Le improvvide, per usare un eufemismo, dichiarazioni di un ministro dell’attuale esecutivo italiano rispetto a Hizbullah e alla situazione del Libano meridionale hanno riportato l’attenzione su un teatro che – in qualche modo – riguarda l’Italia e la sua politica estera.
Quel Libano che, dagli anni Ottanta, ha visto operare una forza internazionale della quale – storicamente – un contingente italiano fa parte. Quel Libano che, dopo la drammatica guerra civile che devastò il paese dalla metà degli anni Settanta fino al 1990, nel 2006, ha conosciuto una nuova estate di guerra. Quel Libano che, da anni, è il teatro operativo e identitario del ‘Partito di Dio’, Hizbullah, pilastro dell’asse che unisce Teheran al Mediterraneo, passando per il regime di Damasco.
L’importanza – non solo nella regione di appartenenza – di questo movimento allo stesso tempo politico e militare va ben al di là delle dichiarazioni del parvenu di turno della politica. Un libro, edito da Vita e Pensiero, aiuta a capire perché; Hizbullah e la mimesi strategica è il frutto del lavoro sul campo della ricercatrice Marina Calculli, studiosa di relazioni internazionali e sicurezza in Medio Oriente, attualmente lecturer in Middle East Politics presso l’Università di Leiden in Olanda.
Questo lavoro è uno strumento, per cogliere dinamiche particolari, come appunto la capacità di Hizbullah di farsi attore politico determinante nello scenario libanese, e per cogliere dinamiche generali, come quelle nate da quella global war on terror che, dal 2001, assedia i nostri diritti e le nostre sicurezze.
Un lavoro importante, per cogliere quelle connessioni che un racconto declinato al presente, quando si parla di Medio Oriente, sempre meno permette di avere una visione d’insieme del quadro come somma degli errori che – come una coazione a ripetere – si continua a commettere.
“Come si spiega la resilienza di Hizbullah? Come il ‘Partito di Dio’ ha impedito ai suoi rivali di disarmare la ‘resistenza’ nonostante i protratti tentativi di sciogliere la sua organizzazione militare? Questo libro cercherà di rispondere a queste domande, proponendo una concettualizzazione teorica dell’azione di Hizbullah in termini di ‘mimesi strategica’. La tesi del libro sostiene che Hizbullah resista e addirittura si rafforzi rispetto allo Stato del Libano e agli stati rivali della comunità internazionale, mimandone la prestazione e appropriandosi del loro linguaggio normativo e morale”.
Un’analisi lucida, profonda, che permette di capire come un movimento locale, che nasce durante la guerra civile libanese come elemento di autodifesa comunitario, si rafforzi a tal punto – influenzando e venendo influenzato dalla rivoluzione iraniana – fino a diventare un attore di quella stessa comunità internazionale che condanna Hizbullah, ma che non riconosce in esso un suo prodotto.
“La stigmatizzazione della comunità internazionale di Hizbullah […] si fonda sull’antinomia di Hizbullah rispetto allo Stato, alla sovranità del Libano, alla comunità internazionale, alla legittimità e alle norme che governano il sistema internazionale”.
Per molti anni una narrazione dominante ha preferito non guardare alle cause, per concentrarsi sulle conseguenze, che nascevano da quelle cause. E se questa dinamica non verrà mutata, giorno dopo giorno, sarà destinata ad aggravare il suo bilancio di instabilità.
Un processo simile in tutto e per tutto a quello che ha riguardato il Libano. Prima le necessità della Francia, poi quelle dell’Europa e degli Stati Uniti, passando per quelle d’Israele, sono state fatte passare per necessità universali.
Questo ha finito per legittimare come attore politico istituzionale un movimento che nasce come anti – istituzionale. Questo ha finito per ribaltare le logiche morali della comunità internazionale, che non riesce a definirsi per quel che è, cioè un gruppo di potere che disegna gli equilibri che gli sono necessari. Questo, alla fine, ha garantito la legittimazione morale al suo nemico.
Questa ricerca è preziosa per come riesce a cogliere nell’enorme specificità della storia di Hizbullah una dinamica regionale prima e globale poi. Una retorica del potere che, nel tentativo di rendersi morale, rafforzava i suoi ‘nemici’.
“Questa retorica è stata spinta alle estreme conseguenze nel contesto della global war on terror iniziata nel 2001. La guerra contro Hizbullah è stata combattuta a colpi di misure giuridiche, atti, istituzioni e strumenti normativi con l’obiettivo più o meno esplicito di delegittimare il ‘Partito di Dio’ dall’alto e dall’esterno, legittimando lo Stato libanese e investendo l’esercito libanese di smilitarizzare la ‘resistenza’.”
E così, dopo gli attacchi a New York, Hizbullah diventa un ‘nemico’ peggiore di al-Qaeda, ma oggi, dopo un lungo giro, il movimento finisce per usare lo stesso glossario della guerra al terrorismo – che gli ha permesso di serrare le sue fila sotto pressione almeno quanto le scellerate campagne militari israeliane nel Libano meridionale – per giustificare il suo intervento a difesa del regime di Assad.
Un potere che, nel tentativo di far passare per universali quelle che sono necessità assolutamente particolari, definisce sé stesso come etico e giusto; che indica i nemici di cui ha bisogno per legittimarsi, ma che proprio lui ha contribuito a creare, fornendo a questo nemico la stessa sintassi narrativa per legittimarsi a sua volta. Come due elementi che si generano e si legittimano a vicenda.
Un circolo vizioso che, da decenni, come un serpente, si stringe attorno al Medio Oriente, soffocandone la società civile. Le conseguenze di politiche di questo processo, dopo un lungo giro, sono alla fine arrivate nel cortile di casa di quel sistema istituzionale che ha manipolato la realtà, usando la morale. Quel sistema che oggi si trova di fronte alla sua mimesi, anche se la racconta come antitesi.