di Christian Elia
Dieci anni, in fondo, sono un soffio. Quelle che sono state chiamate rivolte arabe, non tenendo conto che il mosaico di popolazioni del Nord Africa e del Medio Oriente è molto più complesso di così, non saranno diventate estate, ma non sono neanche solo inverno.
In fondo la primavera è quella stagione di passaggio che milioni di giovani, dal Marocco al Golfo Persico, hanno esploso come un urlo collettivo, un ruggito da disperati, una prova di esistenza in vita.
Al quel 2011 si arrivò in modi differenti, che però sono importanti. Le riforme economiche, in tanti dei paesi che furono poi interessati dalle rivolte, avevano – in senso liberista – reso ancora più misera la vita di milioni di persone.
Allo scontento della gente comune, che in fondo si rivolge spesso solo alla politica del pane e della benzina a prezzo calmierato, in una sorta di patto sociale con dittatori troppo potenti e amici dei governi occidentali, si aggiunse la rabbia dei giovani, più politica, più istintiva.
Perché una parte di mondo sembrava destinata, nelle narrazioni occidentali, a una sorta di destino: o con i dittatori o nel caos. Perché? Di base questa è stata sempre una narrazione comoda per chi quelle situazioni non aveva alcuna voglia di affrontarle.
Dopo il 2001 la ‘guerra al terrorismo’ aveva squassato la regione: il collasso degli stati, Iraq su tutti, si era aggregato a un percepibile aumento delle repressioni dei diritti umani e civili in tanti stati che – d’improvviso – diventavano campioni della ‘lotta al terrorismo’.
Nessuno, dopo anni, è riuscito meglio di Samir Kassir, nel suo libro L’infelicità araba, a raccontare quella sensazione di claustrofobia: generazioni che – come una tara – si trasmettevano il senso d’impotenza verso il potere, la paura, la censura, la brutale repressione. E questo malinconico andare, con la memoria e il racconto, all’età dell’oro del mondo arabo, era una prigione anche quella.
Intanto, però, mentre si stringeva il cappio attorno a qualsiasi forma di dissenso, una generazione di giovani bolliva. E quando a loro si unirono larghi strati delle società impoverite, dalla Siria alla Tunisia, dall’Egitto allo Yemen, la miscela si fece esplosiva.
La vittoria elettorale, nel 2008, di Barack Obama come presidente degli Stati Uniti d’America segnò un nuovo corso – almeno nelle dichiarazioni – sancito dal suo discorso all’università al-Azhar del Cairo: “Basta con le guerre, la democrazia non si esporta con le armi. Giovani arabi, prendete in mano il vostro destino.”
E per le primavere arabe un esempio arriva da chi arabo non è, ma condivide la stessa rabbia: l’Iran esplode. Una battaglia feroce, un prezzo altissimo, ma per la prima volta accade quello che nessuno avrebbe mai immaginato. E non sarà l’ultima.
In Avenue Bourghiba a Tunisi, in piazza Tahrir al Cairo, non sono poche le volte che mi sono sentito ripetere che quelle parole erano state importanti, per molte persone.
A dicembre 2010, un venditore ambulante subisce l’ennesima umiliazione in Tunisia. Reagisce come vorrebbe – a volte – reagire un popolo, un mondo intero, quando l’impotenza è troppo feroce: s’immola. E’ stato molto dibattuto quanto questo gesto sia stata una reale scintilla e quanto no, ma la verità è che da anni, in molti luoghi della regione, si combattevano battaglie di dignità.
La concatenazione degli eventi, con la caduta e la fuga di Ben Alì prima e le dimissioni di Mubarak poi in Egitto, tra gennaio e febbraio 2011, sono stati un processo complesso, che non si può liquidare in un’unica dimensione.
Non sono stati solo i social network, non sono state solo alcune potenze straniere, non son stati solo i Fratelli Musulmani e al-Jazeera: le rivolte sono tali perché mille interessi e mille fattori si intersecano, in un dato periodo, in un dato luogo.
Ancora oggi si è in perenne equilibrio tra improbabili bilanci, nefaste campane a morto e dietrologie imbarazzanti. Nessuno di questi fattori è esaustivo, nessun bilancio ‘finale’ è possibile.
Il processo è in atto. Molti di quei ragazzi sono morti, molti sono in carcere, molti si sono arresi. Ma il processo, quello che per la prima volta ha dimostrato che ribellarsi era possibile, e anche giusto, è vivo.
