Convinti, quando le cose vanno bene e quando le cose vanno male, che ciascuno deve fare il suo lavoro, ci troviamo come redazione di fronte a un evento globale, che concorre a mettere a nudo quelle paure che saranno l’argomento del terzo numero del nostro semestrale cartaceo.
Partendo dal testo di Angelo Miotto, abbiamo deciso – nostra vecchia passione – di lanciare un Decameron online, nella vecchia tradizione, di fronte alle paure, di riunirsi attorno al fuoco (della passione narrativa) e di raccontarsi storie.
Mandateci il vostro racconto di questi giorni di Corona virus, tra allarmismi, improvvisati esperti, legittime paure e doverose cautele. Va bene, al solito, qualsiasi linguaggio: audio, testo, video, foto. Inedito o citando altri. Scrivete a redazione@qcodemag.it e noi vi pubblicheremo.
Il contagio delle storie – 24
Storia della condivisione, o di come l’egoismo non bastò più a sé stesso –
Andrea Arisi
Il vetro della credenza sembra vivo, animato com’è dal nervoso susseguirsi di lampi colorati. Sono i riflessi della TV, ormai accesa a qualunque ora del giorno, quinto componente di una famiglia annoiata. Ci troviamo tutti in rigoroso silenzio, ognuno con gli occhi incollati sul suo monitor di fiducia. Pc, tv, tablet, cellulare. Mai nessuno si sarebbe assunto la responsabilità di romperlo, quel silenzio, tanto meno ora, il momento della giornata dedicato agli aggiornamenti: guariti, contagiati, morti. Metto in pausa il film per ascoltare il bollettino del Grande Capo della Protezione Civile.
«Il numero di contagi scende di mille unità. Il numero di morti sale lievemente. Come abbiamo detto i dati dei decessi seguono di pochi giorni quelli relativi ai nuovi casi di Covid-19. Aspettiamo qualche giorno per confermare un rallentamento del trend» dice.
Non c’è un filo di entusiasmo, né di speranza nella sua voce. Si circonda, però, di quella tranquillità pacata che ho sempre invidiato alle persone autorevoli. Prima di passare la parola al collega del Consiglio superiore di Sanità, soffoca qualche colpo di tosse nella piega del gomito. Sussulto nazionale. Decido che per oggi può bastare così.
Cerco le cuffiette nelle pieghe del divano e il film riparte. Tornano a scorrere i paesaggi texani di Cinecittà e Clint Eastwood, sotto una pioggia torrenziale, si ravviva l’ennesimo sigaro. Penso a Oreste e al toscanello-della-vittoria che ci sta aspettando là, in qualsiasi posto fuori dalla finestra. Riesco a domare il desiderio pensando che sia solo questione di tempo. Di fianco a me sul divano, la pancia di mio padre culla ritmicamente il cellulare. Su e giù. Onde di un mare di trigliceridi e colesterolo alto. Col dito sullo schermo sta passando al vaglio una fitta schiera di notizie, scegliendo con cura quelle per cui avrà senso indignarsi.
“Avviata sperimentazione di clorochina in una clinica francese: il 90% dei pazienti risponde positivamente”. “Tutto ciò che non vi dicono sul Covid-19”. “A Whuan esperimenti di guerra batteriologica. Parla uno degli scienziati coinvolti nelle ricerche”.
Travaso di bile, scarica di dopamina. Glielo leggo negli occhi. Fiuto nell’aria che qui, sul Pianeta Salotto, nel giro di pochi minuti la situazione diventerà drammatica. Lo capisco dalla velocità con cui sta divorando l’articolo di un giornale online sconosciuto. Le pupille precipitano lungo le rapide di parole e non c’è possibilità che si fermino. Ancora qualche istante e la botta da fake news salirà al cervello. Capisco che è arrivato il momento di mettersi al riparo e alzo il volume del film.
[M: “Secondo te era proprio necessaria quella strage? Ti avevo detto solo di spaventarli.” F: “Chi muore è molto spaventato.”]
«Siete dei cialtroni! Ogni giorno alle sei a fare l’elenco della spesa, ma perché non dite le cose come cazzo stanno, razza di coglioni?» Finalmente tonico, ritrova le energie per alzarsi dopo un bed-in che si prolunga ormai da dopo pranzo. Collo rosso e vena in leggero rilievo lo seguono in battaglia, fedeli compagni di una vita. È il suo momento e la sua anima narcisista lo fiuta nell’aria. Non può esimersi dal salire sul palco per il monologo: cinque minuti di sproloqui complottisti son quello che ci meritiamo dopo una giornata di reclusione.
