Riconosco quel guizzo, quegli occhi che si strizzano sotto sopracciglia increspate come punti interrogativi, quello sguardo a metà fra il curioso e il perplesso che avrò visto decine di volte sulla faccia dei miei interlocutori nel momento in cui dichiaro le mie origini.
Lo conosco ormai bene e già so che è il preludio di un interrogatorio, che si ripete ogni volta, prevedibile come un modulo dell’Ufficio Anagrafe.
“Sei ebrea?” Scuoto la testa. “Tuo padre è ebreo?” La scuoto di nuovo. “Qualcuno della famiglia…”. Scuoto la testa per la terza volta. “Allora forse i tuoi avi arrivano da queste parti”. Mi vedo costretta nuovamente a contraddire l’avventore, ma l’unico elemento esotico nel mio albero genealogico, saldamente piantato nelle campagne del casertano, è un bisnonno del Basso Lazio.
A questo punto, quindi, esclusa la pista delle origini, l’interlocutore si concentra su altri particolari in cerca di possibili indizi. Ad esempio la ridicola agendina fluo su cui traccio svolazzi illeggibili in alfabeti misti: “Sei una giornalista, forse…”. Oppure, ispirato dai miei occhiali e supportato dall’iconografia popolare in cui la vista scadente va amorosamente a braccetto con l’attitudine allo studio, qualcuno ipotizza che potrei essere un’insegnante. Altri, probabilmente affetti da problemi di vista più seri dei miei, arrivano addirittura a scambiarmi per una studentessa. Ma nessuno si mostra disposto ad accettare la realtà, ovvero che nessuna ragione concreta mi abbia spinta fin qui: non un’indagine giornalistica, non un obiettivo pedagogico, non la ricerca delle radici. Non delle mie, almeno.
Sono solo un flâneur, una viaggiatrice, o, per essere più spicci, una perdigiorno in vacanza.
“Ma come?” azzarda qualcuno “Noi da qui veniamo tutti in Italia e tu dall’Italia vieni qua?”.
“Non si sa mai, i tempi possono cambiare”, rispondo, “forse, quando dall’Italia ci toccherà emigrare in massa, saremo noi a venire da voi. E io sarò già preparata”.
Ironizzo, ma non troppo. In fondo è già accaduto nel corso della storia dell’umanità che una terra di emigranti sia diventata nel tempo un luogo d’approdo per immigrati. Noi italiani lo sappiamo bene o, almeno, dovremmo. Loro, i locali, però, nella maggior parte dei casi ridono. Ridono di quella che alle loro orecchie suona come un’assurdità roboante o come il vezzo faceto di una straniera arrivata fin qui a ipotizzare un futuro bizzarro sullo scenario di un presente che mostra esattamente il contrario: la gente di qua se ne va.
L’aeroporto dove arrivo, infatti, sembra costruito apposta per permettere alle persone di emigrare. Una superficie da stazione ferroviaria e poche partenze, tutte verso ovest e quasi tutte low cost.
Arrivare qui da Bergamo mi è costato 20 euro, Per una somma inferiore a quella che avrei speso per andare a Venezia mi ritrovo sul margine orientale d’Europa, per la precisione a Iaşi, cittadina universitaria rumena a pochi chilometri dal confine con la Moldavia, il punto di inizio del viaggio.
Il cielo grigio piombo che fa da sfondo a cupole d’oro annuncia che al mio seguito stanotte è arrivato anche l’autunno. L’acqua che si rovescia sulla città senza sosta e senza alcuna prospettiva di schiarita ha trasformato in una umidiccia maratona a capo chino il breve transito a Iaşi, di cui ho avuto modo di conoscere principalmente il manto stradale. Tuttavia, anche da questo punto d’osservazione è possibile indovinare l’aspetto della città. Mentre saltello per marciapiedi accidentati che incrociano strade asfaltate, che incrociano a loro volta tratturi sterrati attraversati da rivoli di fango, nella mia testa, sotto l’inerme cappuccio già zuppo, Iaşi prende la forma disarmonica del consueto, incoerente patchwork edile di gusto post-socialista, creazione di artefici, oggi come ieri, spinti da afflati evidentemente prosaici.
Dalle vetrate di un piccolo bar del centro, di quelli dove servono sandwich al salmone e avocado su tavoli ornati da piantine in vasi di latta, riesco finalmente ad alzare la testa: vedo edifici moderni in vetro e cemento, gallerie commerciali e poco lontano l’ubiqua insegna rosso fiammante sotto la quale si spaccia il famoso pollo fritto in secchi di cartone.
Osservo questo scorcio di paesaggio urbano e mi chiedo per l’ennesima volta dove si nasconda l’errore di sistema per il quale la presenza dell’Occidente, magnanimo mecenate di arti e di culture, promotore di valori e di rispetto delle diversità, si traduca in pratica nella rassicurante, monocorde possibilità di fare in qualunque posto del mondo esattamente quello che faremmo nella via sotto casa: mangiare lo stesso pollo fritto, bere lo stesso caffè annacquato, ripulirsi con le stesse erbacce detox. Addirittura, comprare le stesse mutande.
Adesso però non ho tempo per gli interrogativi sociologici, perché un’operazione ben più complicata mi riporta con i piedi per terra. Devo pagare il conto in una valuta con la quale non ho ancora preso confidenza.
Sono trentaquattro lei, mi dice la donna alla cassa.
Rivolto le banconote, razzolo fra le monete e intanto conto: 30 lei, 32 lei, 33 lei…e mi fermo a cercare il pezzo giusto. La donna alla cassa viene a soccorrermi: “Quello.Va bene quello. Così siamo a posto”, mi dice in italiano. Chiedo, fingendo di non conoscere già la risposta: “Dove ha imparato l’italiano?”. “Ho lavorato in Italia, a Genova. Poi dieci anni fa ho deciso di tornare in Romania”. Ma non ha perso i legami con l’Italia, mi racconta, è ancora in contatto con amici che sono rimasti. “Situazione però diventata brutta, mi dicono”. Dicono bene, confermo.
Pago, ringrazio e mi avventuro di nuovo sotto la pioggia verso la stazione dei bus e verso Chisinau, la capitale della Moldova.
O almeno questi sono i piani, ma le ore a venire mi ricorderanno che i piani non vanno mai presi troppo sul serio, soprattutto in alcune zone del mondo, dove il tempo, sotto la superficie di un moto apparentemente lineare, si scompone in rivoli e correnti che non si prestano a essere scanditi da un solo strumento e da un’unica unità di misura.
Iasi, come molti altri luoghi che incrocerò sul mio cammino, sembra essere uno di questi. Se fra le vie asfaltate dei distretti commerciali, fra i palazzi di vetro e cemento, il tempo scorre puntuale e veloce al ritmo di orologini digitali alla moda, altrove la sua corsa frena, si dilata, torna indietro e indugia indolente come il battito di un vecchio orologio con la batteria in affanno.
A tratti si arresta. Così come si arresta la mia corsa nel punto dal quale dovrebbe invece riprendere: la stazione dei bus.
Non che manchino i mezzi e le informazioni giuste. Le corse per Chişinău sono piuttosto affollate e frequenti, apprendo con sollievo dai viaggiatori abituali che fanno le veci del tabellone. Ma il mezzo che ci condurrà in Moldavia è un minibus da quattordici posti, scopro con sgomento di fronte alla folla di viaggiatori in attesa, il cui numero è almeno il doppio dei posti disponibili.
Nessuna prenotazione o prevendita: l’unica possibilità di conquistare il posto a sedere è affidata allo scatto felino e alla prestanza fisica del viaggiatore, esattamente come ai tempi della mia adolescenza in campagna, quando si attendeva di poter montare al mattino su una delle tre corriere di linea che ci avrebbero portato a scuola. Sempre a condizioni di riuscire a farsi spazio nell’abitacolo di un mezzo pieno come un involto sottovuoto.
Decido di onorare i vecchi costumi: oggi, come allora, scanso la folla, mi faccio da parte e aspetto. Con il benvolere del fato il mio turno verrà, approssimativamente fra tre minibus e diverse ore di pioggia ininterrotta sulla città e sulle nostre teste.
Anche i miei compagni di viaggio la prendono con grande filosofia. Qualcuno mangia, qualcuno beve, qualcuno ciarla, qualcuno, le tre cose insieme. Sembra quasi l’ora dell’happy hour.
Io inganno il tempo scambiando opinioni e taralli al finocchietto con una studentessa originaria di Chişinău, ma iscritta, come tanti giovani moldavi, all’università di Iași: le carenze del trasporto pubblico italiano e rumeno in prospettiva comparata, il meteo, sempre in prospettiva comparata, gli studi, i suoi in corso, i miei finiti da un pezzo. Insomma, un dialogo che sembra uscito dal manuale di conversazione fra sconosciuti alla fermata del tram. Fino al momento in cui la mia interlocutrice mi pone la domanda che negli ultimi quattro anni di peregrinazioni dal Baltico alla punta più a sud del Caucaso, con toni variabili che vanno dal preoccupato al perseguibile penalmente, mi è stata rivolta più spesso: “Come sta andando in Italia l’emergenza migranti?”.
In questo caso il tono era “solo” preoccupato. Le rispondo, con l’intenzione di tagliare corto, che non c’è nessuna emergenza. Ma lei non demorde. “In che senso?”, chiede. Rispondo che l’emergenza è tale solo perché ci ostiniamo a trattarla da emergenza, che i numeri non giustificano affatto le ansie da invasione, che è ridicolo chiamare “crisi” o “emergenza” una situazione nata come diretta conseguenza della chiusura di canali legali di ingresso e quindi perfettamente prevedibile già diversi anni fa. Le dico che la vera difficoltà da affrontare è garantire a queste persone la possibilità di una vita normale, ma questo è un nodo dolente che ormai riguarda tutti: africani, rumeni, italiani.
Mi guarda con gli occhi sgranati e mi dice “I canali di ingresso. Non ci avevo mai pensato”. Mi sembra ingiusto infierire: del resto anche fra i miei connazionali sono tanti quelli che non ci hanno mai pensato.
Finalmente, all’orizzonte appare il minibus. La folla si accalca, ma questa per me è la volta buona. L’autista annota i miei dati dal passaporto e me lo restituisce: fra poco dovrò mostrarlo alla frontiera. Già, la dogana! Ora che ho finalmente la testa al coperto, il pensiero di stare in coda sotto la pioggia non mi sorride per niente. Ma le mie preoccupazioni sono superflue. E’ l’autista stesso a raccogliere i passaporti e portarli alle guardie di confine. Dieci minuti di attesa in tutto, per giunta comodamente seduti, mentre la radio diffonde “Love is in the air”, e siamo pronti a oltrepassare la linea di confine che oggi segna il limite dell’Europa comunitaria e che un tempo delimitava il territorio dell’URSS. E infatti già si sente qua e là il suono del russo.
Il cammino riprende oltre il confine, ma non si coglie nessuna frattura: stesso verde, stesse strade sulle quali il limite di velocità oscilla fra i trenta e i cinquanta chilometri orari.
Il tempo ha la batteria nuovamente in affanno, ma fra due ore e mezza circa sarò a Chișinău. Se le lancette non si fermano del tutto.
Sarà il freddo, l’ora tarda, il metabolismo sfasato del lunedì, ma Chișinău non sembra particolarmente vivace, mi dico guardandomi intorno lungo la via principale della città, dedicata al principe Ștefan Cel Mare, che, dopo aver respinto i Turchi nel 1475, nel 1991 è arrivato addirittura a spodestare dagli altari della gloria popolare e dalla toponomastica cittadina il vecchio titolare della strada, il compagno Lenin.
Smarrita come Pollicino in una selva sconosciuta di cemento, attraversata da larghi solchi di strade poco illuminate e tutte uguali, mi affido agli unici segnali che arrivano forti e chiari, quelli di fumo, o meglio, di braci e di carni alla griglia e vado a procacciarmi la cena. Lungo la strada, da una casa angolare fuoriesce un busto commemorativo, proteso in avanti come un testa d’alce impagliata in casa di un cacciatore. E’ il conte Lev Nikolàevič Tolstoj, apposto sulle mura che lo hanno ospitato durante il soggiorno a Chișinău, la Kišinëv imperiale, nel 1854. A breve distanza una targa indica l’edificio dal quale, all’inizio del secolo scorso, uscirono clandestinamente le prime stampe di “Iskra”, la rivista illegale di Lenin. Eppure, nonostante le tracce che nobilitano e ammantano di letteratura e furore insurrezionalista le strade della città, per me Chișinău rimane il ricettacolo degli anatemi di Aleksandr Sergeevič Puškin, il sommo poeta russo, il genio, il frivolo, il mondano, il libertino intellettuale spedito dallo zar a spegnere i suoi spiriti rivoluzionari e i suoi ardori lubrichi in questa periferia remota all’estremo lembo ovest dell’Impero. Pur essendo fatta di tutt’altra pasta rispetto al poeta, credo di capire il perché del suo stato d’animo.
Il giorno successivo porta con sé due notizie. Come spesso accade, una buona e una cattiva. La buona notizia è che ha smesso di piovere. La cattiva è che tira un vento già quasi invernale, noto con una certa sofferenza mentre, dal mio alloggio con specchi tempestati di strass e tappezzeria animalier, esco dall’ingresso che di notte, al mio arrivo, era illuminato da un led rouge passion.