E’ vivo in Siria, in Libia e in molti altri luoghi. Giudicare oggi come morto un processo che all’epoca è stato magari sopravvalutato nei risultati immediati, finisce per essere un nuovo errore.
Questo speciale nasce per tenere assieme una selezione dei racconti sul campo di quei giorni, passando per analisi di medio e lungo periodo, passando per un autoracconto che, mai come dopo quei giorni, ha rivoluzionato anche il giornalismo.
Quella generazione, tra le tante legittime richieste, aveva anche quella di diventare finalmente soggetto del racconto, non più solo oggetto di milioni di reportage pieni di stereotipi, di orientalismi, che in quei giorni – se possibile – peggiorarano ancora, con tanti che si sono improvvisati in una zona calda e complessa come il Nord Africa e il Medio Oriente perché ‘vendeva’.
Quelle vite, però, non sono in vendita. Quelle rivolte vanno rispettate e aspettate, perché hanno seminato straordinarie speranze che fioriranno, prima o poi. Perché se c’è una certezza è che la libertà è una sbronza, non è facile da gestire, quando vieni da decenni di repressione e propaganda. Una generazione ha ucciso il ‘padre’, l’idea stessa di uno Stato padre-padrone. L’idea che si può fare è più forte della rivoluzione stessa e nessuno la può fermare.
Relativo a una coppia o diade: in logica matematica, si dice di relazione binaria, in semiotica, un segno che vede in gioco due elementi, nelle discipline psicologiche, indica un rapporto o relazione fra due persone o una interazione tra due aspetti psicologici e/o culturali. A cura di Christian Elia, una serie di interviste, voci dalle piazze in rivolta, di Medio Oriente, Nord Africa e dintorni.
Tra il mare e il deserto
La resistenza del popolo saharawi
Egitto, tra coloro che sono sospesi
Una voce da piazza Tahrir, dieci anni dopo
L’Algeria ai tempi dell’Hirak
Il movimento di protesta ha ottenuto che Bouteflika non si ricandidasse, ma non è più disposto ad accontentarsi
Iran, il potere e la società
Le voci della società civile che, tra mille difficoltà, non molla
Iraq, riprendersi il futuro
Intervista a una delle attiviste che ha preso parte al movimento di protesta che ha sfidato una brutale repressione in piazza
Questo sangue scorre con gioia
Per purificarmi dall’odio
Credimi, bastonate dopo bastonate
Il sogno si fa più grande dentro di me
Ed è la tua prigione a restringersi, non la mia
I versi di Idrabni (Picchiami) appartengono a una canzone di Ramy Essam. Arrestato il 9 marzo 2011, durante un rastrellamento al Cairo, venne trattenuto e torturato nel Museo Egizio della capitale egiziana. Ramy era uno dei tanti ragazzi scesi in piazza a febbraio di quell’anno unico e, forse, irripetibile. Ramy è uno dei ragazzi di piazza Tahrir al Cairo. E questa è la sua storia.
La recensione di Christian Elia di ArabPop – Arte e Letteratura in rivolta nei paesi arabi, a cura di Silvia Moresi e Chiara Comito
In questo giorno, dieci anni fa un fruttivendolo tunisino si diede fuoco nella città Sidi Bouzid, facendo scoppiare la Primavera Araba. Il cugino, Ali, in un articolo recentemente pubblicato da Aljazeera ripensa a quel giorno e ai giorni che sono seguiti.
“Il 17 dicembre sarebbe stato un giorno come tutti gli altri se la stampa e le persone non fossero state lì” racconta Ali Bouazizi. “Il fatto che abbiano deciso di smettere di essere spaventati dal governo ha cambiato tutto”.
Il racconto completo in questo articolo di Aljazeera.
Rivoluzioni violate è il risultato di uno sforzo collettivo che riflette sullo stato delle rivoluzioni nordafricane e mediorientali a cinque anni dalle stesse, mettendo in luce come le forze della contro-rivoluzione abbiano avuto successo nell’eliminare, addomesticare, reprimere coloro che, dal basso, si sono agitati in Nord Africa e Medio Oriente chiedendo giustizia sociale, dignità e libertà.
Ecco l’articolo completo dal nostro archivio, la recensione di Paola Rivetti
Dieci anni fa, un giovane tunisino, Mohamed Bouazizi, si è dato fuoco per protestare contro le sue condizioni economiche e sociali, scatenando una serie di rivolte e rivoluzioni arabe. In seguito è diventata nota come la primavera araba e ha portato alla caduta dei dittatori arabi in Tunisia, Egitto, Libia e Yemen.