Se Dio esiste di sicuro mantiene la distanza di sicurezza da casa nostra. Il viso cupo di mia madre accoglie ora due occhi sconsolati, in pensiero per il mondo e per i suoi figli. Chiede con urla da mercato al marito la fine del suo monologo, convinta di raccogliere con la sua voce le istanze popolari. Io e mia sorella, a nostro agio nel ruolo di sdraiati, cerchiamo di sprofondare definitivamente nel divano. Alzo nuovamente il volume.
[H: “Ho visto tre spolverini proprio come questi tempo fa. Dentro c’erano tre uomini. E dentro agli uomini tre pallottole.”]
Poi, sulle note di un accorato j’accuse contro la comunità scientifica internazionale, colpevole di “essere finanziata dalle lobby farmaceutiche per far finta di non capirci un cazzo”, raccolgo i quattro stracci di cui mi circondo da una settimana e sposto la mia roulotte immaginaria in cameretta.
Non fraintendetemi, sono molto preoccupato anche io e se non fosse per l’operazione di autodisinformazione che sto portando avanti con grande impegno, lo sarei molto di più. Mi ripeto che quello che posso fare in veste di cittadino responsabile, già lo so: lavarmi le mani, non uscire, mettere la mascherina al lavoro e mantenere almeno un metro di distanza dagli altri. Il resto è intrattenimento mediatico a cui preferisco, per vigliaccheria o per istinto di sopravvivenza, gli Spaghetti Western.
Attraversata la guerra civile che ha fatto della sala un territorio ostile, approdo in cameretta, ultimo baluardo di pace. Lo sguardo cade sul poster dell’album Axis: Bold as Love che con le sue tinte e trame indiane emerge dalla parete celeste. Poi, la scrivania sommersa da libri e articoli da leggere per la tesi, a cui decido di girar le spalle e con un’abile giravolta mi ritrovo sul materasso.
Giusto il tempo di incastrare un cuscino dietro le spalle e riparte il film.
[H: “La calma è la prima qualità per un uomo d’affari.”]
Scende la sera e inizia a far buio sui pensieri. Siamo in tanti a guardar fuori dalla finestra, ma è difficile farci compagnia. Mentre Claudia Cardinale prepara un caffè, penso che la possibilità di farsi abbracciare da qualcuno in tempi brevi, sia un’utopia a cui è meglio non affezionarsi.
Per inciso, non spingo volontariamente il mio pensiero oltre i tre giorni, fa parte del patto di stabilità emotiva nel quale, tra le altre cose, mi costringo al digiuno forzato di notizie. Ad eccezione dei Sandra e Raimondi nostrani che si lanciano granate davanti alla TV e del finto visone che una volta rispondeva al nome di “sorella”, è tre giorni che non vedo una persona.
L’ultimo è stato Elio l’altra sera. Abbiamo deciso di uscire, disubbidendo alle regole del gioco per rispettare quelle non scritte di due malinconie legate. Ci conosciamo dalle scuole elementari, io e Elio. Poi un’adolescenza vissuta, la sua, e una domata, la mia, ci hanno allontanato, per riscoprirci anime inquiete qualche anno dopo: piedi che in discesa perdono il ritmo sui pedali, li abbandonano e ritrovano contemporaneità solo quando, raggiunta la faticosa pianura, c’è bisogno di spingere.
Siamo usciti insomma e ci guardavamo intorno continuamente, per paura di essere sorpresi dalla volante di ronda. Sfruttando la copertura di androni e angoli bui dei due cortili che separano le nostre case, sgusciammo come due ladri tra i cortili, fino a raggiungere le due panchine di cemento che cercavamo.
La barba folta, che ho sempre invidiato, gli occhiali squadrati con montatura nera. Sì è proprio lui, mi dico, come se dopo un periodo lungo di lontananza avessi bisogno di conferme sulla sua identità. Ricordo che lo sguardo mi cadde sui jeans larghi, sformati, con risvolto di qualche centimetro. Sorrisi. Sì, era proprio lui.
