Convinti, quando le cose vanno bene e quando le cose vanno male, che ciascuno deve fare il suo lavoro, ci troviamo come redazione di fronte a un evento globale, che concorre a mettere a nudo quelle paure che saranno l’argomento del terzo numero del nostro semestrale cartaceo.
Partendo dal testo di Angelo Miotto, abbiamo deciso – nostra vecchia passione – di lanciare un Decameron online, nella vecchia tradizione, di fronte alle paure, di riunirsi attorno al fuoco (della passione narrativa) e di raccontarsi storie.
Mandateci il vostro racconto di questi giorni di Corona virus, tra allarmismi, improvvisati esperti, legittime paure e doverose cautele. Va bene, al solito, qualsiasi linguaggio: audio, testo, video, foto. Inedito o citando altri. Scrivete a redazione@qcodemag.it e noi vi pubblicheremo.
Il contagio delle storie – 33
Unione delle terre d’Oriente – Federica Ferri
Il telefono squilla di continuo.
Questa volta è una signora anziana, vive da sola, da anni su una sedia a rotelle. Chiede il pane, la pasta, ci fa l’elenco. Poi ci chiede se possiamo portargli un uncinetto ed un gomitolo di cotone. Signora le mercerie sono chiuse, non sono beni di prima necessità.
Ci guardiamo. Forse ce l’abbiamo in magazzino il cotone, tanti colori. Glieli mettiamo nel sacchetto.
Siamo in un piccolo paese del profondo Sud Italia, Salento. Da alcune settimane abbiamo riconvertito il nostro lavoro.
Parliamo meno arabo, inglese, wolof. Nessuno ci cucina più lo zighini, l’egusi, il cous cous.
Non ci rechiamo più in Questura – Ufficio immigrazione.
Le donne sono in casa. Non escono. Hanno paura. Già stigmatizzate nella loro vita “normale”, figuriamoci al tempo dell’epidemia.
Sono rimandati i nuovi inserimenti.
Da quando è scoppiata l’emergenza la nostra Ong ha riadattato parte del lavoro. Attività quotidiane che cambiano, così come cambia la realtà che ci circonda.
Durante le prime settimane abbiamo distribuito su commissione farmaci e beni necessari a chi non può uscire dalla propria abitazione. Da una settimana il nostro ufficio è diventato un centro di stoccaggio di generi alimentari. Molti commercianti, ma anche molti cittadini, ci portano pasta, latte, biscotti, anche verdure, formaggi freschi. Noi li distribuiamo a chi è in questo momento più in difficoltà.
C’è una comunità che si stringe intorno ad essi. Istituzioni che stanno dimostrando di avere a cuore ogni singola situazione. Siamo fortunati. Abbiamo cibo in abbondanza, case confortevoli, assistenza sanitaria. Se c’è qualcuno che può sopravvivere a questa epidemia siamo noi.
Ma che succede se alziamo lo sguardo?
Il comune presso il quale operiamo fa parte dell’Unione dei Comuni Delle Terre d’Oriente. Terre poste all’estremo capo Est. Li dove sorge la prima alba d’Italia.
Li dove la distanza con le terre oltre l’adriatico è più corta. Li dove l’Albania appare chiara, grande, vicina.
Così parte del territorio salentino che in quell’Unione delle Terre d’Oriente è idealmente compresa anche la Terra delle Aquile, abbracciando anche la tendenza di alcuni rivoluzionari sudamericani a chiamare i territori con i nomi geografici e non con il nome degli Stati-Nazione.
Ed è all’Albania che va il mio pensiero.
A certe strade della Zadrima, deserte più di prima. Alla piazza di Blinisht e agli abitanti di Krajen, paese, tra tanti, che non ha neanche una farmacia. A quei ragazzi che si recavano a lavoro a Lezhe con i furgon, mezzi di trasporto collettivi, che adesso non funzionano più.
Ad Aleksander, che si arrangia per sfamare i suoi tre figli. Al minuscolo bar di Baqel che ci ha visti molte volte felici e che oggi ha perso i suoi avventori.
A Mira e alle infermiere dell’ospedale di Lezhe, ancora troppo poco attrezzato. Alle montagne di Gjader e agli amici della Mirdita che avevano trasformato la propria casa in un albergo per turisti, che non ci saranno.
Agli insediamenti precari della periferia di Scutari e ai castagneti di Puke.
Alla distanza che ci vuole tra la valle di Teth ed il primo ospedale degno di questo nome.
E’ li che il nostro lavoro prenderà, forse, ancora nuove forme.
Sperando di attraversare presto quella pozzanghera di mare per passegiare di nuovo in quelle Terre che sono, come sempre, parte di noi.