Mentre alcuni ritengono che la primavera araba non sia riuscita a raggiungere i suoi obiettivi, in particolare l’instaurazione di governi liberi e democratici, ci sono stati molti vantaggi, tra cui la destituzione dei capi di quattro potenti regimi autoritari: Zine El Abidine Ben Ali in Tunisia, Hosni Mubarak in Egitto, Muammar Gheddafi in Libia e Ali Abdullah Saleh in Yemen.
Gli eventi dell’ultimo decennio hanno rivelato che i costi dell’autoritarismo e del rifiuto del cambiamento politico sono molto alti, ma i regimi che bloccano le riforme sono disposti a pagare un prezzo pesante per rimanere al potere.
Leggi l’articolo completo di Khalil al-Anani su MiddleEastEye
Il reportage di Christian Elia pubblicato nell’aprile del 2011, vincitore del Premio Baldoni e del Premio Giornalisti del Mediterraneo, per la rivista E – il mensile
Clicca qui per leggere il reportage
di Luca Manunza
Prima forma di controcondotta:
l’affermazione di un’escatologia
in cui la società civile prevarrà sullo stato.
- Foucault -Corso al Collège de France (1977-1978)-
“Ti viene dato da mangiare, perché gli stati
devono mantenere una maschera di bella
gente[1]”.
E’ il 17 di febbraio 2011 e, i “bollettini di guerra” battuti dalle agenzie stampa internazionali, si aprono annunciando l’ennesimo versante “rivoluzionario” del Maghreb, la Libia[2]. Il 17 febbraio “la giornata della collera”[3] ha segnato quella che molti operatori dell’informazione hanno definito come l’inizio della rivoluzione libica[4] contro il regime del colonnello Gheddafi. E’ in questo scenario che le truppe lealiste di Gheddafi iniziano una pesante offensiva contro la “Coalizione dei Volenterosi”[5]. Le cronache, in una storia costruita per fasi ci portano al 17 marzo 2011, esattamente un mese dopo, quando una risoluzione ONU chiede alla Libia un immediato cessate il fuoco e, l’istituzione immediata di una no fly zone su tutto il territorio. Due giorni dopo, il 19 marzo 2011, inizia L’odissey Dawn[6], che vede in primis Stati Uniti, Francia, Inghilterra, (successivamente anche l’Italia) impegnati nei raid aerei contro il rais, e -come spesso già accaduto in passate situazioni- contro i civili libici e i migranti presenti sul territorio[7]. Queste sono le linee esemplificative e generali del clima che circonda la “primavera araba” Tunisina, paese in fase di ipotetica stabilizzazione con ai suoi confini l’inizio di un nuovo conflitto. L’antefatto è utile per contestualizzare e narrare alcune storie che da mesi sono nate nel sud ovest della Tunisia, trampolino di lancio delle moderne rivolte o di una cosiddetta “seconda indipendenza democratica”[1]. Molte delle storie raccolte sono quelle dei civili fuggiti in Tunisia dalla Libia all’alba del conflitto e, accanto ad esse ho tentato di incrociare un ragionamento in merito ai meccanismi di funzionamento dell’intervento umanitario in aree di conflitto che, apre proprio in quel periodo a cavallo tra il febbraio e il marzo 2011 uno dei più grandi campi profughi del Maghreb, nella provincia tunisina di Ben Gardane.
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NOTE
[1] I dati ricavati dalle tabelle fornite dall’Istituto nazionale di Statistica della Tunisia. Vedi sito internet: http://www.ins.nat.tn/fr.
[1] Estratto d’intervista realizzata nel campo profughi di Choucha a Slim nel mese di Marzo 2011.
[2] Il NY Times inserisce in prima pagina la notizia: http://topics.nytimes.com/top/news/international/countriesandterritories/libya/index.htm.
[3] Come “giornata della collera” s’intende la data in cui la cittadinanza decide di convocare manifestazioni sit-in di protesta e occupazioni su tutto il territorio nazionale libico. Successive esperienze simili si sono avute nei mesi successivi in Arabia Saudita e Bahrain ad esempio. Cfr. sito internet: http://www.asianews.it/notizie-it/Ryadh-blindata,-la-%E2%80%9Cgiornata-della-collera%E2%80%9D-saudita-soffocata-dai-controlli-21006.html.
[4] Sin da subito il concetto di rivoluzione è stato interamente condiviso e adottato dagli organi di informazione, la politica e l’opinione pubblica, per definire ciò che stava accadendo in Libia.