*
Troviamo nella piazzetta di fronte al Bar Tenderly il posto ideale per fermarci. Apro il Syrah e gli cedo uno dei miei bicchieri di plastica. Verso prima lui e poi a me, ma ruotando la bottiglia una goccia ambrata precipita sui miei pantaloni. Non mi dispero. Per la serata ho scelto tuta e scarpe da ginnastica scolorite di cui poco mi importa.
«Hai visto? Arrivano una cinquantina di medici da Cuba» gli dico sorridendo. «Hasta siempre Comandante!» risponde fingendo una pronuncia spagnola e il pugno chiuso. «Sei un coglione» ridiamo entrambi. «Sei contento immagino» mi domanda con tono retorico sbuffando fuori il fumo della sigaretta. Mi coglie alla sprovvista. Che cazzo di domanda è? Ma non risponderò a tono, no.
Attutisco il colpo e faccio come se niente fosse. Mi metto nei panni di uno che sta camminando sopra delle uova e replico con massima insicurezza. «Beh, si. Immagino un po’ tutti. È bello quello che si sta creando. Prima la Cina, ora Cuba e la Russia. Non voglio pensare che ci siano interessi economici in ballo, questo tipo di stronzate le lascio a mio padre. Sarò ingenuo, ma non mi importa.»
Bravo, così, idealista, ma deciso. Guardiamo entrambi davanti a noi, in quel fazzoletto di nulla dove si schiantano i pensieri. «No, certo, hai ragione. Tutti parlano di ‘sta collaborazione, della riscoperta di valori da cui ci eravamo un po’ allontanati. Il virus non guarda in faccia nessuno, non conosce confini, culture, classe sociale, orientamento sessuale…» «Compagno Covid-19, vivi e lotta insieme a noi!» lo interrompo. «Coglione» sta volta me lo prendo io con merito. Uno a uno. «Però in questa riscoperta della cooperazione, io faccio fatica a non vederci l’interesse» prosegue Elio. «Oddio, ti prego fermati. È tutto il giorno che sento cazzate a casa di questo genere! Facciamo ‘sto patto, firmiamolo col sangue, se vuoi parliamo anche del modello genitoriale che i Ferragnez incarnano, però mettiamo al bando guerre batteriologiche e complotti vari, le Torri Gemelle e lo Sbarco sulla Luna» dico alzando la voce. «Ma no ma che cazzo hai capito! Ma lasciami parlare!»
Elio aspira gli ultimi due tiri di sigaretta in rapida sequenza e il tabacco si fa nuvoletta sbiadita. «Anche io son contento dell’arrivo di medici cubani, cinesi, armeni e babilonesi, ma chi li voleva fino a un anno fa? E chi li rivorrà tra un anno?» «Ellamadonna! Ma che cazzo di discorso è? L’urgenza è ora, un anno fa non se l’aspettava nessuno e tra un anno mi auguro sia tutto finito. Via, lontano.» rispondo scocciato. «Sì, ma non parlo del virus, parlo di ‘sto bisogno di collaborazione, di vicinanza umana prima ancora che dell’aiuto medico. Mi chiedo dove siano finiti ora sovranismi, nazionalismi, populismi e compagnia bella. Tutto scomparso, tutto superato? Guarda che quella merda torna o meglio non se ne va mica con un virus. Ora si fa da parte perché le conviene.» “Addirittura!” pensai. “Guarda te che effetti strani sta quarantena”.
Di solito di politica non parla e immagino la ritenga qualcosa che ha perso quasi definitivamente la sua estetica. Posarci il pensiero, non credo ne valga la pena per lui, animo artistico. Ma è anche vero che, nel bene o nel male, Elio ha sempre avuto la capacità di stupirmi e di sfuggire alle mie categorie. In fin dei conti succede che chi rimane affascinate dal canto della complessità, finisca poi per viverci in simbiosi.
«Quello che voglio dire» prosegue «è che io e te, gente come noi, ci crede nella collaborazione. Ci sentiamo vicini a chi ha bisogno, a chi fa fatica e se potessimo li aiuteremmo tutti, Cristo! Ma gli altri, la maggioranza, lo fa per salvarsi la pelle e basta. Lo fa perché ha paura.» «Sì, hai ragione. Però c’è anche da capirli. Che poi anche io ho paura e mi ci metto dentro alla maggioranza di cui parli tu. Sono preoccupato.»
Ci prendiamo una pausa. Torniamo a fissare il vuoto, ma mi accorgo che è come se stessimo parlando lo stesso. Non mi ricordo se su Skype funzioni allo stesso modo, così, mi riprometto di provare pause di silenzio nelle videochiamate dei prossimi giorni.