Mentre mi incammino verso quello che suppongo sia il centro, le mie prime impressioni prendono la forma delle spire di fumo che il Brucaliffo soffia sulla faccia di Alice perduta nel paese delle meraviglie, mentre le rivolge ossessivamente la stessa domanda “Cosa-essere-tu?”.
A questa città pongo la stessa domanda.
Chișinău è l’indefinibile capitale della Moldova, uno stato con meno di trent’anni, una nebulosa di storie e destini creata dal collasso della stella rossa di Mosca, mentre questa esplodeva in miriadi di pezzi, e precipitata qui, in questo punto dell’Europa Orientale incastonato fra Romania e Ucraina che gran parte del mondo esterno fa ancora fatica a identificare, se non come casa di un popolo ancor meno identificabile, troppo slavo per essere rumeno e troppo latino per essere russo, troppo europeo per essere turco, ma troppo asiatico per essere europeo.
Insomma, questa Moldova che cos’è? Quello che sappiamo per certo del presente è che la Moldova è il paese più povero e più corrotto d’Europa
Per quanto riguarda il passato, la Moldova è quel che resta di un principato, il cui vessillo è stato riposto in cantina dalle potenze straniere che, dal Medioevo in avanti, si sono avvicendate su questo territorio, confluendo da tutti i punti cardinali: i Turchi da sud, la Russia zarista da nord-est, la Romania da ovest e poi, ancora da nord est, i sovietici; è il crocevia diventato patria di diversi popoli, lingue, religioni e dove ancora si contano più di dieci gruppi etnici, alcuni con nomi evocativi che sembrano usciti da un romanzo di Jonathan Swift. I Gagauzi, ad esempio.
Oggi è il terreno dove apparentemente si scontrano, come copione ormai noto, due poli di potere contrapposti, quello filo-russo e quello filo-occidentale, che, qui, a differenza di quanto accade nella vicina Ucraina, nell’ombra lavorano di comune accordo per spartirsi i guadagni e isolare gli oppositori.
La Moldova è un’entità confusa, eterogenea, affastellata, che si presenta all’happening del Terzo Millennio vestita in giacca e cravatta, con il copricapo di agnello e al petto gli antichi vessilli, rispolverati e riportati in auge dall’oscurità delle vecchie cantine. E’ “un conglomerato ingarbugliato”, ha detto uno studioso famoso.
Mentre percorro il mio primo miglio in città, Chișinău mi sembra la compiuta espressione di quel garbuglio.
E’ un garbuglio questa strada, che si allunga fra basse casette, con muri pastello e i recinti di legno sconnessi e scrostati, poi prosegue fra le ombre degli enormi scheletri di palazzi in costruzione, per sbucare in una larga piazza fra bancarelle di uva e chioschi di coffee to-go e per schiantarsi, infine, contro una muraglia di parallelepipedi in cemento bianco sporco tappezzati di cartelloni pubblicitari.
E’ un garbuglio la selva di hotel, residence, uffici, negozi che prendono il posto degli edifici storici e, dall’alto degli altari del capitale e della grande distribuzione, guardano sprezzanti il brulicante mercato, dove si respira indiscutibilmente un’aria di Vicino Oriente, per non dire di Asia Centrale.
E’ un garbuglio l’intreccio di lingue che sotto la superficie dell’ufficialità neolatina, salta dal rumeno al russo, senza dare troppo importanza alle disposizioni dall’alto.
Ma in questo insieme di voci, colonna sonora del quotidiano, manca una presenza, quella di chi ha vissuto su questo sfondo per secoli da protagonista, ma mai da dominatore e per questo è stato drammaticamente cancellato dal paesaggio. Nelle garbuglio di strade di Chișinău manca l’yiddish, mancano gli ebrei.
Ci sono, ma non si vedono. Sono rimasti in pochi qui in città e alcuni oggi se ne stanno rinchiusi a celebrare la festa di Sukkot nello spazio chiuso di una sinagoga che dalla strada passa quasi inosservata. La grossa porta grigia è chiusa, ma basta bussare leggermente perché si apra nel giro di pochi secondi.
“Avanti! E’ aperto!” Dalla guardiola sporgono le teste di un custode e di un anziano signore barbuto e vestito di nero, che sembra uscito dalle pagine dei romanzi di Joseph Roth.
“Siete ebrei?” Scuoto la testa. “Da dove arrivate?” “Dall’Italia”, rispondo. “Dall’Italia? E non siete ebrei?” “No” ripeto, “non che io sappia almeno”. Poi l’anziano con la barba viene preso da un moto di entusiasmo: “Gli italiani amano gli ebrei, non è vero? Mussolini non uccideva gli ebrei!”. Certo, dico fra me e me, è proprio per ricordare la benevolenza di Mussolini che in Italia, nello stesso momento in cui mi viene posta questa assurda domanda, si preparano ovunque iniziative in memoria dell’emanazione delle leggi razziali che giusto ottanta anni fa privarono gli ebrei italiani dei diritti più elementari. “Mussolini era alleato di Hitler ed è responsabile tanto quanto lui”, taglio corto e mi allontano seguendo il coro di voci che indicano la direzione “Di qua! Di qua!”, verso un corridoio coperto che sbocca in un altro cortile, dove è montato un tendone verde che fino a pochi minuti fa, evidentemente, ospitavano il banchetto per la festa di Sukkot. La piccola folla di convitati, alcuni negli abiti scuri tipici degli ebrei ortodossi, esce dal tendone e si disperde, qualcuno rimane a fare ordine. Uno di loro, in giacca, cravatta, kippah ed espadrillas da spiaggia mi segue nei locali interni della sinagoga. Si presenta: si chiama Borja e arriva da Tel Aviv. “Da Tel Aviv? E come ci sei finito a Chișinău?” chiedo stupita da quella migrazione controcorrente rispetto alla rotta più battuta dalla Moldavia a Israele. Racconta di aver lasciato di sua spontanea volontà Israele, che, dice, “Non è un paese per tutti”. Ha colto al volo l’opportunità offerta dalla multinazionale americana per la quale lavora e ha accettato l’incarico di un anno a Chișinău. Ma il suo contratto sta per scadere e vorrebbe andare altrove in Europa. Nello specifico, vorrebbe fare degli investimenti immobiliari in Italia e a questo proposito mi chiede dei consigli. Mentre cerco di fargli capire che gli affari immobiliari non sono esattamente il mio forte, si leva una voce dal fondo, dove siede un gruppetto di uomini che fino a pochi secondi prima discutevano animatamente in yiddish. “Arrivate dall’Italia? Ester” dice uno di loro rivolgendosi a una ragazza appena entrata “racconta della Calabria!”. Ester, in parrucca e abito lungo, mi spiega che la festa di Sukkot ha come simbolo il frutto del cedro. Perché le sacre scritture siano rispettate, i frutti non devono essere scelti a caso, ma con caratteristiche ben precise. Per questo motivo i cedri di Sukkot vengono selezionati in un posto preciso, nella località di Santa Maria del Cedro, che si trova proprio in Calabria, in provincia di Cosenza. E’ strano, ma fa piacere, di tanto in tanto, ascoltare sugli agrumi calabresi storie che non evochino associazioni infauste.
Intanto, a Ester e Borja si aggiunge Mila, una donna sulla sessantina con una certa propensione alla chiacchiera. Deve essere molto devota, mi dico, a giudicare dalla frequenza con la quale nei suoi discorsi ritornano le parole “volontà divina”, “pregare”, “famiglia”. Soprattutto quest’ultima. Mila vorrebbe convincermi a mettere su famiglia. Cerco di spiegarle che sono troppo irresponsabile anche per occuparmi dei miei quattro cactus, ma lei non si arresta. La famiglia è sacra, i figli sono la gioia. Poi si avvicina, con un fare circospetto, scaccia malamente Borja dicendo: “Vai via, queste sono cose di donne” e dice: “Per fare i figli non serve per forza un marito. Anzi, non serve. Io ne ho avuti quattro. Ma i figli sono tutto”. E poi racconta che i suoi figli sono emigrati in Israele. Uno studia, l’altro lavora in un negozio di scarpe, “ma è felice così, dice Mila – e allora, anche se i miei figli sono lontani, sono felice anche io”, conclude, gettando sull’atmosfera festaiola della sinagoga l’ombra triste di una secolare storia di fughe e dispersioni iniziata più di un secolo fa, quando proprio qui a Chișinău si scatenò la furia che avrebbe cambiato il mondo ebraico in Europa Orientale. Ritroverò quell’ombra nelle vie di quasi tutte le città che ho incrociato sul mio cammino per le strade che un tempo gli ebrei chiamavano patria.
Se siamo rimasti perplessi di fronte alla scoperta della Moldova, se ci è scappata una risata beffarda al suono di quel nome, Gagauzia, che fa pensare, più che a una minoranza etnica, ai parenti turcofoni dei Lillipuziani, se lo stupore chi ha colti più volte davanti a queste entità misteriose, ebbene, è giusto si sappia, è solo perché non siamo ancora arrivati in Transnistria.
Ed è altrettanto giusto iniziare questo viaggio attraverso la natura più profonda e nascosta di questa terra partendo dalle basi: la Transnistria esiste.
Anche se non ne abbiamo mai sentito parlare, anche se quel nome ci fa pensare a una Transilvania altrettanto esotica, romantica, avventurosa, ma finita in sorte al fratello sciocco e meno fascinoso del ben noto conte, e per questo privata della gloria letteraria.
A onor del vero bisogna dire che qualcuno ha tentato di ammantare la Transnistria dell’aura immortale dell’arte, raccontando in un romanzo la sua infanzia trascorsa fra gli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso, a Bender, una cittadina di questo oscuro Far-West sovietico popolato da ex-detenuti siberiani, gli Urka, pieni di tatuaggi, torvi nell’aspetto, spietati con banchieri e poliziotti, ma tutto sommato onesti e rispettosi delle regole – le proprie, si intende – , non come quegli sciamannati di “Seme nero”, l’organizzazione criminale che ormai ha smarrito ogni freno e scrupolo morale.
Queste tinte sinistre con le quali l’autore dipinge la sua terra d’origine aggiungono ombre all’alone di incertezza e mistero che circonda la Transnistria, stato secessionista non riconosciuto da alcun altro stato, a eccezione di Abchazia, Ossezia del Sud e Nagorno-Karabakh, a loro volta non riconosciuti dal diritto internazionale e per questo probabilmente solidali con la Transnistria.
La Transnistria oggi è una repubblica indipendente solo de facto. Questa sottile striscia di terra, casa di appena 500.000 abitanti, principalmente russofoni, e, almeno ufficialmente, pervasa di sentimenti russofili, nel 1992, in seguito a una guerra lampo, si è staccata dalla Moldova, di simpatie che guardavano nel verso opposto, ovvero alla Romania. Da allora il conflitto è rimasto “congelato”: la Transnistria, o come viene definita ufficialmente in loco, la Repubblica Moldova di Trasnistria, appartiene ancora de iure alla Moldova, ma il paese è supportato economicamente dalla Russia.
Praticamente una terra di nessuno, un covo di criminali in lotta con altri criminali su cui si allunga l’ombra di uno dei peggiori cattivi della geopolitica mondiale: Putin.
Fa quasi paura: chissà quali terrificanti fatti si consumano oltre quella temibile frontiera, in questo paese sospeso nello spazio e nel tempo, dove ancora si respira un’aria di secolo scorso e di Unione Sovietica.
A dire il vero l’atmosfera sul minibus in partenza per Tiraspol, la capitale transnistra, non è esattamente quella di un convoglio diretto alla guerra. Sembra piuttosto un salon de coiffeure per signore, di quelli di quartiere: come nel più trito e tristo dei luoghi comuni, siamo tutte donne e tutte in vena di chiacchiere. Il fatto di essere straniera in questi casi è un vantaggio, perché mi solleva dallo sforzo di socializzare. Sono gli altri, di solito, che si impegnano, incuriositi, a socializzare con me. Così, ancora prima di metterci in viaggio, mi ritrovo in una conversazione fra la mia vicina. Da dove arrivi? Dove hai imparato il russo? Come mai da queste parti? Poi, superato il tradizionale minuto di silenzio dell’interlocutore perplesso, si riprende amabilmente come se ci si conoscesse da anni. Così amabilmente che interviene anche un’altra donna. Scopro che entrambe le mie compagne di viaggio, due donne sulla sessantina, sono di Chișinău, ma, stavolta tocca a me restare basita, comunicano in russo. Una delle due vive in Russia da ventisei anni e ormai non riesce più a parlare il moldavo, ovvero il rumeno. “Ma adesso sto cercando di recuperare”, dice, “il russo mi ha stufato”. Neanche il tempo di partire e un’altra passeggera si unisce al terzetto. Ma dopo qualche battuta, passa all’italiano. Anche lei è di Chișinău, racconta, ma vive a Verona, dove lavora come badante. Ora, però, è in viaggio verso Tiraspol dove trascorrerà le sue ferie con la sua famiglia. Le chiedo se preferisce Chișinău oppure Verona. Lei glissa e quel glissare mi sembra eloquente. Ma io non mi offendo di certo. E del resto, perché dovrei. Diamo per scontato, nei paesi ospite, che la migrazione sia un necessariamente un salto di qualità o comunque l’opportunità di vivere in un posto migliore, invece, anche se l’idea ci sembra assurda, molte persone avrebbero preferito restare a casa propria. Anche se “casa propria” è in un luogo che neppure esiste sulla carta geografica.
