di Lorenzo Pini
20 Febbraio 2020
In viaggio lungo la tratta del leggendario Simplon Orient Express, attraverso i 1333 km che collegano il confine italiano a Istanbul
Il primo gin tonic fa scattare l’idea quasi per scherzo. Dopo il secondo compriamo il volo… ma solo per il ritorno. L’andata? Si fa in treno. Nel febbraio 2019 abbiamo pensato di ripercorrere la tratta del leggendario Simplon Orient Express, che collegava Venezia a Istanbul. Tutto è nato al bancone di un bar toscano di provincia una sera di gennaio, quando con un amico ho scoperto sul web un articolo di Paolo Rumiz.
Lo scrittore triestino fece questo viaggio nel 2011 e il suo racconto è di quelli che ti invogliano ad andare (link). Ma il report di Rumiz ha bisogno di essere aggiornato perché, come ci renderemo conto, sono cambiati alcuni, fondamentali dettagli. L’idea assume così varie sfumature: verificare se il percorso Trieste-Istanbul in treno del 2011 è ancora valido, sperimentare i rigori dell’inverno balcanico e approcciare Istanbul da lontano, come ultima tappa di un percorso solo terrestre.
Trieste-Istanbul in treno: ci aspettano 1333 km di binari che attraversano tutti i Balcani, in pieno inverno. Con 4 giorni a disposizione bisogna fare attenzione a non sbagliare neanche un cambio. Slovenia, Croazia, Serbia, Bulgaria, Turchia. Forse troveremo gelo e bufere di neve (è in realtà quello che spero per raccogliere materiale per il mio blog meteotrip.it). Sarebbe un ingrediente ben accetto, in questi di tempi di global warming.
Tramontana lieve che fa tremare le foglie dei platani e livella l’acqua del porto di Trieste. Una bella aria elettrica da partenza. Il treno per Lubiana è alle 9.02. Costeggia il golfo di Trieste e vira a destra sulle colline del Carso alle spalle della città. Si avvita tra pareti di calcare, poi i binari attraversano l’altipiano prima di Lubiana. La prima sosta è alle 11,30 nella capitale slovena, baciata da un sole freddo di febbraio.
Il cambio per Zagabria è alle 14.30. C’è il tempo per passeggiare verso il centro storico di Lubiana, raggiungibile a piedi dalla stazione in 15 minuti. A Zagabria centrale si arriva dopo 3 ore (17.30) su rilievi appena accennati che segnano il passaggio tra Slovenia e Croazia. Il tramonto è quasi estivo nei colori, ma il freddo brucia le guance. In stazione si compra il biglietto per domattina (Zagabria-Belgrado, si paga in Euro).
Meno 1.176 km a Istanbul.
Dopo aver dormito nella capitale croata, la partenza è alle 11.03, quando l’Intercity si mette in moto da Zagabria in direzione Belgrado. Se fino a questo momento il passaggio dei confini era appena percepito, già dai primi passi nel vagone si capisce che è l’atmosfera è più colorita. I vicini di sedile offrono prima datteri e caramelle, poi sorsate di grappa. Impossibile rifiutare, risulterebbe estremamente scortese!
Google Translate innesca conversazioni improbabili, poi il credito finisce si torna alla comunicazione pre-digitale. Il fiume Sava si srotola lungo il confine con la Bosnia, tocca Slavonski Brod e penetra un paesaggio che ricorda la Pianura Padana. Un cielo fosco, lattiginoso è calato sul paesaggio. Di neve neanche l’ombra. Il controllo passaporti alla frontiera con la Serbia è lungo. Ma dopo la strada per Belgrado è spianata.
Sono le 18, il buio è totale. Nei Balcani il tramonto arriva prima che in Italia. Dopo così tante ore di viaggio, la capitale serba appare come un gioco di lampadine intermittenti riflesse sul Danubio. La stazione di arrivo è stata spostata a 3 km dal centro per lavori di rifacimento. Serve un taxi (500 dinari, 5 euro), oppure gli autobus 40-41 per andare in centro. Anche in questo caso, è bene fare subito il biglietto per Sofia (per l’indomani) allo sgabuzzino delle destinazioni internazionali (si può pagare con la carta di credito).
Meno 816 km a Istanbul.
Neanche il tempo di approcciarsi a Belgrado che è il tempo di ripartire. Un viaggio del genere, per noi che abbiamo solo 4 giorni, impone ritmi serrati. Sono due i treni da poter prendere da Belgrado per proseguire verso sud. Uno alle 4 del mattino, l’altro alle 6. Entrambi sono buoni per arrivare in tempo a Nis (ore 9.40), nella Serbia meridionale, dove alle 11 c’è la coincidenza per Dimitrovgrad, cittadina di confine con la Bulgaria. Per non rischiare nulla, abbiamo preso quello delle 4. Ora il treno segue un altro affluente del Danubio, la Morava.
Si attraversa una Serbia pianeggiante e arcaica, di villaggi contadini sperduti e malinconici. E’ un treno di lavoratori assonnati, di scolari costretti ad alzarsi a orari improbabili. Ogni fermata è uno scatto fotografico: stazioni derelitte che sembrano set cinematografici, il capostazione che esce, saluta e fischia in mezzo al nulla.