[5] La “Coalizione dei Volenterosi” libica è formata dalle milizie create dal “governo libico provvisorio” nella zona est del paese. Di formazione molto variegata, al suo interno si possono trovare numerosi cittadini di diverse classi sociali di appartenenza, molte della quale per la prima volta riunite all’interno di un’organizzazione politica militare.
[6] Denominazione che la sezione Africana del Pentagono ha dato alla missione in Libia.
[7] Questo tipo di missioni militari, inevitabilmente porteranno al sacrificio di un numero indeterminato di civili, vedi l’esperienza afgana e irachena. Non essendoci più “regole di reciprocità tra le forze belligeranti” il nemico è una figura molto generica, che si confonde con i civili. I costi umani di questo tipo di operazioni sono altissimi. È una delle tante forme di guerra asimmetrica, dove direttamente o indirettamente i civili sono in campo. Cfr. A. Dal Lago, Le nostre guerre, Manifestolibri, Roma, 2010.
di Silvia Moresi
Come sono state le vostre rivoluzioni? Che il mondo sviluppato ci spieghi come sono state le loro rivoluzioni”.
Salire in cattedra e insegnare agli “altri” come, quando e perché “scendere in piazza” è una pratica dura a morire, e che appartiene a diversi analisti e giornalisti occidentali; l’ultimo esempio è quello di Roberto Saviano che ha voluto spiegare alla comunità afroamericana degli Stati Uniti, che manifestava a seguito dell’uccisione di George Floyd, il bon ton del buon manifestante.
Lo stesso atteggiamento superficiale e pressapochista è stato spesso utilizzato dall’Occidente per raccontare le rivoluzioni arabe del 2011, senza conoscere coloro che scendevano in piazza e le loro ragioni.
Le parole qui riportare appartengono all’attivista e giornalista Samira al-Khalil, e sono state raccolte da suo marito, l’intellettuale Yassin al-Haj Saleh, in un libro oggi tradotto in italiano: Diario di Samira al-Khalil. Parole dall’assedio (MR Editori 2019, traduzione a cura di G. de Luca e S. Haddad).
di Christian Elia
Raccontare la guerra, da tempo, è diventato un mestiere complesso. Non che sia mai stato facile, ma il 2011 – con le rivolte arabe – ha segnato un punto di svolta, un concretizzarsi di una serie di dinamiche che si sono evolute nel tempo.
L’indebolimento sempre più forte del rapporto tra l’oggetto del racconto e chi se ne faceva mediatore è un processo rapido e doloroso. Tanti gli errori commessi, troppa la propaganda in campo, a partire dall’arruolamento politico – culturale seguito alla dichiarazione della global war on terror.
Dalle contestazioni del dicembre 2010 un genere estetico e politico, la street-art, si è impossessato delle strade e dello spazio pubblico tunisino, trasformandolo in un luogo in cui le creazioni artistiche e culturali prendono forma e veicolano un messaggio che arriva in maniera diretta ai cittadini.
Collettivi di writers, compagnie di danza, di teatro e di cinema hanno trasformato le piazze, le Medine e i souk di Tunisi e della Tunisia in un nuovo palcoscenico fruibile da tutti, per sensibilizzare la società civile all’arte, intesa come dovere cittadino.
Seguendo il lavoro di gruppi come Zwewla, Ghar-Boys, Break Art Studio, Brotha from Another Motha Company, Danseurs-Citoyens, Art Solution e altri, il documentario indaga su una nuova modalità di cittadinanza attiva nella Tunisia post-rivoluzionaria e sull’impatto che questa può avere, nell’attuale contesto instabile, sulla società tunisina, ed in particolare sulle giovani generazioni, diffondendo una cultura alternativa alle istanze più radicali del paese.
Un documentario di Gaia Vianello e Juan Martin Baigorria
Tre podcast, tre paesi, tre fasi di questi dieci anni.
1] Revolution (Egypt)
2] Counter Revolution (Lybia)
3] Whose Tomorrow (Syria)
Qui il link per ascoltare i podcast
Di Marta Bellingreri e Costanza Spocci
Un longform, con podcast, che raccoglie alcune voci dei protagonisti dei giorni d’insurrezione del 2011, che diventa anche un radio documentario per Radio Svizzera Italiana.
Leggi il longform su Internazionale
Ascolta il radio documentario su Radio Svizzera Italiana
Un decennio dopo le rivoluzioni, Joseph Fahim racconta come i registi hanno reagito agli eventi e si chiede se la vera storia delle rivolte sia ancora da raccontare
Leggi lo speciale di BBC
di Celeste Gonano
In scena ci sono quattro ragazzi e una sola domanda, ripetuta da ciascuno di loro: come va?