Intanto, mi segnalano che stiamo per arrivare alla frontiera. Tutte cercano di dare informazioni, tutte cercano di spiegare come fare: scendere dal bus, compilare il modulo, ritirare la ricevuta…in realtà è tutto molto semplice e veloce. La frontiera è una formalità. Un’occhiata al passaporto e ci consegnano la carta di immigrazione, che poi verrà ritirata all’uscita.
Al momento, nulla lascia presagire scenari da romanzo noir a sfondo geopolitico. Ma non siamo ancora nella capitale.
Qui, mentre salto giù dal bus, indecisa sulla direzione da seguire, qualcosa mi colpisce in piena faccia: l’odore di pan brioche, di quelli morbidi, lucidi, appena dolci. Con l’uvetta.
Niente altro balza all’occhio su questo placido, anche troppo, scenario urbano.
Le strade sono tranquille e ordinate, i negozi e i bar aperti, gli uffici di cambio valute attivi e rapidi nel ritirare i miei lei moldavi per sostituirli con rubli transnistri e hryvne ucraine. L’impiegato neanche cerca di imbrogliare sul cambio. Per essere dei criminali sono davvero strani, questi transnistri.
Come molte città dell’area russa imperiale ed ex sovietica, Tiraspol è un reticolo abbastanza regolare di strade ampie che si snodano da un’arteria principale, quella che fino ai primi anni Novanta era intitolata immancabilmente a Lenin. A Tiraspol si chiama ancora così, via Lenin, e incrocia via Karl Marx e via Rosa Luxemburg, che albergano in due strade vicine e parallele. Poco più avanti Via Lenin incontra via 25 ottobre, che celebra la Rivoluzione. Lì all’angolo, in una casa bianca e azzurra in stile imperiale si trova il mio alloggio.
La padrona di casa, Ljudmila, ha settant’anni e un’energia che io non ho mai avuto neanche quando ne avevo sei. Parla a raffica, dà informazioni sull’appartamento, istruzioni sull’utilizzo dei servizi, si fa beffe della vena hipster di sua figlia, che ha esposto come soprammobili un ferro da stiro a carbone e una vecchia macchina da cucito: “Le ho detto: ma che hai fatto? Il museo di Storia?”. E’ originaria di Lviv in Ucraina, che a quei tempi si chiamava Lvov ed era sovietica. Poi alla fine degli studi si è trasferita a Tiraspol per lavoro, si è sposata ed è rimasta in Transnistria. Tutto qua. Ma come è possibile, Ljudmila, mi racconti qualcosa in più, mi parli dello strazio di vivere in un paese che non esiste, dell’arroganza dei criminali, della lenta e mastodontica macchina burocratica, rimasta intatta dai tempi dei soviet! Non mi racconti una storia banale, come quella che racconterebbe la signora Carmela di Castellammare, emigrata per lavoro a Milano, dove ha conosciuto Salvatore di Giarre, si è sposata, ha messo su famiglia e poi ha passato la vecchiaia sul tram a lamentarsi del sindaco, chiunque egli sia!
E invece sì, tutto quello che Ljudmila lascia dietro di sé è una storia come tante, per poi andarsene, risucchiata dai suoi affari: la spesa, i figli e la nipotina, Maša.
All’esterno lo scorrere della quotidianità non racconta una storia molto diversa: la gente siede nei bar, va al mercato, o a passeggiare sul fiume Dnestr, le nonne sostano con i nipoti al parco, dove si diffonde a un volume sinceramente esagerato il mellifluo e molesto ritornello “Ai se eu te pego-Ai se eu te pego” che già ci ha tormentati qualche estate fa. Altro che relitto sovietico, altro che socialismo. Il Terzo Millennio si fa sentire anche qui e a gola spiegata. Lo sa anche il compagno Lenin, che, dall’alto del monumento a lui dedicato, scruta con aria corrucciata il traffico cittadino come un vigile urbano; lo sanno anche le autorità cittadine, che pure si impegnano a conservare sul volto della città le tracce del passato sovietico. Non a caso il Memoriale della Gloria, eretto sulle sponde del fiume Dnestr, è un sacrario alla memoria dei caduti di tutte le guerre che secolo scorso hanno coinvolto questa regione, dalla più recente guerra del 1992 contro la Moldavia alla Seconda Guerra Mondiale, passando per l’Afghanistan, conflitti nei quali i transnistri hanno combattuto come cittadini sovietici. Il tutto con un largo sfoggio di stelle rosse e di falci e martello. Anche se, a dire il vero, lo stemma della Transnistria, con quella falce e quel martello, graziosamente incorniciati da spighe di grano, pannocchie e da un ricamo di tralci di vite, ricorda più il marchio del mercato ortofrutticolo che l’insegna di una coriacea repubblica fedele all’ortodossia del Partito.
Con il passare delle ore tocca accettare la realtà: se non fosse per pochi dettagli – il rublo transnistro che non può essere scambiato con alcuna valuta al di fuori di qua, gli esercizi commerciali che accettano solo carte di credito locali – non ci sarebbe nessun elemento a ricordare la “particolarità” di questa zona.
Di criminali neanche l’ombra. Al massimo qualche faccia arcigna, come il custode dell’università, stizzito al pensiero che qualcuno volesse entrare nel giardino solo per dare un’occhiata. Forse mi ha scambiata per uno di quei giornalisti o scrittori d’assalto a caccia di avventure esotiche e facili scoop. E infatti mi chiede “Ma perché le interessa l’università? Qui non è come in Italia, dove funziona tutto” E’ scortese da parte mia, lo so, ma non riesco a trattenere una risata. Se solo sapesse, egregio signore, quante Transnistrie ci sono in Italia. Potrei raccontarglielo, ma sono sicura che non mi crederebbe.
Così come si farebbe fatica a credere, senza averla vista, che in questa città non succede nulla di strano. O forse sarebbe il caso di dire non succede nulla e nulla credo accadrà nelle prossime ore.
Il mio tempo qui può dirsi scaduto e mi avvio verso la stazione di Tiraspol in direzione Odessa.
La stazione non è molto trafficata. So per certo che di qui transitano, o almeno dovrebbero, treni internazionali da Chișinău verso Odessa e verso Mosca, ma nelle due ore di attesa non ho visto passare neanche un convoglio, internazionale o locale che sia.
Sono i bus a muoversi in diverse direzioni dal piazzale antistante la stazione.
Arrivo al confine con l’Ucraina che è ormai buio. All’uscita dal territorio transnistro l’autista raccoglie i nostri passaporti e li porta alla guardia per i controlli. Poi ritorna e invita una delle passeggere a seguirlo. Pare che la sua permanenza abbia superato le ventiquattro ore previste dalla carta di immigrazione, che in realtà non specifica nulla a riguardo. Io osservo la scena dall’interno del minibus con un certo interesse: so infatti di essere nella stessa, identica situazione. Ma uno dei miei compagni di viaggio, un ragazzo del posto che si presenta come Stas, lascia per un secondo la compagna alla quale è rimasto aggrappato per tutto il viaggio, la boccia di vino, per venire a rassicurarmi: “Non ti preoccupare, fanno così ogni volta. Pescano un passaporto a caso e fanno finta che ci siano problemi. Vedrai, fra qualche minuto si riparte”.
In vino veritas. L’allarme è rientrato. La malcapitata, al suo ritorno, ipotizza che il controllo fosse una scusa per estorcere l’ultima mazzetta della giornata. Ma evidentemente la guardia deve aver cambiato idea.
Insomma, anche stavolta abbiamo perso l’occasione per vivere un po’ di avventura.
Il viaggio riprende. Mi avvicino a Odessa e alla seguente conclusione: la Transnistria esiste ed è un posto terribilmente noioso.
C’erano un napoletano, un russo e un turco sulle sponde del Mar Nero, ma questa non è una barzelletta. Al contrario, è una storia serissima.
Il russo, l’Impero di Caterina II, e il turco, il suo rivale, l’Impero Ottomano, si erano dati battaglia per circa un anno fra terribili carneficine. Poi i due contendenti avevano firmato la pace. La Russia aveva avuto la meglio, ma la minaccia di nuovi scontri non era ancora svanita del tutto. Le truppe russe avevano adocchiato circa quaranta vascelli ottomani e due navi da guerra al largo del villaggio di Khadjibey, sulla costa nordoccidentale, e decidono di avvicinarsi. In mezz’ora la presa fu cosa fatta: il gruppetto sparuto di soldati ottomani si arrese immediatamente e Khadjibej fu rivendicato a nome di Caterina dalle forze russe. A guidarle, era il napoletano José Pascual Domingo de Ribas y Boyons, noto ai russi come Osip Michajlovič Deribas.
Era il 1789 e di lì a pochi anni, su quel villaggio preso quasi per caso come nel gran finale di un’epopea semiseria, nel 1794 sarebbe nata la città di Odessa.
L’intuizione era stata dello stesso Deribas: così vicino alla foce di quattro fiumi navigabili, il Danubio, il Dnepr, il Dnestr e il Bug, il sito dove sorgeva Khadjibej poteva rivelarsi strategico per l’impero Russo e così iniziò nella sua fantasia a immaginare al posto del villaggio una città portuale, nuova, moderna, illuministica, la perla meridionale dell’Impero. Il suo entusiasmo visionario fu così potente da convincere anche l’imperatrice Caterina, che al consolidamento della sua posizione a sud guardava con un certo appetito.
Ma già nei suoi primi decenni di vita la città, a dispetto dei sogni di ordine e razionalità del suo creatore, mise in mostra quei tratti che ne avrebbero segnato il carattere per i secoli a venire: il movimento caotico, l’eterno oscillare fra insanabili estremi, le drammatiche, profonde contraddizioni.
Porto brulicante, snodo commerciale per mercanti di tutte le lingue e religioni, Odessa viveva incurante di molte regole e legacci che irrigidivano la società russa e spesso la dividevano. Odessa era una creatura lunatica: libertina e tollerante nei periodi di prosperità, ma violenta e intransigente nei periodi più bui; piena di genio intellettuale e, contemporaneamente, di bassezze e malaffare; era la florida città che inviava grano a tutta l’Europa, ma al tempo stesso una fragile economia continuamente minacciata da fattori esterni, dalle carestie, alle cavallette, alla peste; soprattutto, in tutte le sue manifestazioni, era estrema e radicale.
Dominata dalla mentalità pragmatica e spregiudicata degli affari, Odessa era pervasa di un senso di libertà che si rifletteva anche in altre sfere della vita dei suoi abitanti.
Qualche traccia dello spirito di un tempo si può cogliere ancora nell’aria, o forse, più verosimilmente, nelle vetrine dei sexy shop e degli strip club che ammiccano sfacciati dal piano terra di quelli che un tempo erano palazzi nobiliari e che oggi danno lustro alle vie del centro. Sarà forse per questo sentore di scarso rigore che aleggia in città, ma all’improvviso il mio interesse verso palazzi, monumenti, chiese, musei si annulla, sopraffatto dal magnetismo invincibile del luogo in cui la mia natura debole e meschina si trova sempre a proprio agio: il tavolino di un bar, in religiosa osservazione della commedia umana.
Così inizio il mio viaggio in terra ucraina, in una città che non somiglia neanche lontanamente alle vicine Chişinău e Tiraspol; più avanti scoprirò che non somiglia neanche a Kyiv, la capitale ucraina, né ad alcuna delle città che ho attraversato e attraverserò lungo il cammino. Più la osservo, più Odessa mi riporta altrove. A guardarla dal centro, fra le geometrie neoclassiche dei palazzi dell’epoca imperiale, sembra una San Pietroburgo protesa sul mare, ma in certi angoli, quelli più stinti e scrostati, dove ancora si respira l’odore di fatica e vecchia miseria, ricorda Napoli oppure Marsiglia; la sua cucina tipica, dove si incontrano felicemente mare e terra, mi ha fatto pensare a Trieste. Come molte città portuali, Odessa è un luogo di frontiera, un ibrido dall’identità multiforme e fluttuante, un’ode solenne alla vacuità del confine e delle bandiere. Questo a dispetto delle onnipresenti insegne gialle e azzurre, i colori nazionali ucraini, che raccontano solo una parte della storia della città.
“Non c’è nulla di nazionale per quanto riguarda Odessa”: questo, secondo lo storico Charles King è quello che avrebbe esclamato con intento dispregiativo un visitatore di passaggio in città sul finire dell’Ottocento, che evidentemente non aveva apprezzato il caleidoscopico caos di popoli che ne animava le strade: italiani, greci, russi, ucraini, armeni, tatari e soprattutto ebrei, la cui presenza in quest’area era precedente alla fondazione della città. Si racconta, infatti, che sei famiglie di religione ebraica vivessero già a Khadjibey prima dell’arrivo dei russi.
Nei primi decenni dell’Ottocento, erano già diventati quattromila; alla fine del secolo
più del quadruplo, tutti probabilmente arrivati con lo stesso obiettivo: “Lebn vi Got in Odes!”, come recita un detto yiddish che tradotto suona come “Vivere come un Dio a Odessa!”.
