del loro capitale umano secondo i bisogni del mercato (sempre nella convinzione che le istituzioni preposte a tale formazione siano in grado di anticipare le chimeriche “skills” di cui si parla da decenni in letteratura economica), oltre che grazie alla pietra filosofale delle “riforme”, le quali dovrebbero sprigionare tutto il sedicente represso potenziale imprenditoriale italiano.
È interessante a questo proposito riportare la sommessa polemica che pare avere avuto come protagonista l’economista Mariana Mazzucato – autrice de The Entrepreneurial State (Lo Stato innovatore in italiano) e nota per il suo lavoro di rivalutazione dell’intervento statale in economia -, rifiutatasi di firmare il rapporto Colao.
Non si spenderanno invece troppe parole per il documento programmatico di Confindustria “Il coraggio del futuro. Italia 2030-2050” pubblicato il 29 settembre 2020, il quale ricalca la tradizionali posizioni conservatrici del capitalismo italiano, in buona sostanza basate sul contenimento del costo del lavoro e sull’affannosa rincorsa mercantilista a sbocchi sui mercati esteri, sostanzialmente spiegabile con l’amara considerazione che il mercato interno italiano sia troppo in sofferenza per essere interessante.
Si auspica ovviamente che tutte le attività di ricerca&sviluppo da parte del sistema pubblico invocate nel testo siano effettivamente un volano di innovazione e possibilmente di progressione lungo le catene del valore globali per l’impresa privata italiana.
Torniamo ora alla preparazione del dossier per il Recovery Fund. Il 15 settembre 2020 sono state pubblicate le linee guida del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR, #NextGenerationItalia), volte a individuare i criteri di selezione per la presentazione dei progetti e per l’elaborazione delle riforme. Trattandosi appunto di linee guida, le indicazioni sono piuttosto generali, afferendo a tematiche già lungamente oggetto del dibattito sullo sviluppo italiano: necessità di investire dopo anni di stagnazione dell’investimento pubblico; volontà di aumentare le attività di ricerca&sviluppo; impegno a riformare la pubblica amministrazione, il fisco, la giustizia, il lavoro. Tutti punti condivisibili sulla carta, ma la loro declinazione nel quadro del PNRR è ancora questione aperta, così come oggetto di dibattito – specialmente in un momento così cupo – dovrebbe essere ciò che non ha trovato spazio in queste linee guida.
Un impegno complesso e oneroso, che va assai al di là della mera promozione dell’“innovazione” o della messa in ordine dell’”ecosistema di impresa”, perché obbliga a tenere insieme l’interdipendenza di tanti aspetti dell’economia italiana, dalle questioni settoriali a quelle territoriali, proprio come illustrato in Idee per la programmazione economica.
Immaginare il Paese che verrà richiede non solo di scegliere in maniera consapevole e responsabile su come recuperare decenni di produttività stagnante. L’innovazione non riguarda unicamente le cosiddette STEM (Science, Technology, Engineering, and Mathematics), ossia l’ambito tecnico-scientifico, perché per quanto esso sia componente trasversale e chiave del mondo contemporaneo, la tecnologia da sola non esaurisce i bisogni di cura, sviluppo e riproduzione una società.
Si potrebbe parlare delle condizioni dell’agricoltura contemporanea, così come della composizione del settore dei servizi; si dovrebbe continuare a scrivere lungamente di scuola e sanità, le cui tante fragilità sono emerse con prepotenza in questi durissimi mesi; sarebbe opportuno riprendere il discorso abitativo, una questione già posta con grande preoccupazione da Fuà e Sylos Labini e ancora tristemente urgente tra aree spopolate e smart cities che si fanno vetrina o museo per consumi turistici o comunque appartenenti a classe sociali più o meno agiate.
Altro punto chiave è quello della politica dei redditi, tema ormai praticamente espunto dal dibattito politico, che tendenzialmente si limita a individuare come punto programmatico l’abbattimento del costo del lavoro. Per non parlare delle condizioni in cui versa il welfare state, come ha bene mostrato Roberto Ciccarelli in un recente articolo del manifesto sulla tematica rispetto alle tante emergenze acuitesi con la crisi pandemica.
In aggiunta, il focus è nella maggior parte dei casi su un astratto concetto di “disuguaglianza”, di solito relativo alla distribuzione personale del reddito, mentre la distribuzione tra capitale e lavoro (nelle varie tipologie di remunerazione ai due fattori di produzione) è argomento negletto, a meno che non si voglia prendere su di sé lo stigma dell’ideologizzato.
Tuttavia, ritornando nuovamente a Idee per la programmazione economica, è rilevante notare come due autori non marxisti avessero chiarissima la rilevanza della politica dei redditi e del rapporto tra massa salariale e redditi da capitale/impresa ai fini dello sviluppo di un Paese. Questo sempre per ribadire che la teoria economica mainstream e l’agenda politica dominante non siano espressione di un avanzamento della disciplina economica né di un qualsivoglia stato di “natura”, bensì il risultato di conflitto di potere, con le evoluzioni che ne sono conseguite.
Alcune attività economiche progrediscono più di altre; alcuni territori si arricchiscono più di altri; gruppi – e classi – beneficiano più di altri. E, punto cruciale, questi benefici non si ridistribuiscono a chi rimane indietro senza interventi politici. Oltre sessant’anni dopo il boom economico, ci troviamo ad affrontare ancora le stesse criticità strutturali dell’Italia, per altro dopo anni di stagnazione quando non di recessione.
Pur accogliendo il Recovery Fund come una buona opportunità per recuperare almeno un poco di ciò che abbiamo perso nel passato decennio, per un effettivo e condiviso miglioramento occorre tuttavia un lungo lavoro di ripensamento, quasi impossibile da mettere in cantiere nei tempi cupi che stiamo attualmente vivendo.
E allora, aggrappandosi al pensiero della disciplina economica passata (anche quella con cui non si è del tutto in accordo), non resta che concludere – o iniziare – con l’auspicio che nel “periodo non breve” che abbiamo di fronte si inizi a pensare lo sviluppo guardando sempre a cosa e a chi rimane fuori dal quadro, ragionando per squilibri e non equilibrio. È già un proposito molto ambizioso.
[1] Per il dibattito sul MES, si rimanda all’articolo di Francesco Saraceno su Domani del 10 ottobre e a quello di Roberto Artoni su Sbilanciamoci del 20 ottobre 2020.
La foto di copertina è Il Quinto Stato di Hernán Chavar, illustrazione che accompagna l’omonimo articolo di Maurizio Ferrara sul Corriere della Sera del 13 luglio 2018.