Inizia così Mouvma! Nous qui avons 25 ans!, il progetto teatrale del collettivo Corps Citoyen che ripercorre quelle prime settimane del 2011, in Tunisia, che poi hanno fatto infuocare anche i paesi del Nord Africa e non solo.
In scena, Saoussen Babba, Rabii Brahim, Ayman Mejri e Anna Serlenga parlano e si muovo sovrapponendosi alle immagini di quei giorni proiettate direttamente sui loro corpi.
A dieci anni di distanza, abbiamo chiesto a Rabii Brahim di raccontarci cos’è cambiato.
Qual è stato il tuo percorso fino a Corps Citoyen?
Ho frequentato l’Istituto Superiore di Arte Drammatica. Faccio l’attore da quando sono piccolo e da quando sono all’università lavoro nell’ambito del teatro, del cinema, della tv come professionista. Però sono sempre stato anche un attivista politico, anche prima dell’università. Questo percorso è continuato nella società civile come presidente dell’associazione Corps Citoyen che abbiamo fondato io, Anna e altri compagni, Corps Citoyen si occupa di arte partecipativa come disciplina di intervento culturale, sociale e politico.
Perché hai sentito l’esigenza di fare degli spettacoli che parlassero di politica e che raccontassero quello che succedeva?
Diciamo che prima lo facevo nelle mie attività, solo come attore. Poi facevo politica direttamente nell’università, nei sindacati, con i partiti politici per organizzare e fare azioni contro la dittatura, contro Ben Ali, per organizzarci per far uscire delle manifestazioni. Dopo il 2011 ho sentito l’esigenza di riprendere il mio posto come artista continuando però la mia strada per difendere la libertà dell’arte, ma anche tutte le altre liberà individuali…
Com’è nato Mouvma?
Mouvma – Nous qui avons encore 25 ans è nato come una riflessione sull’esigenza di cambiamento. Qual è il punto fino al quale ci si spinge prima dell’atto reale di cambiamento. In scena ci sono attori testimoni. Con Saoussen Babba, Ayman Mejri e Anna Serlenga abbiamo rimesso in scena alcuni punti di vista ed episodi di vissuto del 2011. Si tratta di un dialogo tra chi ha vissuto quanto successo nel 2011 e chi invece è nato e cresciuto in una democrazia. Una democrazia che, però, non funziona come dovrebbe.
Lo spettacolo inizia una domanda, ça va, come stai…
Il ‘come stai’ è il punto di partenza nella nostra ricerca. Come va, la prima risposta che viene in mente, quasi in automatico, è ‘va bene’… ma va bene veramente? Siamo sicuri? Non c’è qualcosa che vogliamo cambiare? Non c’è qualcosa che magari possiamo cambiare insieme?
Da quando avete messo in scena lo spettacolo per la prima volta, nel 2013, sono passati quasi 8 anni, cos’è cambiato – se è cambiato – qualcosa?
Sì, sicuramente sono cambiate tantissime cose. Alcune per il meglio, altre sono un po’ regredite per una volontà politica di mantenere in funzione alcuni meccanismi del vecchio sistema vecchio perché fa comodo così. Adesso la gente sta scendendo per strada perché non va bene nemmeno così. Dieci anni fa non siamo scesi in strada per far cadere una dittatura per poi tenerci un sistema così mafioso. La gente non accetta più che ci siano sempre i soliti politici che prendono soldi sempre dalle stesse (poche) famiglie per mantenere determinati interessi. Adesso per strada ci sono soprattutto i giovani, giovani che appartengono a una nuova generazione e che si occupano di fare protesta in maniera diversa da com’era nel 2011, sono molto più avanti. Sono generazioni meravigliose anche nelle forme delle proteste che fanno. Seguo le manifestazioni che si stanno tenendo per le strade e io sto dietro di loro, per sostenere ciò che fanno.
Questo vuol dire che il testimone di dieci anni fa è stato raccolto. Per le strade non scendono le stesse persone con dieci anni in più, ci sono nuove generazioni…
Sì, assolutamente. Si tratta di generazioni che dieci anni fa erano davvero giovani e adesso sono loro, in prima persona, a scendere in strada per difendere i propri diritti. Loro sono cresciuti in dieci anni di libertà, di rivoluzione… e questi giovani non torneranno indietro. Non accetteranno questo sistema mafioso che accusano tutti i giorni di corruzione e di ritorno alla dittatura dello stato di polizia. Ma anche il modo di confronto tra manifestanti e polizia è diverso. Le foto e i contenuti che girano mostrano che c’è arte, c’è bellezza, c’è vita… In strada ci sono generazioni coscienti di dove vogliono arrivare e della vita che vogliono fare.