«Sì, ma è un compromesso che mi fa cagare» dice. «A te non fa schifo?» mi chiede. «Aspetta non ti seguo…». Che vergogna non capire. Decido di versarmi altro vino, pensando che possa aiutarmi. Nel mentre Elio guarda il vuoto, il solito fazzoletto di nulla dove si schiantano i pensieri. Sta volta, però, quel vuoto inizia a riempirlo di parole. «Pensa ad un palco, ok? Travi di legno, sipario di tela azzurro aperto, luci. Dai, tipo quella merda dell’oratorio, ti ricordi? Quello su cui salivamo per i balli di gruppo durante il Feriale» ride. Rido anche io di tenerezza.
Non pensavo al teatro dell’oratorio da tantissimo tempo. E più ci penso, più mi convinco che l’ultima volta che ci salii su fu quando riuscii a elemosinare un sorriso a Paola: quinta elementare, Superga, maglietta verde, occhi abbinati alla libertà dei suoi ricci castani. Non le avrei mai parlato veramente, al di là di qualche “ciao” estremamente precario.
Le tenevo nascosto Il giardino delle delizie di Bosch ed era estremamente scomodo farlo. Una roba del genere anche se continui a rimangiartela mica la digerisci. Infatti, continuava a premermi sulle costole e schiacciarmi il diaframma. Ma, fidatevi, meglio quel dolore che decidermi ad accusarla di avermi fatto dipingere tutta quella confusione. Dopotutto mica avevo scelto io di innamorarmi. Era chiaramente colpa sua. Paola, ti odio ancora. Elio nel frattempo si riprende dalla risata e continua.
«Allora, è come se fino a quel giorno sul palco ci riuscivamo a salire da soli. L’animatore chiamava e l’esercito lobotomizzato di bambini che corre a chi arriva per primo. E c’era anche qualcuno che era già uno stronzo arrivista e spingeva gli altri concorrenti stando attento a non farsi beccare.» Cristo, me li ricordo tutti. Nomi, cognomi, gel sui capelli, sguardo illuminato e…e fidanzatine.
«E’ come se ora ci avessero tolto pure la scaletta di legno e per poter raggiungere la scena prima di tutti, abbiamo bisogno di aiuto. Ci guardiamo intorno spaesati. Siamo costretti a rallentare la corsa e poi a fermarci. L’adrenalina scende, qualcuno inizia a lamentarsi, i più pigri dalle retrovie esultano, ma senza esagerare, sia mai!» sorride. Mi ricordo pure loro. Nomi, cognomi, brufoli, gocce di sudore sulla fronte, ombelico-candito su bignè stra-ripieno e…e fidanzatine.
Elio prosegue «Dopo il primo momento di disorientamento e preoccupazione, iniziamo a cercare qualcuno che ci tiri di sopra. Lo desideriamo sempre di più, perché l’obiettivo rimane arrivare su per primi, capito?» mi domanda. Annuisco. «Ci dà un po’ fastidio ammetterlo perché eravamo abituati a farcela da soli, cazzo. Arrivi col fiatone, fai i gradini due alla volta, l’ultimo addirittura lo salti così atterri sulle travi facendo un gran rumore, che per farsi notare non guasta» dice Elio, un po’ schifato. Far rumore.
Ecco, Paola, hai ragione forse potevo fare un po’ più di rumore. Ma questo non cambia le cose, ti odio. «Eh sì, però a sto giro degli altri ne abbiamo bisogno» replicai per far vedere che stavo seguendo. «Eh sì, sta volta togliamo i paraocchi e guardiamo gli altri. E sai chi riesce a salirci sopra quel palco?» mi chiede. «Quello che si fa aiutare» «Esatto e perché?» Esito. Poi mi butto. «Beh, perché dopo aver realizzato che da solo non ce la può fare capisce che può raggiungere l’obiettivo solo mettendosi insieme ad altri, tipo squadra.» «No!» dice Elio. E me lo dice con tutto il corpo, da seduto. Appoggia forte il tallone destro sul cemento, e a cascata ondeggiano verso il basso testa, spalle, sigaretta e ginocchia su cui tutto poggia. «Ce la fa perché ha più voglia di salirci. Perché non può fare a meno di salirci. Lui, nella vita, deve stare sopra il palco. Del resto poco importa.» risponde. Mi guarda in faccia. Io esito ancora. «Credo di non aver capito, scusami» ammetto.
