Footballization. Chi non sa come tornare a casa?

di

4 Aprile 2019

“Chi non sa come tornare a casa?” Louay, Yazan e Rami sin da bambini giocavano insieme
sui campi da calcio del campo palestinese di Yarmouk, in Siria. Con l’intensificarsi del conflitto attorno a Damasco, hanno trovato riparo nel campo di Borj el Barajneh, alla periferia di Beirut, dove oggi difendono i colori dell’Al-Aqsa, la squadra palestinese simbolo del campo.

Immaginiamo un luogo di (molto) meno di un chilometro quadrato, con una popolazione quanto quella di un campo di calcio di misura media, circa 45,000 persone.

Immaginiamo che in quel luogo, l’acqua che esce dai rubinetti è salmastra, la corrente va e viene, i fili elettrici volano da una casa all’altra, le case si sviluppano in altezza perché ormai non c’è più spazio per tutti. Immaginiamo che da circa 7 anni, questo posto – e gli altri campi simili – abbia aperto le proprie porte a nuove famiglie, improvvisamente sfollate e in fuga da morte certa, con le quali condividono un passato comune, quello della Nakba, e il desiderio comune, quello di tornare a casa, qualunque essa sia.

Immaginiamo di essere in uno dei paesi che ha accolto il più grande numero di rifugiati al mondo, e in cui le tensioni sociali normalmente esistenti si acuiscono quando a cercare di mangiare dalla stessa torta si è sempre di più, ma la torta rimane sempre la stessa.

Benvenuti in Libano, benvenuti a Beirut, benvenuti al campo profughi palestinese di Borj el Barajneh.

A Borj el Barajneh, come in tanti luoghi al mondo, si gioca a calcio. Le squadre palestinesi, non ammesse formalmente al campionato libanese, giocano la Coppa Arafat, ma la competizione è decisamente sana – a parte qualche lancio di seggiolini ogni tanto – e molto spesso gli allenatori allenano anche le squadre libanesi, alle quali è permesso avere (ben) un giocatore palestinese tra le loro fila.

Non c’è bisogno di dire quanto il calcio, sport universale e nazionalpopolare in tutti i luoghi, soprattutto quelli più dimenticati, sia giocato e amato da tutti, dai più ai meno giovani. E non c’è bisogno di spiegare perché un giovane ricercatore italiano, finito a Borj el Barajneh per la sua ricerca, patito di calcio e in cerca di una squadra con cui allenarsi, sia finito a giocare nel’Al Aqsa, la principale squadra palestinese, intitolata alla Moschea di Gerusalemme. Italiani, pallone, coppa del mondo, “una fazza una razza”.

E’ un attimo.

Stefano comincia così ad allenarsi con ragazzi siriani, palestinesi, libanesi. A confrontarsi con le grandi leggende del calcio palestinese, con le sfide quotidiane, e con le sconfitte della vita che subisci quando nasci dal lato sbagliato, e capisce che c’è una storia bella da raccontare.

La storia si chiama Footballization, perché “se proprio dobbiamo chiamarci in qualche modo in questo campo, allora che si sappia che a noi il calcio ci piace più della politica, delle ideologie, di tutti gli –ismi che ci potete affibbiare.”

La storia dice che il calcio fa sognare. Che oltre a tirarti fuori di casa e farti giocare in ogni vicolo, basta una palla o qualsiasi cosa che rotoli, ti può anche letteralmente “portare fuori casa”, a giocare una partita a Sidone o a Tripoli, sempre che ti lascino passare ai check-point, o addirittura in Qatar e in giro per il mondo, se sei il campione Jamal Al Khatib.

La storia è che quando sei tra gli ultimi, gli ultimi si aiutano tra di loro, e chi conosce il campo a menadito aiuta i “nuovi arrivati” a tornare a casa e districarsi tra vicoli, cavi elettrici e palazzi in costruzione, e per “chi non sa come tornare a casa”, c’è sempre qualcuno pronto ad accompagnarlo.

La storia è che il calcio a Borj el Barajneh, e a Shatila, e negli altri campi palestinesi è giocato da persone comuni, con grandi sogni. O forse, da grandi persone, con sogni comuni. Quello di non essere discriminati solo per essere siriani o palestinesi. Quello di avere un buon lavoro e provvedere alla famiglia. Quello di avere dei documenti per poter viaggiare – e scappare – legalmente, senza dover pagare duemila dollari per un passaporto falso e dormire 25 giorni in un aeroporto senza sapere dove e come uscirne. Quello di diventare un grande campione. O di avere le wasta – le connessioni – giuste per giocare in una squadra libanese. O di non essere bloccati ai checkpoint.

Il sogno di avere un paese di appartenenza.

La storia è che Rami, Yazan, Louay e tutti i giocatori, hanno un sogno. Quello di tornare a casa, anche se non sanno né quale sia, né come tornarci.
La Siria in macerie? Il Libano inospitale? L’inarrivabile Palestina?

Non importa, quello che importa è continuare a giocare, e a sognare.

Il film “Footballization”, scritto da Stefano Fogliata e diretto da Francesco Furiassi e Francesco Agostini, sarà disponibile a settembre nei cinema italiani. Nel frattempo, Stefano sta girando l’Italia e l’Europa per mostrare Footballization al pubblico e far conoscere le storie dei suoi compagni di squadra. Ha intenzione di portare Footballization a “casa”, a Borj el Barajneh, da Louay, Yazan, Rami.

Questo articolo rappresenta il punto di vista dell’autrice, espresso a titolo personale