19 Marzo 2019
Il romanzo di Francesca Mannocchi: la Libia e il traffico di esseri umani e di sogni
L’implosione di pezzi importanti di quell’assetto di potere che ha caratterizzato per anni gli equilibri in Medio Oriente e Nord Africa non ha ancora mostrato, fino in fondo, i suoi effetti. E’ un processo in divenire, che bisogna raccontare con l’accortezza – per dirla alla Camus – dello storico del presente.
E’ ancora in piena il fiume che ha rotto gli argini e che ha sommerso regimi decennali in Tunisia, Egitto, Libia e Siria, dopo il 2011, senza dimenticare quello che è accaduto in Iraq, dal 2003 in poi, passando per lo Yemen. E forse anche per i regimi/paesi che sembrano ancora saldi.
Il lavoro svolto in questi anni da Francesca Mannocchi,freelance che ha raccontato in particolare la Siria, l’Iraq e la Libia, sulle pagine dell’Espresso e non solo, è tra i contributi preziosi per tentare di tenere il filo di questa stagione degli ‘stateless’, quei territori che, scossi da moti interni ed esterni, negli ultimi quindici anni si stanno ridisegnando secondo dinamiche che spesso non hanno più nulla a che fare con i confini creati nelle cancellerie occidentali all’inizio del ‘900.
Io Khaled – Vendo uomini e sono innocente è un testo complesso. Edito da Einaudi, è molto più vicino al romanzo di realtà che al giornalismo narrativo, ma è sicuramente un testo straordinario con il quale confrontarsi in un tempo nel quale il racconto del contemporaneo è mutato molto, per forma e sostanza, per volontà e per necessità.
Pur mancando di una qualche nota metodologica, anche in forma di introduzione, che sarebbe stata preziosa, è evidente a tutti coloro che hanno seguito il lavoro di Francesca Mannocchi in questi anni che Khaled è un’identità collettiva, è la voce di tante persone incontrate, intervistate e raccontate in questi anni.
Una voce di voci, che pone di fronte al dilemma più profondo di chi racconta la contemporaneità in una zona di non fiction: esiste un criterio etico per selezionare le voci che vanno raccolte? La risposta, per tutto il giornalismo che si rispetti, è no. L’etica (perché la morale è buona per i preti) sta nel non asservire lo sguardo, nel non piegare la schiena, di fronte a tutte le voci, quelle assonanti con la visione del mondo di chi racconta come in quelle dissonanti.
Lo sguardo di questo trafficante è importante, perché se da un lato siamo di fronte al più crudele dei business, nei metodi, più che nei fini, dall’altro siamo di fronte a tutte le nostre contraddizioni.
Come tante, ottime, inchieste hanno dimostrato – comprese quelle della Mannocchi – i trafficanti reali, quelli cioè che sono dentro il business, son tutto sommato pochi e soprattutto non van confusi con la figura mitologica dello scafista, che invece nella stragrande maggioranza dei casi è un viaggiatore come gli altri.
Quelle reti, però, si nutrono – come ha dimostrato l’ultima ottima inchiesta di Zach Campbell per Politico, lavorando su documenti provenienti dai rapporti dell’European External Action Service, rispetto all’operazione Sophia – delle decisioni politiche di rispettati governi europei. Che sanno, sanno tutto, e scientificamente decidono di rendere quei viaggi sempre più drammatici.
Khaled, in fondo, è un cattivo classico. Uno di quelli che a raccontarli si corre il rischio di vedere sé stessi. E allora è meglio non farlo, almeno per tanti, ma questo libro va in direzione contraria.
Khaled è un trafficante, ma è anche uno dei tanti giovani che in Libia, Siria e altrove ha seguito – in fondo – il suggerimento di Obama nel famoso discorso all’università di al-Azhar al Cairo nel 2009.
“Chi mi ha preceduto ha sbagliato”, disse il fascinoso presidente Usa. “La democrazia non si può esportare con i marines, prendete la vostra vita nelle vostre mani e noi vi aiuteremo”. Quei ragazzi, dal Marocco all’Iran, lo hanno fatto, ci han provato, ma quel ‘noi’ si è rivelato una scatola piena di serpenti.
Khaled è umano, come tutti, siano buoni o cattivi. Khaled è senza scrupoli, o quasi, come tutti i governi che dicono di combattere i Khaled di questo mondo. E allora dove sta la verità? Se ci fosse un altro modo, un’altra via, per i disperati di questo mondo, non ci sarebbe nessun Khaled.
Va ascoltata la voce di Khaled, perché parla della Libia e dei libici, parla del traffico di esseri umani, ma parla anche della Fortezza Europa e delle sue scelte, parla delle rivolte arabe e dei suoi devastati e delusi martiri, e parla anche a coloro che – per milioni di uomini e donne di questa terra – ritengono che la dittatura sia un destino.
C’è un mondo intero che chiede giustizia e dignità, c’è un oceano di vite che non potranno accettare sempre di essere gli ultimi, c’è un’umanità in fuga da guerre e distruzioni e da dittature brutali delle quali è complice un piccolo mondo avido e vecchio, pronto a tutto per difendere i suoi privilegi.
Khaled, in fondo, è uno specchio. Che ci costringe a guardare noi stessi.
L'inchiesta di Zach Campbell per Politico
Università di al-Azhar, il Cairo, 2009