La vita del villaggio è messa in pausa per un istante: il treno è l’orologio che scandisce l’esistenza in una terra che ne ha conosciute di ogni tipo. Siamo nel cuore dei Balcani violentati dalle tensioni degli anni Novanta. Le pozze sono ghiacciate, l’erba dei campi ingiallita dal gelo e schiacciata dal peso di una neve che si è sciolta. Nelle case scalcinate è ora di colazione.
Nis, stazione di cambio, è una città di 170 mila abitanti. Nuvole veloci accarezzano pendii innevati di recente. Fuori dalla stazione nessun turista. Siamo esemplari rari, osservati con curiosità, forse compassione. Come anticipato poche righe sopra, da Nis si riparte alle 11 per Dimitrovgrad, in Bulgaria.
Dopo Nis il paesaggio cambia drasticamente e pareti scoscese stringono i binari in una morsa di pietra. Un’ora tra gole strette e tenebrose, un’altra in una vallata aperta dove il cielo si richiude a neve. Alle 15 è Bulgaria, per l’esattezza la cittadina di frontiera di Dimitrovgrad, dove è prevista un’ora di attesa prima del cambio definitivo per Sofia. Un’ora che in un posto del genere, d’inverno, può dilatarsi in un’esperienza mistica. Nevica fitto. Lo stomaco reclama cibo. Fuori dalla stazione un distributore che sembra l’unica risorsa vitale vende noccioline e vodka. Avanti così, con le fauci in fiamme e la polizia di frontiera che richiama per l’irresponsabilità “italiana”. La colpa è quella di essere rientrati al binario soltanto 10 minuti prima della ripartenza. Di nuovo passaporti, occhiate, indagini sommarie che sembrano un teatrino da ripetere senza convinzione.
Nei Balcani ancora conta da che Paese vieni e soprattutto dove hai intenzione di andare. In treno, le presenza dei confini e delle frontiere è ancora tangibile. In territorio bulgaro si sale a 700 metri di altitudine verso una stazione il cui nome è tutto un programma: Dragoman. Vento e neve sembrano il minimo sindacale in questo posto, dove si narra che d’inverno faccia – 30 °C in scioltezza. Oggi la temperatura è appena sotto lo zero e la neve è solo un velo. Dragoman sonnecchia e la vedo scorrere dal finestrino come un luogo stoico in cui la vita si tramanda nonostante tutto. Il treno entra a Sofia alle 19 in punto.
Meno 502 km a Istanbul.
Sono 15 ore che siamo in giro per stazioni, ma la giornata non è finita. Alle 21 parte un notturno diretto a Istanbul, la biglietteria è ancora aperta (il biglietto costa 60 lev – 30 euro, cuccetta inclusa) e non si può perdere l’occasione per accorciare i tempi. Ormai la dimensione mentale è mutata nel profondo. Il viaggio è diventato tutt’uno con l’andare dondolante del treno. Si può iniziare a realizzare quanti chilometri ci siamo lasciati alle spalle. Si brinda con una pessima vodka da discount e salatini.
La notte oltre Sofia traspare dai vetri di questo treno turco, forse la vera essenza dell’immaginario Simplon Orient Express. Nei vagoni vicini salgono bulgari, russi, macedoni. Riecheggiano lingue incomprensibili. Nel dormiveglia sembra di sprofondare in un mondo arcaico delle origini dei popoli, un incantesimo rotto dalla polizia di frontiera che ci sveglia a Kapikule, tra Bulgaria e Turchia. Bisogna uscire nel freddo e fare la fila in una stanza per il controllo passaporti, ma ormai il traguardo è vicino.
Meno 227 km a Istanbul.
Il treno notturno da Sofia arriva sul Bosforo verso le 7 del mattino dopo 10 ore di viaggio. L’alba di Istanbul è spazzata da un vento artico che passa sul Mar Nero e solleva nubi veloci cariche di pioggia ghiacciata. Il treno ferma alla stazione di Halkali. Da lì, un autobus porta in centro. Il costo della corsa è compreso in quello del biglietto del treno. La metropoli si annuncia con periferie squallide dove proliferano i grattacieli. Ma quando il Mar di Marmara si allarga fino alle sponde est e ovest, Europa e Asia, e i profili dei minareti si innalzano oltre la matassa di edifici bianchi, allora capisci che questo non poteva che essere il capolinea di questo Trieste-Istanbul in treno.
Istanbul è un abnorme incontro di culture, di popoli, di climi. Un mare caldo a sud, un mare freddo a nord. L’Anatolia, terra continentale di neve invernale e torride estati. L’alito della vicina Grecia. Il soffio dei Balcani. Tutto qui ha inizio e tutto finisce in un perpetuo movimento millenario. E le nuvole che corrono e girano in un vortice di bassa pressione attorno all’Egeo sembrano confermarlo. Non resta che farsi inghiottire da Istanbul. Per il ritorno ci sarà l’aereo.
Articolo ripreso da meteotrip.it