All’epoca gli ebrei dell’impero russo erano obbligati a vivere nella zona di residenza, una fascia di terra collocata sul confine occidentale dei territori russi, da Varsavia a Vilnius all’Ucraina occidentale, dove risiedevano senza il diritto di poter emigrare ed era concesso loro di praticare solo un numero limitato di professioni. Anche Odessa era parte della Zona di Residenza, ma contemporaneamente era un porto franco dove le restrizioni e i controlli venivano applicati più mollemente che altrove: per molti ebrei, quindi, apparve subito come l’opportunità di una vita meno miseranda. Così fu: potendo contare sulla fitta rete delle comunità ebraiche della zona occidentale dell’impero, gli ebrei di Odessa riuscirono a sfruttare la posizione di intermediari fra le merci in arrivo dal mare e la terraferma, contribuendo a trasformare la città nel grande snodo commerciale che sarebbe diventata.
Nelle attività economiche a loro permesse, ebbero un grande successo: alcuni prosperarono, diventarono proprietari di grandi imprese, facendo la propria fortuna e anche quella di Odessa.
Ma soprattutto, qui a Odessa, la comunità ebraica riuscì in qualcosa che a quei tempi era impensabile altrove, in una società rigidamente divisa in classi come quella russa: elevarsi socialmente e uscire dal proprio status di esclusi.
Lontani dai centri tradizionali del giudaismo, liberi dall’influenza degli eminenti studiosi della legge ebraica e dai predicatori mistici che si concentravano a nord, verso la frontiera lituano-polacca, gli ebrei odessiti diventarono una comunità vitale, moderna, progressista e ben integrata nel tessuto cittadino.
Prima della Seconda Guerra Mondiale, Odessa non aveva mai conosciuto ghetti. Una parte consistente della popolazione ebraica si concentrava nella Moldavanka, che però non si è mai connotato come un vero e proprio quartiere ebraico. La Moldavanka era piuttosto la dimora delle leggendarie figure della criminalità odessita e, più prosaicamente, dei più poveri e spiantati della città: prima gli operai e i mandriani moldavi, poi lavoratori greci, albanesi, bulgari, profughi delle guerre balcaniche, gli ebrei.
La parte meno sfortunata della comunità ebraica, invece, viveva fianco a fianco con gli altri odessiti, passeggiavano sugli stessi viali, frequentavano gli stessi teatri, si sedevano agli stessi caffé. Vivevano attivamente la città e la caratterizzavano con la loro presenza. A Odessa gli ebrei erano in patria. A casa.
Eppure in questo vivace calderone disinvolto e scollacciato, dove la parola nazione non aveva nessun significato, quando la florida economia della città è caduta in disgrazia, il nazionalismo ha iniziato a strisciare, a dividere, fino a diventare la misura di tutte le cose ed ergersi come l’idolo nel nome del quale commettere il più sanguinario dei sacrifici. Proprio la città più aperta e variopinta dell’Impero Russo stava per trasformarsi nella fucina delle più intransigenti derive identitarie, le cui conseguenze si sarebbero spinte molto più in là nel tempo e nello spazio, fino ai giorni nostri.
Nei giorni bui in cui gli affari di Odessa si contraevano drammaticamente, in controtendenza rispetto alle folle di miserabili che invece si espandevano, fra le nebbie del denso e opprimente pessimismo, l’unico luccicore che gli odessiti meno abbienti riuscivano a vedere erano le ricchezze dei danarosi imprenditori ebrei.
In quegli anni di crisi la pianta maligna dell’antisemitismo, già così diffusa nell’Impero russo, gettò i suoi semi anche qui e, debitamente irrigata dal veleno del complotto e delle vecchie superstizioni antigiudaiche, proliferò molto velocemente. I più toccati, ovviamente, non furono gli ebrei ricchi e influenti, ma i numerosi piccoli commercianti della città, i cui negozi venivano presi di mira e devastati.
La violenza montò come un’onda sempre più alta negli anni, fino a esplodere in un terribile pogrom la domenica di Pasqua del 1871, quando si scontrarono greci ed ebrei, ai quali si aggiunsero operai russi che iniziarono a lanciare pietre alle finestre delle sinagoghe. Nelle strade si riversò una folla di gente che si lanciò all’attacco degli esercizi di proprietà di ebrei, dalle taverne ai luoghi di culto. La furia durò sei giorni, che lasciarono dietro di sé una scia sanguinolenta: sei morti, venti feriti e centinaia di negozi e abitazioni distrutte. Nel giro di dieci anni all’accanimento dei cittadini si aggiunse quello dell’Impero, in quegli anni impegnato a imporre l’ordine con la forza in un paese che somigliava sempre più a una polveriera. Per Odessa le autorità avevano un occhio di riguardo, vista la sua fama di città indisciplinata e sovversiva. Riguardo ai pogrom antiebraici, però, le autorità si limitavano a intervenire solo nel caso in cui a finire vittime delle violenze non erano solo gli ebrei.
Nel 1881 vennero emanate le Leggi di maggio, che imposero restrizioni sul commercio, sulla residenza e sulla partecipazione alla vita politica della popolazione ebraica; dall’altra parte, gli ebrei, quelli che non emigrarono, iniziarono a costituire organizzazioni di autodifesa, altri invece aderirono a movimenti rivoluzionari o a ideologie della liberazione.
In questa Odessa, già incupita e frantumata, molti si convinsero che l’identità nazionale fosse il caposaldo a cui aggrapparsi.
Fra questi un giovane letterato e giornalista. Il suo nome era Vladimir Jabotinskij: la sua opera e il suo pensiero furono l’urlo agghiacciante di un’epoca terribile, la cui eco dura ancora e risuona in tutto il medesimo orrore.
Vladimir era figlio di genitori ebrei secolarizzati e aveva studiato, da liceale, in una classe che riuniva ben undici nazionalità.
L’educazione di Vladimir si svolse lontano dalle pratiche tradizionali e dai testi sacri dell’ebraismo, negli anni in cui la fioritura policroma di Odessa era al canto del cigno, ma la fine, pur prossima, era ancora soltanto un sottile presagio.
Traduttore precoce e plurilingue, ma studente indisciplinato, nel 1898 Vladimir lascia il liceo per tentare fortuna in Europa, più precisamente in Svizzera, dove fu inviato come come corrispondente dell’ “Odesskij listok” (il Foglio odessita). Lungo il viaggio per la prima volta il giovane Vladimir si avvicinò a un ebraismo diverso di quello conosciuto a Odessa: quello tradizionale, dei cappelli neri e delle barbe lunghe, dei villaggi e, soprattutto, della povertà.
A Berna si iscrisse alla facoltà di Giurisprudenza, ma neanche in questo frangente lo studente Vladimir riuscì a dimostrarsi diligente. Dei suoi studi, scriveva lo stesso Jabotinskij, ricordava principalmente le lezioni del professor Reichmann che lo avrebbe introdotto allo studio di Marx. Più determinante dei suoi studi fu la sua partecipazione a una conferenza sul sionismo tenuta dalla colonia russa locale.
In autunno si spostò a Roma ed è qui che fece un incontro fatale, quello con il Risorgimento italiano e con la sua idea di popolo che riscopre la propria unità e cerca di riappropriarsi dell’identità nazionale.
Nel 1901 tornò a Odessa e, dalle pagine di un giornale odessita piuttosto noto, il liberale Odesskie Novosti (Le notizie di Odessa) si mise subito in mostra come uno degli esponenti di punta della vita politica e culturale della città e fra i personaggi più in vista dei salotti letterari, nei quali esponeva le sue tesi sulla condizione del popolo ebraico, che nella sua visione avrebbe messo fine alle sue peregrinazioni solo quando avrebbe avuto una terra
Nel 1903, proprio in uno di questi salotti, Jabotinskij apprese che un terribile attacco aveva avuto luogo a nord, nella città di Kišinëv. Quell’evento, che si consumò nella domenica di Pasqua, sarebbe stato ricordato a lungo, non solo per la bieca, raccapricciante crudeltà delle violenze, ma anche perché i fatti di Kišinëv impressero una svolta decisiva al movimento sionista. Sulla scia insanguinata dell’ultimo attacco gli ebrei Jabotinskij si convinse sempre di più che nessuna opposizione allo zar, nessuna rivoluzione, nessun socialismo avrebbero salvato il popolo ebraico: nessuna sopravvivenza sarebbe mai stata possibile al di fuori di una propria patria in Palestina.
Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale Jabotinskij si unì all’esercito inglese contro l’Impero Ottomano, poi combattè come volontario nei Dardanelli e in Palestina, dove rimase nel periodo del mandato britannico e diventò attivista di un’organizzazione paramilitare clandestina, l’Haganah. Quando quest’ultima fu accusata di aver provocato un attacco arabo al quartier generale ebraico, Jabotinskij fu arrestato. Intanto, aveva cambiato il suo nome, che non era più il russo Vladimir, ma l’ebraico Ze’ev.
La reclusione lo spinse ancora più in là nel suo oltranzismo: uscito dal carcere, Jabotinskij entrò in collisione con il movimento sionista, dal quale si staccò, fondando un suo movimento più rigido, attestato su posizioni di destra, militariste e intransigenti, che professavano la necessità indiscussa di una patria per il popolo ebraico e l’inconciliabilità del progetto con le aspirazioni arabe. A questo proposito, si fece fautore dell’idea di una cortina di ferro, un muro invalicabile e militarizzato.
Jabotinskij morì improvvisamente nel 1940 negli Stati Uniti lasciando dietro di sé le sue idee che negli anni a venire sarebbero risuonate come sinistre profezie.
Presto l’immane, abominevole catastrofe dell’Olocausto si sarebbe abbattuta sugli ebrei con una furia cieca che avrebbe cancellato le tracce della loro presenza secolare dall’Europa Orientale. Nemmeno Odessa si salvò: occupata dalle truppe rumene, alleate dei nazisti, Odessa diventò la fossa – letteralmente – di decine di migliaia di ebrei. Dei circa ottantamila – qualcuno dice addirittura centomila – che vivevano in città quando questa fu assediata, solo cinquemila erano ancora in vita alla fine della guerra.
Dopo la guerra e la tragedia dell’Olocausto, per la comunità ebraica di Odessa si aprì un’altra pagina nera, quella dell’antisemitismo delle autorità sovietiche, che misero in atto, a Odessa come altrove sul territorio dell’URSS, una campagna vessatoria e repressiva nei confronti degli ebrei. Spinti dall’ostilità, furono molti gli ebrei che dagli anni Settanta in poi emigrarono in massa verso gli Stati Uniti e verso Israele.
Ora che il peggio a Odessa sembra essere passato l’ebraismo conosce una nuova fioritura. Le due sinagoghe sono tornate in attività, mentre la terza è in fase di restauro. Anche se gli eventi del secolo scorso hanno definitivamente consegnato al passato la città multietnica dell’Ottocento, questo è ancora il posto in cui all’ingresso di un bar si può essere approcciati con la seguente domanda: “Parla russo, ebraico o inglese?”. E quello che sembra un interrogativo singolare, viene subito giustificato dal passaggio di gruppetti piccoli, ma numerosi, di ebrei ortodossi con i loro cedri in mano. Chissà se sono anche questi calabresi.
Lontano da Odessa, però, gli incubi degli anni più bui sopravvivono ancora, anche se in altre forme. Il nazionalismo più chiuso e intransigente di Jabotinskij, nato fra le strade di Odessa, generato dal trauma della violenza antisemita e da un tempo infetto di odio, rivalsa e altri disturbi correlati, è migrato altrove, duemila chilometri più a sud, in Israele, dove è diventato fonte di ispirazione di politici altrettanto oltranzisti. Ma questa è un’altra storia. O forse no, perché in fondo la Storia è una sola.
A guardarlo da qui, dalle strade di Odessa, il globo terrestre somiglia sempre meno a una serie di punti lontani e divisi da un numero più o meno significativo di chilometri; a guardarlo da qui, sembra più una rete salda e inestricabile di uomini, eventi e luoghi, uniti a doppio filo attraverso le epoche storiche e le geografie.
Se qualcuno la notte riesce ancora a dormire sereno, sentendosi immune ai mali degli altri, segregati a migliaia di chilometri o nascosti dallo scudo inviolabile dei rassicuranti confini, ebbene, quel qualcuno dovrebbe compiere un atto di coraggio e venire a Odessa.
Del resto, non sarebbe un gran sacrificio: Odessa è una bella città sul mare, traboccante di caffé, di vita e di gente aperta e vivace. Sarebbe quasi una vacanza. A patto di portare con sé un debito quantitativo di valeriana.
Il treno notturno Odessa – Charkiv viaggia per circa settecento chilometri attraversando da nord a sud il territorio ucraino e, contemporaneamente, molti mondi diversi.
