Solo oggi, dopo più di sette anni, si iniziano a leggere testi che davvero riescono a riguardare ai fatti dell’insurrezione in Siria del 2011 contro il regime di Bashar al-Assad con la lente della complessità e della competenza.
Non che prima non siano state scritte cose degne di nota, anzi, ma inizia a esserci la distanza naturale per uno sguardo complesso, profondo. Non è ancora un bilancio, perché se sul piano militare (eccezion fatta per la ridotta di Idlib e per alcune enclavi ribelli) gli alleati di Assad hanno vinto, su quello politico e delle conseguenze il caso Siria non ha per nulla finito di riguardare la regione.
Alberto Savioli, archeologo, è uno di quelli che le cose degne di nota le ha sempre scritte, ma la pubblicazione del suo libro Allah, la Siria, Bashar e basta?, edito da Biancaevolta, è una di quelle riflessioni importanti, che mette assieme gli anni di vita personale, professionale e della rivolta. Storie piccole e grandi, intrecci, che solo chi ha frequentato la Siria fin dalla fine degli anni Novanta può fare.
Perché uno dei prezzi salati che il racconto delle rivolte arabe ha pagato è quello di tanti, troppi, che solo dal 2011 hanno iniziato a occuparsi di Siria (quando non proprio di Medio Oriente in generale) e, anche ponendosi con le migliori intenzioni di fronte a questa catastrofe umanitaria senza precedenti, han finito per non avere gli strumenti per mettere i fatti in connessione.
Non c’è bisogno di pensare a coloro che, spesso in cattiva fede, ma anche in buona fede, hanno scelto di tifare per una parte o per l’altra; bastano coloro che hanno ritenuto di potersi fare un’opinione guardando alle conseguenze di un processo politico, culturale, economico, storico che ha le sue radici – per certi versi – nel collasso dell’Impero Ottomano.
A Savioli si deve riconoscere l’onestà intellettuale e la curiosità, di chi ha vissuto per anni la vita quiotidiana di quell’inganno per i visitatori che è stata la Siria per molti anni. Inganno al quale anche Savioli non finge di non aver creduto. Eppure di inganno si trattava.
Solo chi ha frequentato la Siria poteva conoscere quella ‘repubblica della paura’ dove oltre quindici agenzie di intelligence si spartivano il mercato della morte, della tortura, della delazione. Il cui nume tutelare è il criminale di guerra nazista Alois Brunner, ospitato e protetto dal regime a Damasco fino alla sua morte.
Un viaggio che, da professionale e personale, diventa storico. Passando per le tappe chiave della storia recente del Medio Oriente. Da quelle globali, note a tutti, come l’11 settembre 2001 e la guerra al terrorismo, passando per l’invasione dell’Iraq del 2003 e l’omicidio di Rafik Hariri a Beirut nel 2005.
Ma passando anche per la grande siccità che dal 2005 al 2008 ha lasciato senza sostentamento masse contadine che si riversavano nelle grandi città, per le liberalizzazioni scellerate in economia dell’idolo dei rossobruni anticapitalisti: il dottor Assad.
Ad una narrazione ‘alta’, Savioli accompagna sempre un vissuto fatto di comunità beduine, piccoli villaggi, pastori e contadini. Un osservatorio privilegiato di quella crisi economica che, negli ultimi anni prima della rivolta, si è saldata alla violenza come sistema di governo di Assad padre prima e di Assad figlio dopo.
Della Siria non puoi capire nulla se non conosci le speranze della società civile al momento dell’elezione di Bashar al posto del defunto padre, che invece (il grande amico della Palestina) aveva massacrato 3mila profughi palestinesi in Libano, nel campo di Tall’Zatar in Libano – solo per stroncare l’influenza politica di Arafat – nel 1979, o che aveva massacrato non meno di 40mila civili a Homs, per punire la rivolta islamista, in un decennio che portò a scomparire nel nulla circa 17mila persone.
Il figlio, giovane, educato in Occidente, aveva rappresentato una speranza. Il Manifesto dei 99, che chiedeva solo la fine dello stato di emergenza e libertà civili e politiche, stroncato con arresti e botte. E il giovane Assad, campione del laicismo per molti sui ammiratori, è al timone mentre lo stato profondo siriano, nella persona di Alì Mamlouk, organizza i viaggi in Iraq dei combattenti.
Il campione degli anti-imperialisti che, nel 2005, dopo Hariri, fa assassinare l’intellettuale Samir Kassir a Beirut e molti altri, per non perdere l’influenza siriana sul Libano. O che arma nel 2007 Fath al-Islam, il gruppo di Shaker al-Absi, giordano palestinese detenuto in Siria fino al 2005 e poi mandato nel campo profughi di Nahr al-Barid per destabilizzare il Libano.
E non lo dice Savioli, o qualche think tank di Washington, ma Abd al-Halim Khaddam, ex vicepresidente siriano, o il generale Manaf Tlas, alto papavero militare del regime.
Una storia lunga, che ricorda quella di tanti attori regionali, che con il fondamentalismo hanno giocato a seconda dell’agenda politica, senza volutamente pensare alle conseguenze.
Savioli, con la precisione di chi è abituato a maneggiare nomi e date, mette assieme. Mette assieme la figura di Abu al-Qa’qa’, una di quelle figure di islamista radicale passato dalle carceri di Saydnaya, Tadmur (Palmira), Mazza, Adra, per poi essere ritirato fuori quando faceva comodo.
Perché questo regime, campione del laicismo, ha lasciato andare tra il 2011 e il 2012 tanti di quelli che poi sarebbero diventati i ‘tagliagole’ che l’Occidente ha accettato di combattere sulla pelle di persone che nessuno vi racconta.
Mazin Darwish, Michel Kilo, Riyad al-Turk, Mash al-Tammu, Burhan Ghalyun, Anwar al-Bunni, il dentista Ahmad Tu’mi, il fisico Fida’ al-Hurani, lo scultore Talal Abu Dan, Alì Ferzat, vignettista satirico, il cantante Ibrahim Qashush, Yahya Sharbaji ,Gghiyath Matar, Muhammed Dibu, Abu Maryam, Abdulla Yasin e i ragazzi di Raqqa is being Slaughtered Silently, come Raqayya Hasan, Razan Zaytuna.
Il regime aveva loro come veri nemici. Le anime disarmate della rivolta che, come lo stesso Assad ha ammesso più volte, più o meno fino alla fine del 2011 è rimasta non violenta e che anche dopo ha provato forme di autogoverno e di democrazia, ha provato a lottare contro Daesh e gli altri.
A Savioli va il merito di aver aggiunto, grazie al suo percorso, un’analisi attenta del fattore beduino nella storia di una frontiera che esiste solo nei disegni coloniali prima e nazionalisti poi. Di aver raccontato, da testimone diretto, gli effetti della siccità e della scriteriata politica economica di Assad, senza mai cadere in descrizioni edulcorate o innamorate dell’una o dell’altra parte.
Ma anche e soprattutto, a Savioli, va il merito di aver tenuto memoria delle storie di chi ha solo inseguito un sogno, per non dimenticarli e per non ucciderli di nuovo, per non lasciare al regime anche la possibilità di riscrivere la storia.