«Allora» e lo dice tornando a fissare il vuoto. «Te ne dico un’altra. L’altra sera guardavo un programma su Rete 4, ci son capitato per caso eh, mica volevo. Intervistavano la gente in fila davanti al supermercato e mentre stavano facendo una domanda ad un ragazzo sui trenta, si sente fuori campo una voce che si lamenta. Era una signora sull’ottantina che ripeteva roba tipo “devono aiutarci! devono aiutarci! qua non resistiamo più!». Comincio vagamente a capire. Per cui mi verso altro vino. Poi, ci sincronizziamo su una breve sorsata di Syrah. «Capito? Parlava con una voce rotta dal pianto. Gemeva, ecco, il termine giusto è gemeva. Le tremava anche un po’ la voce. Mi si è stretto il cuore Olmo, Cristo!, quasi piangevo» «Mediaset non perdona. E il patto di stabilità emotiva se ne va farsi fottere.» rispondo per stemperare. «Coglione». Due a uno per me, sta sera sono in forma. «Comunque, ho spento la tv, ho messo su un film, mi son lavato i denti, ma la vecchia continuava a rimanermi in testa. Allora ho pensato di scrivere e ho messo giù qualcosa. Ora te la leggo. Tranquillo che è breve.» Sorride.
Perché rassicurarmi sulla lunghezza della cosa? Pensando di sembrargli altamente disinteressato, decido di versarmi altro vino, ormai panacea per i miei cali di concentrazione. Elio, si alza dalla panchina di cemento su cui ci si stava congelando il culo. Sugli occhiali comincia a scorrere la sezione “note” del cellulare e un’altra nuvola di fumo esce dal centro della sua barba incolta.
«Eccola.» Prende fiato aspirando tabacco, poi con forza butta tutto fuori. «Nessuno basta più a sé stesso. Peccatori di un egoismo gratuito, ci hanno fatto scacco matto all’autosufficienza costringendoci, per la legge del contrappasso, a ripetere: Dovete aiutarmi. Dovete aiutare me e la mia famiglia. Dovete aiutare me, la mia famiglia e i miei amici. Dovete aiutare, me, la mia famiglia, i miei amici e il mio paese. Noi, che, se avessimo potuto fare a meno della nostra morale, l’altro l’avremmo anche ucciso, ci ritroviamo ora ad aspettarlo sulla soglia di casa. Come un esercito di Penelopi senza Nessuno, snoccioliamo rosari pregando l’arrivo di Chiunque.» Silenzio. «Basta, finito» conferma. “Carino”, pensai. «Scrivi sempre bene» gli dissi, anche se non mi convinceva del tutto. In fin dei conti niente di nuovo. “Invidioso” pensai.
«Sì, ma hai capito ora?» «Allora quello che stai cercando di dirmi è che nonostante ci rallegriamo degli aiuti e ammettiamo di aver bisogno di qualcun altro, nel profondo di noi stessi restiamo comunque egoisti?» «Esatto. È un egoismo che pur di sopravvivere a sé stesso, accetta per un po’ di tempo di accogliere l’altro. Ma la verità è che restiamo egoisti. Il bambino che toglie i paraocchi e si guarda intorno, dentro di sé non vede l’ora di rimetterseli, capisci? Senza è a disagio, un po’ tipo te con Paola alle elementari» ride, lo stronzo. «Si chiamava così no?» ride di nuovo. Lo stronzo. Tuffo sincronizzato dentro i due bicchieri di Syrah. È il nostro modo di esultare sull’allineamento dei pensieri. Riemergiamo, prima io poi lui e decido di parlare. «Sì, però, alla fine la collaborazione c’è stata, non basta già questo?» gli chiedo speranzoso. Per inciso, io un po’ negli altri ci credo. «Sì, Olmo, sì, basta. Ma non lo so…» risponde sconsolato. Poi continua «La verità Olmo, è che io in tutta questa collaborazione di cui parlano non ci vedo nessuna riscoperta dell’altro» mi confessa Elio. “Che palle sto pessimismo” pensai.
E io, dannazione, possibile che non abbia niente da dire? Forse questo è il prezzo del mio digiuno da informazioni, del mio patto di stabilità emotiva. L’aridità del pensiero. D’altronde si sa che quando si è troppo tranquilli non si ha mai nulla di interessante da dire. E in un mondo che fa della ricerca della sicurezza la sua prima missione, quante parole inutili. Restiamo in silenzio per un po’. Cerco affannosamente qualcosa da dire e, rassegnato, non posso fare a meno di guardare l’orologio.