L’Ucraina racchiude al proprio interno regioni differenti, ognuna con la proprie caratteristiche e la propria storia: la zona centrale, che gravita intorno a Kiev; la Volinia e la Polesia, nel nord-ovest appartenuto alla Polonia-Lituania fino alla fine del XVIII secolo; l’Etmanato dei Cosacchi, un’antica comunità militare che abitavano lungo il corso inferiore del Don e del Dnepr; la zona orientale, con Charkiv come centro principale; la zona della steppa sud-occidentale, lungo le coste del Mar Nero, dove si trovano le città portuali, fra cui Odessa; la regione occidentale, culturalmente influenzata dalla Polonia e dall’Impero Asburgico; la regione a ridosso dei Carpazi, al confine con Repubblica Ceca e Ungheria. Infine, due zone dallo status incerto, la Crimea, e il Donbass, dove è ancora in corso un conflitto di cui non si intravedono gli esiti.
Questo mosaico interno è dovuto soprattutto alla conformazione del territorio piatto, aperto, privo di barriere naturali e, per questa ragione, esposto a continui flussi e riflussi di popolazioni e a incursioni di elementi esterni, che difficilmente venivano in pace. Il Granducato di Lituania, l’Impero Ottomano, la Confederazione Polacco-Lituana, il Khanato Tataro, la Moscovia, poi l’Impero Russo e infine l’Impero asburgico, tutti si sono avvicendati su questa terra, spesso devastando, depredando, ma, allo stesso tempo, lasciando ognuno qualcosa di sé e contribuendo a creare una realtà multietnica, composita, dall’identità culturale difficilmente definibile.
La natura, quindi, ha reso l’Ucraina fertile, le ha donato distese di girasoli, ne ha fatto una terra culturalmente ricca e variopinta, ma al tempo stesso l’ha esposta impietosamente al capriccio della Storia, che l’ha scossa con rivolte, guerre civili, persecuzioni, carestie, e ne ha scritto il destino intrecciandolo come la trama di un romanzo epico.
L’Ucraina è, di fatto, un romanzo epico.
L’arrivo a Charkiv, l’ingresso trionfale del treno nella monumentale stazione ferroviaria, nelle prime ore di un mattino gelido, ma pieno di luce, si inquadrano perfettamente nella cornice. L’unico elemento di disturbo, che sporca questo quadro quasi ottocentesco con i toni triviali della commedia, è l’odore truculento che arriva dalla toilette della cuccetta e mi sveglia senza troppe cerimonie dalle nebbie della notte, richiamandomi alla realtà.
A guardarla dall’alto di Piazza della Costituzione, inondata dal sole, pervasa dall’aura dorata che si riflette sulle cupole d’oro delle cattedrali, Charkiv è bella, ordinata, incredibilmente silenziosa per essere un grande distretto urbano e una città universitaria nel momento in cui ricomincia la settimana. La prima immagine di Charkiv è uno scenario di pace e armonia, che si stende verso il piano attraverso il verde di un parco fino ad arrivare alle volte neobizantine della Cattedrale dell’Annunciazione, dove socializzo e solidarizzo con l’anziana donna che presiede, con un certo zelo, alle toilette, che sono tirate a lucido. Ci unisce la difficoltà nel destreggiarci con la hryvna, lei, perché dopo aver passato una vita a contare rubli, non è riuscita in quasi trent’anni a imparare a contare le hryvne; io, perché non so contare, semplicemente senza altre apposizioni.
Risalendo verso Piazza della Costituzione, attraverso il parco, noto il primo dettaglio perturbante: il marmo scuro della terrazza di un restaurant&lounge in stile asian-fusion-minimalist o qualcosa di simile. Insomma, uno squarcio indesiderato della Milano che non mi piace nel bel mezzo di una città ucraina. Faccio finta di non vederlo, ma dovrò rassegnarmi più avanti e accettare le velleità modaiol-pretenziose della città che fanno largo sfoggio di sé sulla via principale della città, la Sumska. Mentre sottoterra le stazioni della metropolitana sono tappezzate di annunci che invitano manodopera in Polonia e Repubblica Ceca, ma questo dalla Sumska non si vede.
Elegante, curata, colorata, questa è la passerella della città, dove sfilano il benessere, l’ottimismo, la vitalità ritrovata dopo decenni di grigiore sovietico. Forse, meno esibizionista, ma più legittimo di tutti, su questa strada sfila il sacrosanto desiderio di normalità, anche frivola, dopo le catastrofi che nel secolo scorso hanno devastato l’Ucraina e la stessa Charkiv, dove solo ottant’anni fa, agli inizi degli anni Trenta del secolo scorso, l’atmosfera non era di certo la stessa di oggi. In quegli anni dal consolato italiano di Charkiv, che all’epoca si chiamava Charkov con il nome russo, arrivò questo resoconto:
“Al Bazar il 21 mattina i morti erano raggruppati come mucchi di stracci, nella mota e nello sterco umano, lungo la palizzata che limita il piazzale verso il fiume. Ce n’erano una trentina. Il 23 mattina ne ho contati 51. Un bambino succhiava il latte dalla mammella della madre morta, dal viso color grigio. La gente diceva: questo sono i boccioli della primavera socialista.
Nella Puškinskaja scendevo un pomeriggio verso il centro. Pioveva. Tre besprizornye (bambini orfani e per lo più vagabondi, ndr) passarono davanti a me, finsero di accapigliarsi. Uno ricevette uno spintone ed andò a finire contro una donna che portava una pentola di boršč, raccolta dentro un fazzoletto. La pentola andò per terra e si spezzò. Il colpevole fuggì e gli altri due raccattarono con le mani, tra la mota la zuppa e la ingoiarono. Un poco ne misero in un berretto, per il terzo.”
Così scriveva nella primavera del ‘33 in un dispaccio diplomatico il console italiano a Kharkov, ai tempi capitale dell’Ucraina Sovietica, Sergio Gradenigo, che fu testimone di un orribile disastro passato alla storia come Holodomor, termine ucraino che, tradotto in maniera piuttosto grossolana, vuol dire “morte per fame”, la carestia che causò milioni di morti, di cui la schiacciante maggioranza, ucraini. Quattro ucraini. Anche se la parola “carestia” può indurre a pensare a imprevedibili avversità naturali, l’Holodomor fu una catastrofe dal marchio tutto umano, al punto che molti studiosi vorrebbero fosse riconosciuto come vero e proprio genocidio, iniziato con la collettivizzazione forzata imposta da Stalin e poi perpetrato sistematicamente e intenzionalmente con l’obiettivo di piegare i contadini, riottosi e poco sensibili alla causa del socialismo.
La stessa politica venne attuata nei confronti della Siberia, del Caucaso del Nord e della zona del Volga, causando anche l’annientamento di oltre la metà della popolazione nomade del Kazachstan.
Il più alto numero di vittime si registrò proprio in Ucraina, dove alla fine degli anni Venti i contadini opposero una resistenza particolarmente tenace all’ordine di costituirsi in fattorie collettive. Gran parte si rifiutò di cedere il grano, destinato al sostentamento delle città, e si oppose alle richieste da parte delle autorità sovietiche, nascondendo le derrate alimentari e uccidendo il bestiame. I vertici di Mosca considerarono l’atteggiamento dei contadini un atto di ribellione che non poteva restare impunito. Del resto, vista la vitale importanza delle risorse naturali ucraine, era indispensabile per la sopravvivenza dell’URSS ridurre all’obbedienza i contadini. Furono inviati agenti, che, aiutati da funzionari di partito ucraini e da collaboratori locali, effettuarono requisizioni su larga scala e contemporaneamente fu stretto un cordone intorno al territorio ucraino per impedire la fuga.
All’interno del cordone, come era prevedibile, si scatenò l’inferno. Chiuse in un recinto come bestie, private di qualunque mezzo di sostentamento, le persone iniziarono a cadere come mosche, sepolti vivi nella terra che loro stessi avevano coltivato. Un rapporto della polizia segreta di Kyiv registrò anche casi di cannibalismo fra genitori che arrivarono a mangiare i propri figli.
Dal punto di vista sovietico, l’operazione fu un successo: la popolazione fu annichilita senza neppure il disturbo di sciupare l’artiglieria o mettere in piedi campi di sterminio. Dal punto di vista delle vittime fu un’immane catastrofe, che è diventata, nella narrativa ufficiale, il simbolo del riscatto del popolo ucraino e che persiste tuttora come una piaga aperta e ancora sanguinante fra russi e ucraini, già divisi ed esacerbati dal conflitto in corso nei territori orientali dell’Ucraina. A 200 chilometri da qui.
A proposito di conflitto, mentre proseguo sulla Sumska si materializza alla mia sinistra un tendone sormontato da bandiere ucraine, circondato da pannelli informativi e da sacchi che riproducono una barricata. Mi avvicino per dare un’occhiata e la prima immagine che mi salta agli occhi è il volto di Putin con i baffetti da Hitler. Ho un’epifania improvvisa: capisco che ho messo il naso in un presidio di attivisti. Il movimento a cui appartengono al momento mi è ignoto perché il materiale informativo è tutto stampato in ucraino, ma il Putin baffuto è abbastanza eloquente. Vorrei battere la ritirata, ma è tardi: l’anziano signore che sta a guardia della tenda si sta già avvicinando. Mi scuso, in russo, per il disturbo. Lui risponde, in russo, “Guarda pure, siamo in democrazia”. Poi, notando il mio interesse per l’immagine di Putin mi dice: “Putin è peggio di Hitler, perché Hitler almeno non nascondeva i suoi interessi”. Poi prosegue, incontenibile: “I russi sono dei selvaggi”. A quel punto, il mio proposito di attendere passiva la fine dello sfogo sfuma. Gli chiedo se si riferisce al governo oppure alle persone. “Alle persone, ovviamente”. “Tutti? In massa?” “Si, tutti. Non si salva nessuno” “Sta cercando di dirmi che nella vita non ha mai incontrato un russo perbene?” “No. Mai. Tu non puoi capire perché non sei ucraina e quindi con te i russi si comportano bene. Sai cosa facevano i russi? Lo sai? Quando ancora c’era l’Unione Sovietica, ogni volta che il Dinamo Kiev vinceva, loro ci insultavano. Erano invidiosi”. Mi sembra un fatto gravissimo, penso, soprattutto se gli insulti volano in un contesto sociale ben noto per la compostezza e l’urbanità dei costumi. Cerco di minimizzare: “Suvvia, queste cose succedono dappertutto. Da noi in Italia I tifosi non solo si insultano, si pestano e anche selvaggiamente”. Non l’avessi mai detto. “Sei italiana? Avete messo dei mostri al governo! Avete votato un amico di Putin”. Avete. Questo plurale mi ferisce le orecchie come un attacco di otite, ma neanche provo a ribattere. Del resto se Jura, questo è il suo nome, vede i russi come un’entità unica e monolitica, che non contempla distinguo e le singole individualità, non vedo perché per gli italiani dovrebbe essere diverso. Finalmente arriva a liberarmi una voce familiare che suona come quella della provvidenza: “La smetti di litigare con le persone anziane?”. La smetto e anche in fretta. Mi congedo e mi allontano pensando che è un vero peccato che a Jura non piacciano certi nostri politici. Sono sicura che, se si conoscessero, andrebbero d’amore e d’accordo.
A giudicare dalle parole di Jura, quindi, il sentimento antirusso esiste ed è forte. Tuttavia, il dettaglio curioso, stridulo come il rumore dei tacchi a spillo della Sumska che passeggiano sugli annunci di lavoro per i prossimi migranti, è che Charkiv, a dispetto delle atroci memorie di cui è depositaria, sembra essere la città ucraina meno ostile alla Russia. Forse negli anni precedenti al conflitto la vicinanza con la Russia, che si trova a soli 40 chilometri da qui, ha offerto una buona occasione per gli scambi commerciali e per i piccoli business di frontiera. Quando, nel 2014, la frontiera fra i due paesi è stata blindata per ragioni di sicurezza l’economia cittadina ha conosciuto una flessione che persiste tuttora e causa un certo malumore nei confronti del governo.
Spinta dal pragmatismo della quotidianità e dalla necessità di doversi arrangiare in un paese tutt’altro che facile, alla fine, la gente comune sembra molto più conciliante di politici, attivisti e studiosi di fronte all’immane peso di tragedie come il Holodomor.
Fatto che suonerebbe come una buona notizia, se non fosse per un piccolo particolare, ovvero l’impressione che, se i politici le usano come strumento per i loro fini e la gente comune le dimentica nel nome del “dover campare”, a occuparsi davvero delle tragedie umane restino sempre in pochi.
Piove di nuovo e sul serio. Sono irrequieta come un’oca prima del terremoto: mi trovo nella capitale, Kyiv, e ho una lista lunghissima di posti da visitare, ma le condizioni metereologiche sono avverse e quindi mi tocca trascorrere parte della giornata in un museo, dove per passare il tempo mi intrufolo tra le comitive di turisti – americani, olandesi, russi, cileni – per ascoltare i racconti delle guide e verificare che le versioni non siano diverse a seconda della provenienza degli ospiti. Ebbene no, non lo sono.
Gli operatori sono impeccabili, rigorosi, ripetitivi, al punto tale che preferisco la pioggia.
