Questo sangue scorre con gioia
Per purificarmi dall’odio
Credimi, bastonate dopo bastonate
Il sogno si fa più grande dentro di me
Ed è la tua prigione a restringersi, non la mia
I versi di Idrabni (Picchiami) appartengono a una canzone di Ramy Essam. Arrestato il 9 marzo 2011, durante un rastrellamento al Cairo, venne trattenuto e torturato nel Museo Egizio della capitale egiziana. Ramy era uno dei tanti ragazzi scesi in piazza a febbraio di quell’anno unico e, forse, irripetibile. Ramy è uno dei ragazzi di piazza Tahrir al Cairo.
La sua storia è una delle tante di quei giorni che chiamavamo primavera, ubriachi di libertà. Quei giorni che poi son diventati inverno, per tante persone, ma che troppo in fretta vengono liquidati senza rendersi conto dell’impatto epocale che hanno avuto su una generazione intera, dal Marocco all’Egitto, dall’Iraq allo Yemen, dalla Libia alla Tunisia.
Ci sono processi rivoluzionari che, dopo secoli, ancora fanno discutere storici e politologi. Per le rivolte arabe, invece, c’è come una sorta di liquidazione morale in atto. Sempre dal punto delle nostre coscienze, però. Perché a ben vedere, per un mondo intero, il solo fatto di aver scacciato dittatori che sembravano scolpiti nel destino, aver combattuto per la libertà e la dignità, ha cambiato per sempre le loro vite. Anche se non tutto è andato come si sperava.
Nelle librerie, tra qualche giorno, ma già ordinabile online, Arabpop – Arte e letteratura in rivolta nei paesi arabi, raccolta di interventi a cura di Silvia Moresi e Chiara Comito, edito da Mimesis per la collana Eterotopie, è un manifesto culturale di molto di quello che avremmo dovuto sapere su chi la rivoluzione l’ha fatta, cantata, filmata, scritta o disegnata.
Un libro che racconta la rivoluzione non come una guerra, dove conta chi vince e chi perde, ma come una battaglia. Una lotta politica che ha prodotto degli strumenti e dei linguaggi per sapersi raccontare, perché nessuno aveva il diritto di raccontarla più di chi l’ha fatta. E di solito la storia la raccontano i vincitori.
Dalla letteratura, nel capitolo curato da Chiara Comito, al cinema, capitolo a cura di Olga Solombrino, si viaggia sulla pelle nuda di ragazzi e ragazze, donne e uomini, che hanno opposto quello che avevano a decenni di abusi e sopraffazioni: il loro corpo e la loro anima sognante e determinata, poetica e dura, ma senza perdere la tenerezza.
E allora incontrerete un mondo che spesso è negato. Quello di una cultura che viene raccontata solo attraverso una grammatica di morte, parlando della violenza, o con un alfabeto di disperazione, quando si parla di politica e sottomissione.
In questo guardare distorto, si perde un mondo intero. Quello del bel capitolo curato da Silvia Moresi, sulla poesia, dove attraverso i versi degli autori si ricostruisce un mosaico di metafore che diventano strumento di superamento delle censure. Segnando quello che dovrebbe essere il motto delle insurrezioni: “la sconfitta della rivoluzione politica, la vittoria della rivoluzione poetica.”
E se non ha giornali per dire la tua userai i muri, se non hai radio e tv userai la rete, reinventando la lingua, valorizzandone le diversità, portando l’intellettuale a parlare la lingua dei caffè. Perché uno stesso destino, va raccontato con lo stesso vocabolario.
Arabpop ha il grande pregio di voler parlare a tutti, non solo agli addetti ai lavori. Ha l’ambizione – come spiegano le curatrici nell’introduzione – di offrire strumenti altri delle “mistificazione e dei pregiudizi” con i quali raccontiamo un mondo intero. E ha il merito di smontare l’idea di una società monolitica, ‘araba’ in quanto tale, per definizione che non riesce a liberarsi da orientalismi di ieri e di oggi.
Oltre ai capitoli già citati, Arabpop è un viaggio in tante stazioni. Quella della produzione musicale, a cura di Fernanda Fischione, quella della graphic novel, a cura di Anna Gabai, passando per le arti visive raccontate da Catherine Cornet, la street art a cura di Luce Lacquaniti, le performance e lo spazio pubblico di Anna Serlenga.
Un viaggio tra la cronaca di quei mesi, e la produzione istantanea, fino alle nostalgie e alle dolorose contraddizioni di oggi, che hanno trovato – in tutte le espressioni possibili – il loro memoriale. Tutt’altro che imbiancato, ma in continuo divenire.
Un viaggio che non riduce tante vite nel ruolo di vittime, ma ne racconta i sogni, le delusioni, l’ironia e la rabbia.
Un mondo che continua a raccontarsi, per non essere sempre raccontato, che riflette su sé stesso e sull’altro, che siamo noi, o forse no. Perché in fondo non è sempre per confronto che la cultura araba deve raccontarsi.
Questo è il filo rosso che sembra di cogliere in queste pagine e in questa produzione culturale raccontato dalle autrici nel volume curato da Moresi e Comito: un mondo intero che reinterpreta una serie di codici che lo definivano, scegliendo di definirsi. Che prende le icone e le rinnova con significati e messaggi altri.
Il panarabismo e il fondamentalismo, lo stato nazionale e il socialismo. E ancora, il ruolo degli intellettuali, il corpo delle donne, la lingua e le forme di produzione letteraria e artistica, il settarismo e la laicità. C’è tutta una narrazione che vuole superare questi schemi, smontarli e rimontarli. Riscriverli da soggetto del racconto, invece che come perenne oggetto.
Arabpop è un viaggio in un mondo che vuole raccontarsi, che vuole smontare la sua gabbia, che non è stata solo politica in questi anni, ma anche culturale. Un nuovo inizio che, piaccia o non piaccia, ha nel 2011 la sua stazione di partenza e che oggi nessun bilancio geopolitico potrà cancellare. Un libro che tiene traccia del passato, ma racconta il futuro. Anche perché, come dimostrano le piazze del Sudan, dell’Iraq e dell’Algeria, il viaggio è appena cominciato.