In sociologia, una diade (dal greco: δυάς – Dyas, “coppia”) è un gruppo di due persone, il più piccolo gruppo sociale possibile. Come un aggettivo, “diadica” descrive la loro interazione.
Diadiche è un progetto che nasce con la volontà, nel formato dell’intervista, di interagire con l’anima in rivolta del Nord Africa e del Medio Oriente. Diadiche, ciclicamente, sarà un confronto con persone comuni che partecipano ai movimenti per la dignità e il cambiamento che non sono cessati nel 2011, anzi, che ne rappresentano lo spirito più forte: si può fare.
Ecco che, protette dall’anonimato quando sarà necessario, senza essere leader o volti e nomi conosciuti, si rintracceranno (per lasciare traccia) voci, vite e storie di persone che non si sono arrese al giudizio dei media e delle analisi d’Occidente. Non era primavera, nel 2011, ma non è rimasto solo inverno oggi. Buona lettura, perché queste persone lottano per le loro idee in contesti difficili e meritano di essere ascoltate.
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“Mi manca un sogno. Tra tutto quello che mi manca, un sogno è quello che più di ogni altro ha lasciato un vuoto. I miei nonni avevano il sogno di tornare a casa, stringendosi attorno alle chiavi arrugginite delle loro vecchie case, i miei genitori hanno sperato che il processo di Oslo fosse realtà, bastava avere pazienza. La mia generazione ha sognato di prendersela la libertà, a qualsiasi prezzo. Ecco, guardo i miei figli e vorrei avere un sogno per loro. Non ce l’ho, e non riesco a capire cosa possano sognare. Che puoi vivere la nostra vita se non hai un sogno? La Palestina è sempre esistita nei sogni della sua gente: di cosa vivrà la Palestina dei miei figli?”
Qusay parla un perfetto italiano, ha studiato a Perugia. Qusay ha lavorato per anni come insegnante, Qusay ha fatto la sua battaglia, come tutti i palestinesi. La sua è la generazione di coloro che avevano venti anni nella Seconda Intifada. Ha pagato il suo sogno, a caro prezzo.
“Guardavo mio padre, vecchio militante del Fronte Popolare, litigavamo ogni giorno. Mia madre piangeva, noi urlavamo in cucina. Lui e la sua visione del mondo, venti anni fa sembrava che Hamas fosse il suo nemico più d’Israele. Oggi mio padre è morto e gli vorrei chiedere scusa, perché su Hamas aveva ragione. Non che io all’epoca fossi dei loro, anzi, ma dopo la passeggiata di Ariel Sharon sulla Spianata delle Moschee nel 2000, ero furioso, come tutti quelli della mia vita. Gli urlavo che poteva metterselo nel culo il processo di Oslo, lo avevano ingannato, era tempo di prendersela la libertà. Aveva ragione lui, ci siamo fatti massacrare: eravamo convinti che si sarebbe arrivati a una soluzione. Non è accaduto.”
Qusay viene sorpreso dal 2011, ferito, ma vivo. “Guardavamo a bocca aperta la televisione, non credevamo ai nostri occhi. Il solo fatto che si potesse fare, era un miracolo. Noi avevamo i nostri Ben Alì, i nostri Gheddafi. La cricca di Fatah e dell’OLP, ai nostri occhi, non erano molto diversi. Si legittimavano con l’occupazione israeliana, che invece era il loro principale alleato: avevano venduto le nostre vite per il loro potere. E Hamas era diverso, ma in fondo anche loro si erano presi la Striscia, avevano spaccato il popolo palestinese, per consolidare il loro potere. Erano meno corrotti di Fatah, almeno all’inizio, ma la logica del potere era lo stessa. Ci organizzammo, noi più grandi e i più giovani, il movimento Gybo è stata la nostra primavera. Non così di massa come in altri paesi, perché molti erano legati a logiche quasi claniche di appartenenza ai partiti tradizionali, per questioni a volte di famiglia, ma c’eravamo anche noi e – dopo molti anni – Gaza e Cisgiordania avevano una piattaforma di giovani che chiedevano le stesse cose. Ci hanno massacrato e per una volta non sono stati gli israeliani, ma Hamas e Fatah, che ci hanno arrestato, pestato. E nel caso di Vittorio Arrigoni e di Juliano Mar Khamis, a Jenin, hanno anche sparato. Ne sono certo. Oggi, nel decennale delle rivolte arabe, leggo speciali e dossier e a volte penso che non abbiamo neanche la consolazione di essere ricordati”.
Qusay non è sorpreso dall’ennesimo eccidio. “A Sharon è riuscita la più grande operazione narrativa della storia. Ha colto cosa stava accadendo nel mondo dopo l’attacco alle Torri Gemelle. E’ riuscito a ribaltare la situazione, a far passare la resistenza palestinese per terrorismo, invece che per quella lotta di liberazione dall’ultimo sistema coloniale, di apartheid, di occupazione militare del mondo. Netanyahu ha completato l’opera, pronto a tutto per il potere, ha reso istituzionali gli istinti peggiori della società israeliana. Noi siamo qua, stanchi, divisi. Molti, in Cisgiordania, non hanno più tempo. Vogliono vivere. Hanno visto passare tutti i loro sogni, hanno una sola vita. La accettano e vengono a patti con una realtà dura. Questo ha finito per mettere i palestinesi gli uni contro gli altri. Un po’ di beni di consumo e di relativa calma, senza dignità, ha spento molte persone. E quelli dei campi profughi, invece, non hanno niente da perdere e sono sempre più feroci e divisi dal resto della società”.
Quello che non esiste più, in Palestina, è una prospettiva. Né nazionale, perché son sempre di più quelli consapevoli che il sogno di uno stato indipendente è lacerato, né internazionale, perché il potere narrativo di Israele riesce orami da tempo a manipolare il discorso portandolo lontano dal suo cuore: il rispetto dei diritti umani. Tutto il resto, ma proprio tutto, verrebbe dopo, ovunque.
Qusay è sceso in strada, comunque, rispetto a quello che accade oggi. “Non riesci a non farlo, anche se hai il cuore pesante. Stanno massacrando la gente di Gaza, come sempre. Hamas ha voluto esserci nella lotta per Gerusalemme, dove per lotta non si intende un movimento politico nazionale e internazionale, ma solo delle famiglie che resistono con la disperazione a un’espulsione ignobile. Nessuno dei governi europei o internazionali ha detto con chiarezza di fermare le espulsioni, ma siete là a fare sermoni sulla complessità. La complessità è una famiglia assediata da coloni che vogliono la loro casa, è qualcosa di primitivo, feroce, violento. Ma non vedete quello, non volete.
Vedo ragazzi senza sogni, ma solo pieni di rabbia, che si fanno massacrare. L’hanno chiamata intifada dei coltelli, a un certo punto, a me sembravano sacrifici rituali. Corpi vuoti che si fanno abbattere per dare con la morte un senso alla vita. Guardo i miei figli e spero che abbiano un loro sogno, non so quale sarà. Ma una vita senza sogni non val la pena di essere vissuta, in Palestina o altrove. Di una cosa, però, sono convinto: certe vite non le puoi capire se non ne porti il peso”.