Lascio il mio rifugio e mi avventuro lungo la strada. Il tragitto è semplice e dritto, dovrei riuscire ad arrivare velocemente. Dovrei, ma a un certo punto, chissà dove, mi perdo. Per ritrovare la strada a naso, o forse dovrei dire a caso, prendo una stradina stretta e in salita. E mentre arranco si compie il prodigio: non piove più. Alzo finalmente la testa e mi trovo davanti al secondo prodigio: mentre vagavo distratta e a capo chino qualcuno ha dipinto sui tetti di Kyiv un ottocentesco tramonto rosato che si fa spazio fra pesanti drappi di nuvole viola, irradiando di un’aura oltremondana le millenarie vette d’oro della cattedrale di Santa Sofia.
Mi trovo di fronte a uno dei luoghi più antichi, noti e rappresentativi di questa città, che è madre e simbolo della tradizione slava ortodossa. E’ qui infatti, che nel 988, quando Mosca ancora non c’era e San Pietroburgo era solo una palude ghiacciata, il principe Vladimir, allora a capo della Rus’ di Kiev, si convertì al cristianesimo.
Si vocifera che il principe Vladimir abbia abbracciato il cristianesimo non per un qualche afflato mistico, ma per le sue regole piuttosto molli in materia di consumo di alcolici. Questi però sono solo pettegolezzi. Sta di fatto che Kyiv divenne il punto di irradiazione della cristianità slava orientale e ha conservato il suo alone di religiosità anche attraverso le innumerevoli sciagure che l’hanno minacciata, dall’invasione mongola che la distrusse nel Medioevo, alle ruspe bolsceviche che hanno raso al suolo centinaia di edifici, religiosi e non solo, per riplasmare la città a propria immagine e somiglianza.
Per fortuna non sono riusciti a completare l’opera, mi dico guardandomi intorno. Kyiv mi sembra bellissima: elegante, intellettuale, principesca, è una Parigi con una spruzzata di Oriente. Anzi, mi correggo: Parigi è Kyiv senza l’Oriente.
Le strade corrono vivaci ma ordinate, fra gli alti palazzi che alternano tinte e stili diversi: dal barocco, al neoclassico, al liberty, all’immancabile stile soviet. Poi, all’improvviso, fra le tracce del passato si fa spazio la contemporaneità. A pochi passi da Piazza dell’Indipendenza, la piazza principale di Kiev, svoltando verso Via Hrusevski, si incrociano tre murali che rappresentano tre volti: sono Taras Shevchenko, Lesja Ukrainka e Ivan Franko, ovvero tre fra le più importanti figure della letteratura ucraina. Sono raffigurati in bianco e nero in veste da guerriglia, con il volto coperto da un fazzoletto rosso, una maschera antigas e un elmetto antifortunistico arancione. Ai lati dei volti, due coppie di bottiglie molotov che formano due croci in diagonale. L’aggiunta della scritta “Fake”, lasciata da un ignoto con una bomboletta di vernice spray rossa, deve essere recente, ma i murali risalgono al 2014, ai giorni in cui Piazza dell’Indipendenza era assediata dalle proteste antigovernative, qui note come Rivoluzione della Dignità.
Era il novembre del 2013 e il presidente Janukovyč aveva annunciato l’intenzione di sospendere il processo di preparazione per la firma accordo di libero scambio con i paesi dell’Unione Europea, lasciando immaginare un riavvicinamento a Mosca, facilmente prevedibile visti i buoni rapporti che legavano il presidente ucraino a Putin. Per molti ucraini quegli eventi significarono il ripetersi di una storia che più volte avevano sperato di chiudere per sempre nei libri, ovvero quella della longa manus russa che si allunga sull’Ucraina, come già accaduto nel corso del secolare rapporto, complesso e conflittuale, fra i due vicini.
Più di 100 mila persone si riversarono in strada, occupando con tende e striscioni la piazza centrale della città, mentre gli agenti in tenuta antisommossa rispondevano con manganelli e gas lacrimogeni per disperdere la folla. Le proteste furono molto violente e terminarono solo con la fuga di Janukovyčh, lasciando un sinistro resoconto: più di cento morti fra i manifestanti e oltre dieci fra le forze dell’ordine. Qui, all’inizio di questa strada, dove ora si trovano i graffiti, sorgeva una barricata. A pochi passi, un pannello informativo all’ingresso del Museo Nazionale d’Arte spiega che i graffiti, opera di un artista noto come Sociopath, sono considerati “parte di un monumento storico nel luogo delle operazioni militari e della morte in massa di cittadini”.
Le tracce dei mesi di protesta sono molto visibili in città. Di fronte al mercato di Bessarabia si può vedere un piedistallo privato della sua statua. Era un monumento a Lenin, abbattuto nel dicembre del 2013 e rimasto così a memoria dei fatti. Adesso, al posto del compagno detronizzato, è stata installata un’icona in metallo che riproduce il simbolo dell’UPA, l’Esercito Insurrezionale Ucraino che lottò con mezzi a dir poco disumani per l’integrità nazionale ucraina.
In più punti della città si incontrano lapidi o iscrizioni che ricordano i caduti di quei giorni violenti. E non potrebbe essere diversamente visto che le conseguenze di quegli eventi riecheggiano, o meglio rimbombano, ancora oggi nel frastuono del fuoco che si incrocia sui territori a est, nel Donbass, dove le proteste antigovernative, dopo la fuga del presidente Janukovič, sono degenerate in uno scontro su base etnica che ancora oppone l’esercito ucraino ai miliziani delle Repubbliche autoproclamate di Doneck e di Luhansk, vicine alla Russia e ostili al governo insediato all’indomani della crisi. E’ un conflitto lontano dal clamore dei media, ma non per questo è meno drammatico. Al contrario, è profondamente drammatico perché in silenzio in questi quattro anni sono cadute diecimila persone, tra cui molti civili; è drammatico perché il Donbass è diventato il simbolo di una presunta, insanabile rivalità fra russi e ucraini, la prova provata di una coesistenza impossibile, lo schema oppositivo che ha fagocitato l’intero dibattito, mettendo in ombra un fatto piuttosto importante: molte delle persone che scesero in piazza nel 2014 protestavano non contro una “nazione”, ma contro un governo corrotto e chiedevano a gran voce l’Europa come spazio di legalità, trasparenza, diritti, garanzie che la Russia di Putin, a loro avviso – e come contraddirli – non sarebbe stata in grado di offrire.
Ma come al solito è più semplice e comodo ricorrere alle bandiere, al furore patriottardo e agli insulti come allo stadio, perché coprano, come spesso accade, un problema politico, millantando una controversia etnico-culturale fra due popoli, due culture, due tradizioni che si sono più volte scontrate, ma più frequentemente si sono incrociate, sovrapposte, mescolate.
I russi e gli ucraini non possono stare insieme? Bisognerebbe chiederlo a Nikolaj Vasil’evič Gogol’, autore di opere lette in tutto il mondo, come “Le anime morte” e “Il cappotto”, ucraino e padre della letteratura russa.
Oppure, in cerca di una risposta, si può provare a bussare qui, al numero 13 dell’Andriivs’kyi Uzviv, una stradina in salita che sembra fuori dal tempo, sospesa in un’atmosfera di circa un secolo fa. Qui viveva Michajl Bulgakov, autore del famoso romanzo “il Maestro e Margherita”.
E’ facile, camminando fra queste stanze, immaginare lo scrittore che da queste finestre con le tendine chiare e la vista sul parco che costeggia il Dnepr, osserva la sua città, ne segue le vicissitudini, ne fa la protagonista di un romanzo, “La guardia bianca”, nel quale, attraverso le vicende della famiglia dei Turbin, ricostruisce fedelmente l’aria di apocalisse che nei primi decenni del Novecento incombe su Kyiv e sul suo piccolo, raccolto universo familiare.
“Grande fu l’anno, e terribile, il 1918 dalla nascita di Cristo, il secondo, dall’inizio della rivoluzione. Fu copioso di sole in estate, e di neve in inverno, e particolarmente alte nel cielo brillarono due stelle: la stella dei pastori, Venere serotina, e Marte, rosso, tremulo” così si apre il romanzo, che si dispiega lungo un arco di tre mesi, fra il dicembre 1918 e il febbraio 1919. In quei mesi Kyiv presa, nell’ordine, dai bolscevichi, dai tedeschi, dai nazionalisti guidati da Petljura, poi ancora dai bolscevichi, dall’armata bianca, per cedere infine all’avanzata dell’Armata Rossa. Le pagine del romanzo sono pervase del caos e del senso di precarietà di quel momento storico, i tumulti, i continui rivolgimenti del fato e, su tutto, l’ombra dell’imminente disastro.
Le prime pagine descrivono simbolicamente il funerale della madre dei protagonisti, i giovani Turbin: è infatti un’atmosfera di fine ineluttabile che si respira fra le pagine del romanzo e nella vita del suo autore, che scrive ancora: ”Da tempo ormai infuriava vento di tempeste dal nord, e colpiva, colpiva, e non smetteva, e più si andava avanti, peggio era. […] Be’, si pensa, ecco che adesso smetterà, comincerà quella vita di cui si scrive nei libri che profumano di cioccolata, ma quella vita non solo non comincia, ma tutto, attorno, diventa sempre più terribile. A nord ulula e ulula la bufera, e qui sotto ai piedi sordo rimbomba, ringhia il ventre inquieto della terra. L’anno ’18 vola verso la fine e di giorno in giorno sogguarda sempre più minaccioso e irto di spine.
Cadranno i muri, volerà via il falco allarmato dal guanto bianco, si estinguerà il fuoco nella lampada di bronzo, e “La figlia del capitano” sarà bruciata nella stufa. La madre disse ai figli:”Vivete”. E a loro toccherà tormentarsi e morire”. Mentre fuori infuria una simbolica tempesta, Bulgakov scrive una lettera d’addio al suo mondo, al focolare domestico, al suono della chitarra, al suo rassicurante universo borghese che sta per crollare, alla sua città, “la più bella città della Russia, la più ricca di verde e giardini”, che sta per essere sfregiata. Lo scrittore invece sta per essere sradicato dal suo mondo: lascerà Kyiv nel 1919, ma anche se si fosse guardato indietro, rinunciando a partire, non avrebbe più ritrovato la sua città.
Bulgakov guardava con ostilità alla rivoluzione e ai bolscevichi e in questo era vicino ai nazionalisti ucraini. Ma Bulgakov era un russo che non amava la lingua ucraina; era un monarchico e, da monarchico, aspirava alla restaurazione dell’autorità zarista, non a un nuovo corso per l’Ucraina indipendente. E nonostante questo, la sua vita e le sue opere sono legate a doppio filo alla città di Kyiv.
Lo scrittore è l’esempio di come le terre di confine diventino luoghi di intrecci, di identità dai contorni non definiti, di esistenze molto più complesse di un’etichetta nazionale.
Che posto avrebbe oggi Bulgakov, in un’Ucraina dominata dalla retorica nazionalista e anti-russa? Un dissidente? Lui, che aveva l’anima del più convinto dei conservatori?
Se tornasse oggi, riconoscerebbe la sua Kyiv, pervasa di fervore nazionalista e retorica securitaria? Io credo di no. Se tornasse oggi, sarebbe uno straniero in casa propria.
Alle ore 14 del 6 ottobre, quattordicesimo giorno del mio viaggio, il nono in territorio ucraino, mi ricordo all’improvviso di essere straniera.
Sul treno che da Kiev mi porterà a Lviv, nella parte occidentale dell’Ucraina, la nebulosa di suoni indistinti di cui capto solo qualche parola sparsa mi ricorda che la lingua, la sola ufficiale di questo paese, è una lingua che io non conosco, ovvero l’ucraino.
Da questo momento in avanti, per risolvere i piccoli inconvenienti quotidiani che si parano sulla strada di un viaggiatore o per porre rimedio alle mie azioni maldestre, dovrò affidarmi a gesti e disegnini, perché rivolgersi in russo alle persone in certe aree dell’Ucraina può rivelarsi rischioso.
Contando sulla somiglianza fra le due lingue, drizzo le orecchie sperando che la nebulosa poco alla volta si dissolva. Il capotreno che passa nel corridoio urlando “Signori, non buttate la carta igienica nel WC!” mi rassicura: l’ordine, perentorio e imperativo, è stato pronunciato rigorosamente in ucraino, però l’ho afferrato al volo.
Intanto, il mio dirimpettaio, un omone con la testa completamente rasata che mi ricorda nell’aspetto un altro pelato famoso nato a Predappio, ha deciso di testare le mie competenze linguistiche avviando un tentativo di conversazione: “Arrivi dall’Europa?”, mi chiede, come se l’Ucraina si trovasse invece in Antartide. Vorrei chiedere di elaborare meglio il suo concetto di Europa e di spiegarmi dove colloca l’Ucraina rispetto a quest’ultima, ma per fortuna le mie conoscenze di ucraino non mi permettono di lanciarmi in discorsi complessi. Rispondo “Si, Europa, Italia, non capisco ucraino”. A volte l’incomunicabilità può tramutarsi in un grande vantaggio
Poco alla volta emerge che la componente russofona è maggioritaria nel nostro scompartimento, nel quale viaggiano, oltre al sosia di Mussolini, una pittrice di Kiyv, perfettamente bilingue, e un ragazzo di Mariupil, studente dell’Università di Lviv.
La pittrice sembra preoccupata per le mie sorti. Mi suggerisce di usare il russo con moderazione per non andare incontro a episodi di russofobia, che a Lviv sarebbero piuttosto comuni. Lo studente, che arriva da un’area russofona del sud dell’Ucraina, interviene ridimensionando i timori: racconta che, pur vivendo a Lviv da due anni, non ha mai sentito la necessità di imparare l’ucraino.
