Raccontare storie, seduti attorno a un fuoco, attorno a un tavolino di un bar, in una tappa di un lungo viaggio. Nella tradizione del mondo arabo, le hikayat sono narrazioni orali, che passano di bocca in bocca, di padre in figlio, da una finestra all’altra di un piccolo vicolo o tra le strade di grandi città. Racconti che spesso diventano memoria collettiva.
Questo progetto nasce dall’idea di raccontare le storie di donne e uomini che hanno affascinato e, in qualche modo, unito il mondo arabo, un mondo composito e variegato, ma che troppo spesso viene semplificato con definizioni ancora cariche del retaggio coloniale. Ci sono state vite che hanno attraversato l’intera comunità di una lingua, l’arabo, diventando vere e proprie ‘icone’ – positive o negative, o entrambe le cose – per un periodo di tempo.
Per la prima serie di questo progetto di podcast, sono stati scelti cinque personaggi, a cui verrà dedicata un’intera puntata, e che saranno raccontati in forma biopic narrativo: la vita, le azioni nel e del tempo, ma anche e soprattutto il loro lascito e la loro influenza nell’immaginario e nella quotidianità di oggi.
La prima serie racconterà le vite di Jamal ‘Abdel Nasser, Mu‘ammar Gheddafi, Samir Kassir, Fayruz, Ghassan Kanafani.
Jamal ‘Abdel Nasser è stato, per decenni, il simbolo di tutto quello che significava lotta al colonialismo. Leader del Movimento dei Paesi non allineati, la sua fama ha attraversato il tempo e lo spazio anche grazie alle sue levate populiste contro l’Occidente, e al suo sogno panarabista e laico. Ma Nasser, presidente egiziano dal 1954 al 1970, è stato anche il principio di una serie di dinamiche che oggi hanno sprofondato l’Egitto in una cupa dittatura. La sua ‘icona pop’ – creata grazie a un utilizzo abile e spregiudicato di radio e cinema – è ancora oggi presente in tutto il mondo arabo, ma i mutamenti e le trasformazioni in atto in quelle società stanno finalmente portando alla luce gli errori e le contraddizioni personali e politiche di questo mito rimasto per decenni indiscusso.
Mu‘ammar Gheddafi, mentre viene trascinato dai ribelli, poco prima di essere ucciso, è rimasto impresso a molti, al punto che la sua fine ha offuscato oltre 40 anni da leader feroce in patria e da ambiguo protagonista all’estero. Il ra’is libico si è raccontato anche attraverso le mutazioni del suo fisico, dal giovane e affascinante ufficiale che guida il colpo di Stato in Libia fino al satrapo, a volte grottesco, con il volto segnato da operazioni estetiche e vestito con tuniche argentate e sbrilluccicanti. I suoi disegni politici sono stati assolutamente coerenti con il suo personaggio: dalla proposta di spartizione della Svizzera, per punirla di aver messo in galera suo figlio, alla richiesta all’Italia – come risarcimento – delle Isole Tremiti, dove erano stati confinati migliaia di libici durante l’occupazione italiana. Ma Gheddafi è stato anche il propugnatore dell’idea di un’Africa unita e di un socialismo in salsa araba che, tra mille e profonde contraddizioni, è diventato leggenda.
Samir Kassir è morto nel 2005, a Beirut, ucciso da una bomba posta sotto la sua auto. Ancora oggi nessuno è stato condannato per il suo omicidio, un’impunità che è metafora di un Libano e, per certi versi, di un Medio Oriente che restano sempre senza giustizia. Samir Kassir, divenute celebre grazie al suo capolavoro, L’infelicità araba, tradotto in molte lingue, è stato giornalista e scrittore. Ma soprattutto Kassir è stato un intellettuale vero, capace di essere una voce critica, all’interno e all’esterno del suo mondo, rifiutando sempre le logiche del confessionalismo, un morbo che dilania il Libano e il Medio Oriente da decenni. Una voce libera, scomoda, perché non allineata, che è diventata il simbolo di un mondo intero che tenta di raccontarsi, perché non viene raccontato mai abbastanza.
Fayruz significa ‘turchese’, ed è il nome d’arte di Nouhad Haddad, ottantaseienne star della musica araba. Libanese di nascita, ha portato la melodia struggente delle sue canzoni nei templi della musica di tutto il mondo: la Royal Albert Hall di Londra, l’Olympia di Parigi, la Carnegie Hall di New York, la MGM Grand Garden Arena di Las Vegas. Il suo sodalizio artistico con i fratelli Rahbani (dei quali Fayruz sposerà Assi) dà inizio a un periodo d’oro per la musica araba, in cui la voce di Fayruz arriva a toccare le corde dell’anima di persone differenti per età e cultura, dal Marocco al Golfo Persico. Ma a metà degli anni Settanta, per il suo Libano inizia l’inferno, finisce quell’età dell’oro che aveva portato il Paese a essere definito – forse troppo superficialmente – la Svizzera del Medio Oriente. A questo punto Fayruz diventa la voce del dolore di una guerra fratricida, e la nostalgia per quel sogno di un Libano di tutti che si dilegua in una terra divisa.
Ghassan Kanafani è stato un giornalista e uno dei più importanti scrittori palestinesi, ucciso a Beirut, nel 1972, da una bomba piazzata sotto la sua auto dai servizi segreti israeliani. Molte tappe della sua esistenza coincidono con quelle del lungo e tragico cammino del suo popolo: dalla condizione di esule in Siria, Kuwait e Libano, all’impegno politico che lo porta a diventare uno dei leader del Fronte Popolare di Liberazione della Palestina, partito di ispirazione marxista. Nonostante il fisico debilitato dal diabete, diagnosticatogli da bambino, Kanafani continua anche la sua carriera di scrittore, dando alle stampe quelli che possono essere considerati due capolavori della letteratura araba, Uomini sotto il sole (1963) e Ritorno a Haifa (1970). Politico integerrimo, narratore della tragedia del popolo palestinese, Ghassan Kanafani è l’emblema di quella coerenza intellettuale che oggi va così poco di moda… Solitudine, amarezza e disillusioni sono però il prezzo pagato dallo scrittore per questo strenuo impegno, come lui stesso ha più volte raccontato nel bellissimo carteggio con la sua amante, la scrittrice Ghada al-Samman. Dopo quasi cinquant’anni dalla sua morte, il volto e le parole di Ghassan Kanafani trovano ancora spazio sui muri delle città arabe e dei campi profughi palestinesi, come simbolo di una lotta interminabile per la giustizia e la libertà.