Canto la piazza elettrica

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10 Febbraio 2022

Il libro di Marina Petrillo a dieci anni da piazza Tahrir

Al centro di piazza Tahrir, al Cairo, oggi svetta un obelisco del faraone Ramses II, risalente al tredicesimo secolo AC, circondato da quattro sfingi portate da Luxor. Oltre la rotatoria, resa immortale dalle immagini del 2011, una serie di palme e lampioni finiscono quasi per celare, dissimulare, lo sguardo e la fruizione pubblica dello spazio. Una ristrutturazione che la scrittrice egiziana Yasmine el Rashidi ha chiamato “il saccheggio del Cairo”, ma che ha anche e soprattutto a che fare con la cancellazione della memoria.

Canto la piazza elettrica, di Marina Petrillo, è un oggetto narrativo non identificato. Un libro, un reportage, un memoir, è un documento fondamentale. Perché tiene traccia, crea connessioni, nel tempo e nello spazio, tra temi e storie, tra protagonisti principali e secondari, ma non meno importanti.

Marina quella piazza l’ha camminata, l’ha annusata, l’ha guardata. Ed è questo che, ancora oggi, in fondo, fa la differenza nello scrivere e nel raccontare. Canto la piazza elettrica, per quanto mi riguarda, è il primo prodotto narrativo che è figlio di un cambiamento epocale, uno dei tanti, che dobbiamo – tutti – a quella piazza del Cairo, nei feroci, favolosi, dolci e disperati giorni a cavallo tra gennaio e febbraio del 2011.

Perché anche per me, che in quella piazza entrai il giorno della ‘carica dei cammelli’, il 3 febbraio 2011, e ne uscì qualche giorno dopo la proclamazione delle dimissioni di Mubarak, è stata una trasformazione senza fine.

Dal punto di vista del giornalismo, dell’inviato, segnava l’irruzione dell’autoracconto. L’oggetto del reportage, finalmente, reclamava il suo diritto a diventare soggetto della narrazione. Con l’arte, con il corpo, con la rete. L’autrice ha avuto la prontezza di cogliere il momento, ma allo stesso tempo di capire che serviva un respiro profondo, lento, per raccontarne la portata.

Ecco che milioni di tweet diventano letteratura e politica, diventano racconto e documento, testimonianza ed esempio.

Sono più di dieci anni che si continua a celebrare il funerale delle rivolte arabe, ma i ‘semi di Tahrir’ sono senza fine e il libro è capace di coglierne il volo, nel breve, nel medio e nel lungo termine.

E se si trattasse di una moltiplicazione di piazze urbane, che si somigliano fra loro più di quanto somiglino a ciascuna nazione che le contiene? Che esplodono e collidono quando il piano torna a essere quello nazionale? Non è la Libia, è Bengasi. Non è la Siria, è Daraa, Sanaa, Amman, Damasco. Non è la Turchia, sono Istanbul, Ankara, Antalya. Non è la Spagna, sono Madrid, Valencia, Barcellona. Non il Libano, ma Beirut. Non l’Inghilterra, ma Londra, non la Francia ma Parigi, non l’Italia ma Milano“, si chiede Petrillo. “Come ha fatto questa miccia a incendiare il mondo intero, ad arrivare fino a casa mia?”.

Non ci sono bilanci, non ci sono giudizi, ma memoria. Una ricostruzione critica, che mette assieme i pezzi, accende la luce sulle connessioni. “La tentazione intellettuale è sempre quella di rivedere quesi momenti alla luce del fallimento, dichiararne a posteriori l’illusione – scrive – Lo è, lo so, anche per loro che l’hanno vissuta. Ma quel che sarebbe accaduto dopo, quel giorno nessuno lo sapeva. Il coraggio era tale perché scommetteva si qualcosa”.

Ed era un coraggio umano, di persone, un’esplosione di intelligenza collettiva. E troverete una galleria di persone, di storie, di nomi e volti, di donne e di uomini, che lottando per la loro dignità, hanno finito per essere – loro malgrado – metafora e memoria di un’intera generazione, Sono arrivati fino a Zuccotti Park, a Gezi, passando per Hong Kong, dalla Siria all’Iraq, dagli Usa alla Turchia, passando per il Bahrein e l’Ucraina.

In fondo la rivoluzione più grande, a volte, è quella semplicemente di testimoniare – con il corpo, con la scrittura, con la denuncia – che ‘si può fare’.

Questo libro ha il merito di salvare contenuti, oltre che storie. Perché se la rete è la porta che una generazione di attivisti ha usato per portare oltre i limiti claustrofobici delle loro esistenze i propri sogni, ha anche il limite della macellazione del ritmo. E questo libro, rispettando quella sincopata narrazione, fatta di testi brevi e intensi, ha tenuto memoria di decine di migliaia di ‘post’.

Uno di questi, datato 25 gennaio 2017, nel sesto anniversario della rivoluzione, è di Tarek Shalaby e Petrillo lo consegna a tutti noi: “Non tutti lo capiscono, ma sei anni fa io (come milioni di giovani egiziani e arabi) ero un nessuno. Non ero niente. Ero senza valore. Potevo andare e venire, e tutto sarebbe rimasto uguale. Non contribuivo in nulla, non aggiungevo valore. Poi è scoppiato il #jan25, e mi è stata data una possibilità. Un’opportunità unica di essere qualcuno, di fare qualcosa, di esistere, di avere uno scopo. Certe persone non lo capiscono, ma la rivoluzione è molto più che un intenso movimento per scuotere lo status quo. E’ invece la nascita di rivoluzionari che mentre lottano sviluppano un’identità. E’ ciò che ci rende vivi, e che ci dà una ragione per continuare a vivere”.

Fosse solo per la documentazione di testi e di visioni come queste, questo libro avrebbe già dato un contributo enorme. In più lo fa con il passo della reporter e la scrittura lucida e poetica di chi, raccontando gli altri, si mette in gioco.

 

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