Poi la pittrice si isola, assorta nella scrittura. Quando riemerge dal suo silenzio, mi consegna il foglio sul quale stava scrivendo a mano con tanto impegno: è un frasario russo/ucraino che raccoglie le espressioni più diffuse nella comunicazione quotidiana. Do un’occhiata veloce, e chiedo ai miei compagni di viaggio di testare il mio accento: “Ja ne rozmovljau ukranskoju”, io non parlo ucraino, provo a leggere fra gli appunti di Evgenija, la pittrice. Lei ride e mi risponde: “Non ti crederà nessuno”. Poi torna seria e dice: “Non ti preoccupare per i nazionalisti. Tu sei straniera, con te non se la prenderanno se parli russo”. Vorrei spiegare a Evgenija che in realtà non sono per niente preoccupata. Sarà perché mi sento protetta dalla possibilità di mascherarmi da straniera sprovveduta e inconsapevole, o forse sarà solo l’incoscienza, ma tendo a minimizzare il pericolo dei novelli patrioti di cui pullula il terzo millennio semplicemente perché non riesco a prenderli sul serio. Quelli di Lviv, città dove affondano e proliferano le radici del nazionalismo ucraino, non fanno eccezione.
Del resto, come prenderli sul serio, quando basta contare i nomi che la città ha avuto nel corso dei secoli per capire che il modello “una terra, un sangue, una lingua”, su un territorio come questo è un artificio o quantomeno una semplificazione.
In ucraino, L’viv, in polacco Lwów, in russo, L’vov; in tedesco, Lemberg; in yiddish, Lemberg; in latino Leopolis, “la città del leone”: non si tratta di un vezzo internazionalista, ma del giusto richiamo alla storia della città e della regione in cui è situata, la Galizia storica, un territorio che in circa un millennio è stato attraversato, abitato, governato da una moltitudine di popoli: ucraini, polacchi, ebrei, armeni, tedeschi, russi, per citarne alcuni.
Nata nel medioevo come un principato della Rus’ di Kiyv, la stessa entità statale cristiana e di lingua slava che avrebbe dato origine al granducato di Mosca e alla Russia, la Galizia fu invasa nell’arco del XIII secolo dalla Polonia, dall’Ungheria, dalla Lituania e poi ancora dalla Polonia, che avrebbe regnato su questo territorio per circa quattrocento anni e diffuso l’uso della lingua polacca e la fede romano-cattolica, rimasta quest’ultima in eredità anche quando la Polonia si ritirò per cedere il posto agli Asburgo nel 1772; poi venne la Prima Guerra Mondiale, che spazzò via gli Imperi e la Galizia ritornò polacca. Nel 1939 un nuovo terremoto arrivò a cambiare gli assetti del territorio: durante la seconda guerra mondiale la Galizia diventò sovietica e fu annessa alla Repubblica socialista sovietica di Ucraina; fu invasa, ancora una volta, dai nazisti nel 1944, per essere poi riconquistata dall’URSS, che è rimasta su queste terre fino al crollo, nel 1991, anno in cui la Galizia è diventata parte dell’Ucraina indipendente.
In questo susseguirsi turbolento e incessante di vicende, di dominatori, lingue, confessioni, un tratto aveva sempre contraddistinto la Galizia fin dal Medioevo: il suo carattere multiculturale. Nel periodo asburgico la Galizia era cantata in letterature di quattro lingue diverse, ucraino, tedesco, polacco, yiddish, da poeti e scrittori che sarebbero diventati pietre miliari delle tradizioni letterarie a cui appartenevano. Fra questi Joseph Roth, cantore del mondo ebraico galiziano, o Ivan Franko, icona dipinta sui muri di Kiyv con l’elmetto arancio antinfortunistico nei giorni della rivolta del 2013-14.
Nel periodo asburgico in questo finis terrae si contava, accanto ai gruppi più numerosi di ruteni – così erano chiamati gli Ucraini fino all’Ottocento, polacchi ed ebrei, una moltitudine di minoranze. Ma proprio in quegli anni prese corpo e si diffuse il sentimento nazionale.
Il caso ucraino fu piuttosto singolare: la popolazione ucraina che viveva in Galizia, infatti, era un gruppo minoritario rispetto a quella che viveva invece nel territorio dell’Impero Russo, ma, se i sudditi dello zar erano frustrati nelle rivendicazioni nazionali dal pugno di ferro dell’autocrazia e da una severissima repressione, gli ucraini galiziani potevano contare su una maggiore organizzazione politica e su una rete di istituzioni accademiche che permetteva di coltivare studi storici e filologici sulla tradizione nazionale ucraina. Così le rivendicazioni nazionali, ucraine e non solo, riuscirono a trovare terreno fertile, arrivando gradualmente a imprimere un’orma fatale sul destino di questa terra che nel corso dei decenni successivi sarebbe stata più volte fatta a pezzi e ricucita alla meglio.
Con la caduta dell’Impero asburgico, al termine della prima guerra mondiale, iniziarono gli scontri fra polacchi e ucraini, che terminarono con la vittoria polacca e la migrazione di circa 150.000 ucraini, ai quali subentrarono polacchi arrivati dalla zona più a ovest. La seconda guerra mondiale invece fornì agli ucraini l’occasione di rivalsa. Mentre l’esercito nazista e l’Armata Rossa combattevano, l’Organizzazione dei Nazionalisti ucraini, una frangia oltranzista nata fra esuli ucraini, con a capo Stepan Bandera, fondò l’esercito insurrezionale ucraino, noto come UPA, che combatté prima contro i polacchi, poi contro l’Armata rossa al fianco dei nazisti, e poi, quando fu evidente che i tedeschi non avrebbero assecondato le velleità indipendentiste dell’OUN, contro gli stessi tedeschi. Bandera fu arrestato e rinchiuso dai tedeschi, per essere poi liberato quando l’Armata rossa iniziò a riprendere terreno in Ucraina, perché tornasse ad animare la resistenza antisovietica. Gli uomini di Bandera si macchiarono di una spietata pulizia etnica Galizia e Volinia, uccidendo, secondo alcune stime, sessantamila polacchi. Contemporaneamente, anche i sovietici si diedero da fare a ripulire la Galizia Orientale dai polacchi, mentre i nazisti facevano stragi di ebrei.
Dal 1945 in avanti la Galizia come entità culturale smise di esistere: una parte dei territori più occidentali ritornò alla Polonia, mentre la parte più vasta finì nelle mani dei sovietici, che la riorganizzarono in quattro province e rivestirono con l’uniforme della repubblica sovietica, socialista, atea, nei fatti russofona. Uniforme alla quale questa zona non si è mai adattata del tutto e che è stata scrollata via in men che non si dica quando l’Ucraina ha guadagnato l’indipendenza dal guardiano moscovita.
Le vicende della Galizia si sono rispecchiate fedelmente nella città di Lviv, segnata, dal medioevo in poi, da altrettante fasi, dominazioni, traumi e cicatrici, che ne hanno marchiato lo spirito e il volto.
Il mio primo sguardo sulla città è un salto repentino sul set di “Schindler’s list”.
La vista sul cortile, sul quale si affaccia l’appartamento che mi ospita, immerso nella luce incerta di un mattino autunnale in bianco e nero, richiama immediatamente alla memoria le scene del rastrellamento del ghetto di Cracovia raccontate nel film. Da qualche parte, dicono le guide turistiche, si nasconde una città vivace, vibrante, cosmopolita, ma qui si respira ancora l’aria della Polonia dei giorni peggiori.
Prima del 1939 il 33 percento della popolazione di Lviv, all’epoca Lwów, era costituito da ebrei. In città si contavano molte sinagoghe, diverse scuole di vari orientamenti religiosi, case di preghiera, due giornali, uno in yiddish, uno in polacco, e altre iniziative che facevano di Lwow un vivacissimo centro di cultura ebraica. Gli eventi successivi sono storia ben nota e, a ricordarla, nella periferia nord-ovest della città si innalza ancora il tetro profilo del campo di concentramento di Yanivski, raggelante monumento al vuoto e all’assenza.
A ricordare quella che fu la “presenza” degli ebrei a Lviv, invece, rimane ben poco: qualche scritta in yiddish, ormai sbiadita, sui muri di quelli che un tempo erano attività commerciali, le rovine della sinagoga della Rosa d’Oro, sparse fra l’erba bassa di un parco, in fondo alla via Staroyevreiska, che vuol dire, per l’appunto, “vecchia via ebraica”.
Gli ebrei che non sono emigrati sono poche migliaia, ma passano inosservati. E non solo a me: cerco il Centro di cultura ebraica Hesed-Arieh, che racchiude anche un piccolo museo, ma percorro più volte la via invano: nessuna indicazione lo segnala dall’esterno. Provo a chiedere a un paio di passanti, ma si stringono nelle spalle con un’espressione stranita, come se avessi chiesto la strada per il regno di Mordor.
In centro l’aria che si respira è completamente diversa. Le stradine che si affollano strette e regolari intorno alla Piazza del Mercato rievocano atmosfere di oltre un secolo fa. Le vetrine retrò delle pasticcerie, il legno scuro e invecchiato dei caffè, l’odore di cioccolato riportano direttamente alla Vienna di fine Ottocento. Decisamente siamo lontanissimi da Mosca, ma anche da Charkiv o da Kiyv.
La suggestione da fin-de-siècle però svanisce in fretta. Le saracinesche dei negozi di souvenir, disposte in fitta sequenza, si aprono, una alla volta, e quando il sole è già alto sull’orizzonte il centro è ormai un formicaio intasato di turisti, soprattutto polacchi in comitive da venti, trenta persone, e di gente che si affretta verso le chiese cattoliche a formare file che si allungano sui marciapiedi. Si vedono anche russi andarsene in giro, ma sono turisti. Dei pochi abitanti russi rimasti in città non ho trovato tracce.
Esco a fatica dal budello infernale, saluto il presente nella sua euforia domenicale e vado a rifugiarmi nelle nebbie del passato.
Mi dirigo verso il Museo Nazionale – Memoriale delle Vittime dell’Occupazione, che si trova in un edificio storico utilizzato come prigione dai polacchi, dai sovietici, dai tedeschi e poi ancora dai sovietici. La localizzazione dell’edificio è già di per sé interessante: l’indirizzo del museo è Via Karl Brjullov, angolo Via Stepan Bandera. “Quel” Bandera. Il primo istinto è quello di tornare indietro verso il centro, confondersi fra i turisti, fare cose frivole, come comprare calamite a forma di lardo, gloria nazionale alla quale Lviv ha perfino dedicato un museo, e dimenticare di essere mai stata in Via Bandera, ma la curiosità è più forte.
Le due guardie all’ingresso mi accolgono con aria di festa: “Please! Please! Museum free!” mi dicono in inglese. I pannelli del museo, però, sono quasi tutti in ucraino. L’ostacolo linguistico, per fortuna, non è così insormontabile. Con un po’ di impegno, le questioni chiave si colgono più o meno chiaramente. In tutta la loro drammaticità.
L’esposizione traccia la storia dell’edificio e dell’avvicendamento delle potenze esterne, dagli austroungarici ai sovietici, tutti ugualmente definite “occupanti”, che nei decenni hanno utilizzato la prigione per la reclusione dei prigionieri politici. Poi segue la descrizione delle condizioni di vita nella prigione, dure e inumane soprattutto nei periodi sovietico e nazista.
La narrazione degli eventi ammette solo due tipi di attori: le vittime e i carnefici. L’ultima categoria raggruppa Polacchi, Sovietici, Tedeschi, mentre le vittime sono, ovviamente, gli ucraini e in particolare quelli che avevano “partecipato attivamente in azioni contro rappresentanti delle autorità occupanti”. Il racconto si concentra soprattutto sui membri dell’OUN, fra i quali il più conosciuto è sicuramente Bandera, evidenziandone la misera condizione di prigionieri politici nella terribile prigione, ma tacendo del tutto il legame di collaborazione fra i membri dell’OUN e i nazisti e i crimini commessi di comune accordo. Al contrario, a riprova dell’inesistenza di quel legame, il museo ricorda con puntualità le pene inflitte dai tedeschi dopo che l’OUN e in particolare il trattamento riservato a Bandera, inviato nel campo di Sachsenhausen, dove erano detenuti i prigionieri politici di alto profilo. Piccola dimenticanza del redattore dei testi: le ritorsioni dei tedeschi avvennero solo dopo che l’OUN ebbe voltato loro le spalle. Prima di quel momento, i nazisti si avvantaggiarono largamente dei servigi dell’OUN per il cosiddetto Schmutzarbeit, il lavoro sporco, nell’opera di eliminazione degli indesiderati, dai comunisti, ai partigiani sovietici, agli ebrei.
Arrivo fino alla fine a fatica. Saluto le due guardie, felici chissà di cosa, e mi dirigo a grandi passi verso il museo del lardo.
L’altoparlante della stazione ferroviaria di Lviv annuncia che il treno di seconda classe per Černivci partirà con circa 15 minuti di ritardo. La notizia genera un’onda di agitazione nelle persone intorno a me, che ancora sciamano nella ricerca dei propri posti. Si lamentano del servizio, dei ritardi, dei sedili scomodi, della scarsa pulizia.