L’1:00. È l’ora a cui normalmente saremmo andati al Rainbow Cafè. Tequila, lime e berberè. Giù. Gente sbronza persa. Ce ne prepari un altro. Quanto cazzo sei bella. Quanto cazzo sei ubriaco, ma hai cinquanta anni, non ti vergogni. Giù. Che quadro è quello. Jimi Hendrix. Pure qua. Altri quattro grazie. No, dai, vorrei essere abbastanza coraggioso solo per farmi chiedere da te cosa faccio nella vita. Sei un angelo. Giù. Che cazzo di Gin è quello. Giù di nuovo.
Quanto mi mancavano le domande di cui non si sente il bisogno urgente di una risposta. Quanto mi mancava la libertà.
«Vabbè, ultima sigaretta e andiamo?» chiede Elio «Ultima sigaretta e andiamo.» rispondo. * WhatsApp. Elio. Ultimo accesso 3:44. Olmo sta scrivendo… «Non so se c’è sempre del buono anche nelle cose cattive e non sono il tipo di persona che vede il bicchiere mezzo pieno. Questo periodo fa schifo, ho paura per me e per gli altri e l’unico motivo per cui non mi dispero è perché ho la certezza che la vita tornerà a travolgermi e a travolgerci. Con alito alcolico ce lo racconteremo come un periodo strano, avvolti da nuvole di fumo e gente mai vista intorno che è lì col chiaro compito di fare brusio di sottofondo ai nostri discorsi. Ecco, però, quando saremo lì, di nuovo insieme, mi piacerebbe che in una sperduta parte di ognuno di noi, quello stare insieme abbia significati nuovi. Riscoprire la gioia della vicinanza, di baci e abbracci non basterebbe, perché ci abbiamo fatto il callo per una vita e basterebbe poco esercizio per riprenderci l’abitudine. Mi piacerebbe che in uno di quei momenti in cui ci troviamo da soli anche se in gruppo, tipo quando uccidi la sigaretta sul cestino, sentissimo che c’è qualcosa che non è più uguale a prima. Si è spezzato il tempo, un punto nella narrazione, che non cancella nulla, ma esige l’inizio di un periodo nuovo. Ricominciare da dove ci eravamo fermati, mimi che tornano persone dopo una lunga posa, sarebbe come rinunciare a crescere per paura. Ognuno di noi avrebbe perso un’occasione. Se è vero che il virus ci sta costringendo ad un nuovo egoismo, più subdolo, ci sta anche dando la possibilità di non continuare a fissare quel fazzoletto di nulla dove si schiantano i pensieri, ma parlare e guardarci. Il bambino può decidere di togliersi i paraocchi, solo quando si accorgerà che la visione laterale completa il paesaggio. Magari non ci farà mai caso o magari sì. Quello che è certo è che per ora non ce li ha su. È un buon momento per lui, ma non sa riconoscerlo. Qualcuno dovrà costringerlo a restare per un attimo giù dal palco chiedendogli “chi è quello che hai di fianco?”.
Innamorarmi di Paola, farlo in silenzio, imparando a sentire il mondo attraverso di lei, è stata una delle migliori cose che mi siano capitate nella vita.
Chiudo con una citazione di Gaber, così almeno il finale del messaggio non sarà da buttar via: “Qualcuno era comunista perché aveva bisogno di una spinta verso qualcosa di nuovo. Perché sentiva la necessità di una morale diversa. Perché forse era solo una forza, un volo, un sogno, era solo uno slancio, un desiderio di cambiare le cose, di cambiare la vita. Sì, qualcuno era comunista perché con accanto questo slancio ognuno era come, più di sé stesso. Era come due persone in una. Da una parte la personale fatica quotidiana e dall’altra, il senso di appartenenza a una razza, che voleva spiccare il volo, per cambiare veramente la vita.” Non divertirti troppo a casa che poi magari ti viene in mente di poter fare a meno degli amici. Bella lì!
P.S. (Per il bacio mancato con Paola mi rode un sacco, comunque. Mi chiedevo se sta ancora in quartiere, ne sai qualcosa? Che volendo guardare, poi, ora dove le chiedo di uscire. Boh, vabbè, come non detto. Ciao.)»
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