Secondo te quindi c’è un terreno fertile per altri cambiamenti?
Sì, stanno già succedendo. Ci sono tantissimi altri come me, con i quali sono sceso in strada, che non sono entrati nel gioco politico attraverso un partito. Adesso siamo coscienti che il problema di base è politico. E per questo motivo il cambiamento non può che essere politico. Si tratterà quindi di organizzarci e di entrare in gioco per fare un’altra proposta e per parlare un linguaggio politico diverso. Oggi la gente, il popolo non accetta più nessuno, non gli piace nessun partito, né di destra, né di sinistra: non si sentono rappresentati da nessuno. E questo è un terreno fertile per fare una proposta politica diversa che parli davvero la stessa lingua del popolo.
Se scriveste oggi Mouvma cosa cambierebbe dalla versione di 8 anni fa?
Sono passati dieci anni e nella società civile c’è un terreno di azione fertile che ha mantenuto alto il livello delle lotte per le libertà individuali, di espressione. Questa è una condizione che prima non c’era. Non saprei di preciso come inserire questo aspetto nello spettacolo ma lo inserirei sicuramente. Mouvma poi metteva in scena un attore testimone, un attore cittadino. Adesso non saprei se parlare io in prima persona o se magari andare a chiamare uno dei giovani che oggi scendono in piazza, a proseguire la lotta, per portarlo in scena con me come testimone. Nel nostro percorso con Corps Citoyen vogliamo aprire un dialogo con i testimoni creando un percorso partecipativo. Crediamo sia importante passare il microfono e non fare da portavoce. Se c’è qualcosa che abbiamo fatto in Mouvma, e ad anni di distanza è un’esigenza artistica e politica che vedo per le strade di Tunisi, è quella di dare spazio alle testimonianze. Dare uno spazio alle persone per raccontare che vita vorrebbero, senza qualcuno che decida per loro. Chi è al potere adesso non assomiglia alla nuova generazione che scende per strada, parlano due lingue diverse. Ed è questo che abbiamo cominciato a fare con Mouvma e il famoso ça va?. Parliamo assieme, discutiamo assieme, capiamo che punto dobbiamo raggiungere prima di non poter più andare avanti e cosa dobbiamo fare. È questo che dice adesso chi è in strada.
Dieci anni dopo l’ondata di rivolte, l’auspicato risveglio non ha avuto luogo. Ma la scossa di assestamento del 2019 apre nuove prospettive. Dal Marocco allo Yemen, le persone aspirano ancora a un cambiamento radicale
Il dossier di Le Monde sulle rivolte arabe
In occasione del decimo anniversario delle “Primavere arabe”, sono appena usciti due libri che fanno ben sperare, contrariamente alle proiezioni almeno pessimistiche fatte sulla base dei dieci anni appena trascorsi. Dopo la seconda “primavera” del 2018-2020, gli autori vedono prendere forma una fase di apprendimento, segno che l’accumularsi delle rivolte permea i popoli e li ha cambiati per sempre.
Le recensioni di OrientXXI
Dieci anni dopo, la vita delle persone nei paesi della primavera araba è migliorata in alcuni aspetti ma è peggiorata in altri: i cambiamenti in Bahrain, Egitto, Libia, Siria, Tunisia e Yemen.
Lo speciale del Council on Foreign Relations
Può una singola persona ordinaria cambiare per sempre la storia? Certamente, Mohamed Bouazizi ci è andato vicino.
Il 17 dicembre 2010, Bouazizi, un venditore ambulante tunisino nato nel disagio economico, si è dato fuoco davanti all’ufficio del governatore provinciale di Sidi Bouzid. Questo per protestare contro l’ingiusta confisca del suo carretto; tecnicamente in applicazione della legge, ma praticamente un atto di repressione ingiusta, dato che il regime tunisino di allora, pieno di corruzione, aveva creato poche opportunità di libertà e prosperità per lui e per innumerevoli giovani del paese.
Lo speciale di The New Arab
Lina Attalah, per Mada Masr, e il suo editoriale per il decennale delle rivolte arabe.
Leggi l’editoriale su Mada Masr