Mi guardo intorno e non capisco il perché di tanto sdegno, ma forse i miei standard di paragone sono troppo bassi.
Finalmente si parte, il ronzio delle lamentele si spegne e io sprofondo nel mio libro.
Quando alzo gli occhi mi accorgo che l’anziana donna seduta di fronte a me sta fissando attentamente la copertina del mio libro. Mi dice sorridendo: “Non capisco”. Le rispondo in ucraino improvvisato: “Italiiskyi”. “Sei italiana?” Annuisco, mentre un’altra passeggera si aggiunge alla conversazione: “Però capisci l’ucraino!” A quel punto confesso il trucco: capisco dell’ucraino solo quel che somiglia al russo.
Il ghiaccio è rotto, ho due nuove amiche: Ljubov, settant’anni circa, originaria di Černivci e Tamara, sui sessant’anni, originaria di Kolomiya, nella zona sud ovest dell’Ucraina, ma residente con la famiglia a Mosca. La conversazione con Tamara viene subito agevolata dalla scoperta di una passione in comune: l’Armenia. “Pensa che fortuna – mi dice sarcastica – sono nata in Ucraina, ho fatto il tirocinio nel Caucaso e poi sono finita a lavorare a Mosca”. “Non le piace, Mosca?” le chiedo e lei risponde: “No, troppo caotica, la gente è matta. E poi in nessun posto si sta bene come a casa”. “Però la gente da casa se ne va – interviene Ljubov – “Qui non è rimasto più nessuno. I vecchi come me. I più giovani studiano, si laureano e se ne vanno all’estero a fare gli schiavi”. Ljubov allude al flusso continuo di ucraini che lasciano il proprio paese dove il futuro si presenta molto incerto. Sono più di quattro milioni, ovvero il 25 percento della popolazione lavorativamente attiva. La maggior parte degli ucraini che migrano partono proprio da qui, dalla parte occidentale, prevalentemente agricola e più povera di quella orientale, con conseguenze laceranti sul tessuto sociale. Tamara racconta di tante sue conoscenti che sono partite per lavorare e non sono più tornate, interrompendo ogni legame con le famiglie. Poi racconta della sua, che per fortuna è riuscita ad avere accanto a sé, a Mosca, ma qualcos’altro turba l’armonia: “I miei figli vengono spesso in Ucraina, sono sempre contenti di tornare. I miei nipoti però non sono mai venuti. Non li lasciano venire”. Temo di non aver capito: chi non li lascia venire? Mi spiega che sua figlia ha sposato un moscovita e che, d’accordo con i suoi parenti, non vuole che i suoi figli vengano in Ucraina. Continuo a non capire. Tamara lo intuisce dalla mia espressione e mi risponde, anticipando la domanda: “Propaganda”. Poi racconta che per arrivare fino a Lviv da Mosca è stata costretta a volare fino a Minsk, in Bielorussia, per poi riprendere da lì il viaggio per l’Ucraina, perché i collegamenti aerei diretti fra i due stati sono stati interrotti, creando non pochi problemi ai numerosi russi e ucraini che dividono le proprie esistenze fra i due paesi.
“Tutta colpa di questa stupida guerra e della politica” sbotta Ljubov. “Ho insegnato Letteratura russa per una vita intera. Sono ucraina, ma amo la letteratura russa. Gorkij. Più di tutti mi piace Gorkij” Poi prosegue, con rabbia: “Molte scuole russe sono state chiuse e io sono stata mandata in pensionamento con una pensione ridicola. Adesso la letteratura russa viene studiata insieme a tutte le altre come letteratura straniera. Sono pazzi! Che male può fare studiare una lingua? Che male può fare la letteratura?” “Nessuno” – le risponde Tamara – “Mi importa che una persona sia buona o cattiva, che mi importa della lingua che parla?” Chiara, concisa, inappuntabile, Tamara ci lascia così, mentre il treno entra nella stazione di Kolomyja. Poco dopo la seguirà anche Ljubov’, venti minuti prima che il treno termini la sua corsa nella città di Černivci, sulle pendici dei Carpazi, a 40 chilometri dalla Romania.
Non riesco a farmi un’idea dell’aspetto della città, a causa del buio, dell’illuminazione troppo debole e anche del sovraffollamento del taxi collettivo, ma dall’interno immagino una città con un selciato di piccoli blocchi in pietra e impervie salite. La luce del giorno rivelerà che le mie intuizioni erano giuste: il centro storico è un susseguirsi di strade ondulate, qua e là acciottolate, che si arrampicano fra edifici tardo-ottocenteschi dallo stile eclettico.
Chernivtsi ha più nomi di Lviv: in ucraino Černivci, in russo Černovcy, in yiddish Tshernovits, in polacco Czerniowce, in romeno Cernăuți, in tedesco Czernowitz o Tschernowitz. Anche in questo caso, la molteplicità dei toponimi è sintomatica di un’altrettanta molteplicità di rivolgimenti nel passato della città e dei suoi abitanti.
La regione che include Černivci, la Bucovina nel medioevo, poi entrò a far parte del principato di Galizia-Volinia, fino a quando, in era moderna, non arrivò l’Impero Ottomano a separarle. Alla fine del settecento la Bucovina divenne territorio degli Asburgo, che promossero la migrazione di diverse nazionalità verso questo territorio, abitato principalmente da ruteni, ovvero da ucraini. In questo periodo Černivci, che all’epoca era chiamata Czernowitz, divenne capitale della provincia di Bucovina. Con il crollo dell’Impero asburgico, fu la volta della dominazione rumena: ci fu un nuovo cambio di nome, da Czernowitz a Cernauţi, e un giro di vite sulla popolazione ucraina. Nel 1930 Cernauţi era un mosaico di nazionalità: il 38 percento della popolazione era ebrea, il 27 rumena, il 14 tedesca. I ruteni erano circa il 10 percento.
Qualche anno dopo arrivò la prima guerra mondiale a stravolgere completamente questo assetto. Nel 1940 la città fu occupata dei sovietici e reintegrata, come ai tempi del regno di Galizia, nel territorio ucraino; poi fu la volta dell’occupazione da parte dei rumeni, alleati dei tedeschi, che sradicarono la presenza ebraica dalla città e dalla provincia. Nel 1944 ritornarono i i sovietici, e nel 1945 la Cernauti dell’anteguerra riemerse infine dal conflitto con il nome russo di Chernovtsy, sovietica e, dal punto di vista demografico, quasi completamente ucraina. In quel momento l’Ucraina raggiunse – ironia della sorte proprio per mano della vituperata Unione Sovietica – l’assetto territoriale sul quale si fondò l’Ucraina indipendente nel 1991.
La versione della storia che lo spazio urbano di Černivci racconta è la stessa che si può leggere altrove, in Ucraina, quella di un paese arroccato sul rigido schema nazionalistico, ma sotto i proclami dell’ufficialità si può udire nelle strade una narrazione diversa, che riunisce le voci di una moltitudine di nazionalità e di cittadini bilingue o addirittura trilingue. A Černivci oggi vivono ucraini, rumeni, ebrei, polacchi, russi, a cui si è unita una folla di nuovi arrivati: moldavi, azeri, armeni, indiani.
Černivci come tutti i luoghi di frontiera, è un universo fluido, in movimento.
Infatti, a dispetto del buio, della nebbia a banchi e del freddo, alle sette del mattino la stazione dei bus già pullula di gente in attesa alle banchine o in fila al bancone del bar, che già odora di salsicce e cavolo stufato.
I viaggiatori prendono posto sui bus, portandosi dietro grossi involti ben chiusi. Forse sono sigarette, da rivendere al di là del confine. Altri hanno in mano sacchetti pieni di pagnotte, che rivenderanno in Romania per un prezzo più alto.
Io vago in cerca del mio bus, che parte alle 7.10. La corsa precedente è partita alle 5.10 e questa è l’ultima della giornata. Scorro tutte le destinazioni: Chişinău, Odessa, Kiyv, Bucarest. Poi un anziano signore mi chiama: “Suceava?”. Al mio sì mi mostra la banchina numero 9, dove sosta una vettura rosso bordeaux, una corriera scrostata che troverebbe una collocazione più adeguata in un museo che su strada. Quello è il bus sul quale varcherò il confine con la Romania fino ad arrivare a Suceava, l’ultima tappa di questo tour dalla Romania alla Romania in senso antiorario.
La mia compagnia per il viaggio è Tetjana, una donna di sessant’anni circa originaria di Černivci. Parla italiano, perché lavora a Bologna come badante. Si trova bene, dice, ha sempre avuto a che fare con gente perbene, ma anche lei è convinta che il posto migliore in cui stare sia casa propria. A meno che partire non sia una scelta. Nel suo caso, e nel caso di molti suoi connazionali, non lo è.“L’Ucraina è una bella terra. Qui abbiamo tutto, ma siamo costretti ad andare via” mi dice mostrandomi la pianura oltre il finestrino appannato, mentre attraversiamo il confine.
Le guardie doganali controllano i passaporti: danno solo un’occhiata distratta al mio, mentre si soffermano con maggior attenzione sull’altro straniero presente sul bus, un ragazzo turco che sta girando l’Europa in autostop. Per una qualche ragione la guardia lo trova sospetto o forse è solo invidioso.
Il tempo e le attenzioni dedicate alle borse dei viaggiatori ucraini sono decisamente maggiori, ma non viene fermato nessuno. Possiamo ripartire tutti, comprese le sigarette e le pagnotte di pane. A Suceava saluto Tetjana, convinco l’autista a prendere le mie hryvne in cambio di lei rumeni e mi dirigo in autobus verso l’aeroporto, che si trova a 13 chilometri dal centro della città.
Sono in leggero anticipo: quando alle 10.40 il bus mi deposita all’ingresso dell’aeroporto so che mi aspettano 9 ore di attesa prima che il mio volo parta. Mi intrattengo per qualche minuto con la panettiera che ha lavorato a Roma e parla italiano; poi faccio una sosta al bar e dalle vetrate vedo una piccola folla di persone che resta ferma a guardare verso la pista l’aereo che decolla verso Londra. Poi la ragazza al banco mi avvisa che il bar sta chiudendo. Quando varco la soglia dell’aeroporto mi accorgo che non c’è più nessuno. Anche la panettiera è andata via. Siamo rimasti in due: io e l’addetto alle pulizie, che lucida i pavimenti.
Di tanto in tanto vedo passare impiegati sbucare fuori dagli uffici, ma a parte questi rapidi transiti, l’area check-in rimane in silenzio e in penombra fino alle tre del pomeriggio, quando il traffico poco a poco riprende.
Nell’aria dorato intenso di una giornata che sembra estiva, sfrecciano fiammanti minibus bianchi che si fermano davanti a un piccolo cartello: “Bus da Černivci”. Così scopro che la corriera scassata della mattina non è l’unica alternativa di viaggio, è solo l’unica disponibile online, ma nel mondo offline le persone si sono ben organizzate con iniziative private per gestire un andirivieni fra la città e l’aeroporto che ormai è diventato costante.
Intanto il piazzale dell’aeroporto piano piano si affolla, soprattutto di gruppetti di donne che fanno rientro a Bologna, la destinazione del secondo volo della giornata.
Il chiacchiericcio e i temi di conversazione sono quelli tipici di chi ritorna dalle vacanze nella casa materna: “Appena arrivo a Bologna ricomincio con le insalate. In dieci giorni in Ucraina sono ingrassata di tre chili” Devo averla già sentita da qualche parte, questa frase.
Dopo Bologna è la volta di Bergamo: anche stavolta l’area check in è affollata soprattutto di donne, di tutte le età, qualcuna sola, qualcuna con bambini piccoli, un paio di famiglie miste.
Mentre osservo il turbinio di persone che migrano con i gesti abitudinari, sedimentati e consueti di chi prende il tram al mattino per andare al lavoro, non mi sembra di vedere qui o lungo il cammino percorso che con la mente attraverso a ritroso, paesi o persone divise dal solco che separa chi guarda all’Europa e chi vuole la Russia.
Non ho visto due anime, due volti, due storie, ma mille anime, mille volti, mille storie, o, per usare un’espressione che Carlo Levi usò per l’Italia, mille patrie, tutte unite attraverso i secoli, i paralleli e i meridiani dal comune destino di vivere con le radici strappate a mezz’aria, anche nella propria terra. Sradicati sono stati gli ebrei, vittime di violenze ancora prima della guerra e dell’occupazione nazista, in un territorio che in fondo era casa loro; sradicati sono stati quelli, che come Bulgakov, hanno perso il proprio mondo senza spostarsi; sradicati furono i contadini, vittime della collettivizzazione forzata a cui è stato negato il legame con la propria terra e con i frutti che produceva. Sradicati sono i migranti di oggi, ancor prima di migrare, perché il paese in cui sono nati ha in qualche modo voltato loro le spalle.
La vera frattura, o almeno quella che mi sembra di cogliere, qui, in questo aeroporto, è quella che spacca la società in due parti, da un lato i pochi che sembrano muoversi a larghe falcate verso il futuro e dall’altro i tanti che il futuro vanno a cercarselo altrove.