Tra il mare e il deserto

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2 Dicembre 2020

La resistenza del popolo saharawi

In sociologia, una diade (dal greco: δυάς – Dyas, “coppia”) è un gruppo di due persone, il più piccolo gruppo sociale possibile. Come un aggettivo, “diadica” descrive la loro interazione.
Diadiche è un progetto che nasce con la volontà, nel formato dell’intervista, di interagire con l’anima in rivolta del Nord Africa e del Medio Oriente. Diadiche, ciclicamente, sarà un confronto con persone comuni che partecipano ai movimenti per la dignità e il cambiamento che non sono cessati nel 2011, anzi, che ne rappresentano lo spirito più forte: si può fare.
Ecco che, protette dall’anonimato quando sarà necessario, senza essere leader o volti e nomi conosciuti, si rintracceranno (per lasciare traccia) voci, vite e storie di persone che non si sono arrese al giudizio dei media e delle analisi d’Occidente. Non era primavera, nel 2011, ma non è rimasto solo inverno oggi. Buona lettura, perché queste persone lottano per le loro idee in contesti difficili e meritano di essere ascoltate.

Uno degli effetti di lungo periodo del lungo inverno dei diritti iniziato nel 2001 è stato il depotenziamento di molte lotte per la liberazione. Non ha fatto differenza la questione saharawi, la lotta di un popolo contro l’ultimo residuo del sistema coloniale.

A metà degli anni ’70, il Sahara Occidentale è una colonia spagnola. Il dittatore Francisco Franco e il suo regime agonizzano all’unisono, Madrid ha altro a cui pensare, organizza il ritiro dalla colonia con un accordo tacito con Mauritania e Marocco, i vicini, senza interpellare la popolazione locale.

Con una marcia nazionalista, la Marcia Verde, il Marocco occupa quelle terre. I saharawi danno vita a una disperata quanto inattesa insurrezione, nasce il Fronte Polisario, l’organizzazione politico-militare che rivendica l’indipendenza del Sahara Occidentale. Le truppe, e poi i coloni, marocchini occupano le zone dal mare fino all’entroterra, costruendo nel deserto a protezione delle terre occupate. Un muro che drena risorse che la monarchia potrebbe e dovrebbe usare per una società piena di problemi.

Il cessate il fuoco fossilizza la situazione militare, i saharawi finiscono in campi profughi eterni appena oltre il confine con l’Algeria, inseguiti dai bombardamenti dell’aviazione marocchina. Sono ancora là. Le Nazioni Unite s’impegnano a vigilare sulla tregua, promettendo un referendum per capire quale sia la volontà della popolazione locale, ma il Marocco riesce ad alterare gli equilibri demografici della regione, il referendum viene rimandato per decenni.

Nel 2003, partecipando alla manifestazione di solidarietà con il popolo saharawi al muro, c’erano attivisti internazionali, c’erano aiuti umanitari, sostegno. Con l’andare del tempo, giorno dopo giorno, la causa Saharawi è dimenticata da grandi media, fino a qualche giorno fa.

Ghergarat è una piccola località di frontiera, che si trova sul confine tra i territori sotto controllo del Fronte Polisario e la Mauritania. La divisione del territorio del Sahara Occidentale dopo il cessate il fuoco del 1991, ha lasciato i territori sotto controllo del Marocco e quindi anche il Marocco, senza nessun collegamento terrestre con la Mauritania.

Per riaprire le rotte commerciali verso la Mauritania, e da lì verso altri paesi subsahariani, il Marocco ha tenuto aperto un corridoio di circa 11 chilometri e ha stabilito un posto di frontiera. Facendo del paesino di Guergarat, di fatto, una specie di enclave marocchina in territorio controllato dal Polisario.

“Il Marocco ha violato l’accordo militare numero 1 aprendo una breccia nel muro della vergogna; la società civile aveva organizzato un sit-in nella zona chiudendo la strada che il Marocco utilizza per trasportare le risorse naturali saharawi. Per tre settimane, i saharawi hanno manifestato pacificamente e hanno chiuso questa strada, causando al Marocco miliardi di perdite. Il 13 novembre scorso il Marocco ha ordinato all’esercito di intervenire con la forza per sgomberare la zona. Abbiamo reagito, abbiamo sollecita l’aiuto delle Nazioni Unite, avvertendo che in queste condizioni l’accordo tra Marocco e Polisario è nullo.”

A raccontare è Mohamed, un’attivista saharawi, che come tanti si fa voce e corpo della resistenza a una situazione che è ormai dimenticata dalle diplomazie internazionali. Troppo importanti gli accordi commerciali e sulle rotte migratorie con il Marocco, spesso celebrato come un paladino della ‘lotta al terrorismo’, per tirar fuori una scomoda storia di diritti negati.

“Siamo dovuti tornare in guerra per essere ascoltati”, racconta Mohamed, “purtroppo oggi troviamo che molta stampa internazionale è complice dello stato di occupazione marocchino, e diffonde la sua propaganda, o non dice una parola su quello che accade nel Sahara Occidentale, anche purtroppo alcuni giornali italiani. La cosa triste oggi è che ci sono grandi giornali internazionali che rifiutano di pubblicare notizie sul Sahara Occidentale, perché la regione non è calda come le guerre che si svolgono in diversi paesi del mondo. Il ruolo della stampa non è quello di riportare notizie di guerre e il numero di morti. Il ruolo della stampa è l’intervento urgente per fermarle le guerre, difendere i diritti delle vittime e fare pressione su Stati e governi affinché rispettino la legge, ma oggi la maggioranza della stampa è interessata solo a avere in primo piano uno scoop.”

Come si vive, da un campo profughi nel deserto, o in una delle mille città della diaspora saharawi nel mondo, questo oblio? Quanto fa male, dopo anni di interesse e di solidarietà, questo rimosso collettivo?

“Il mondo è cambiato molto dall’inizio degli anni 2000 fino a oggi: le crisi economiche, un calo di consapevolezza e l’ascesa di figure politiche di primo piano – tipo Trump – che hanno indebolito il sistema mondiale che rispettava un minimo il sistema dei diritti umani. E questo ha normalizzato anche il pubblico, abituato a guardare o sentire notizie di migliaia di morti ogni giorno…come fosse nulla!”.

Ma le lotte non finiscono con il dimenticarsi di loro e Mohamed e molti altri continuano a tenere viva la speranza di un Sahara Occidentale indipendente.

“Sono un saharawi nato nelle zone occupate, dove i diritti umani vengono calpestati sistematicamente; sono cresciuto in un ambiente che ti costringe di essere adulto, anche se sei solo un bambino. Sono stato arrestato e torturato la prima volta quando avevo 9 anni, nel 1996, e così via per molte volte: l’arresto avveniva sempre perché prendevo parte alle manifestazioni contro l’occupazione marocchina – racconta Mohamed – L’ultima volta sono stato rapito dall’intelligence marocchina per sette mesi e tenuto in un carcere segreto che si chiama Tmara, molto conosciuto nel mondo, perché lo utilizzava la CIA per torturare i terroristi! Dopo sette mesi mi hanno trasferito in un’altra prigione dove ho trascorso cinque anni. Ora non lavoro e mi trovo a Tunisi in un programma di protezione per i difensori dei diritti umani a rischio. Continuo a lottare per portare la voce del mio popolo al mondo, scrivo rapporti o articoli, collaboro con alcune ong come Amnesty International-North Africa, scrivo anche per il giornale Focus on africa.”

Mohamed è uno dei giovani, dal Marocco al Golfo Persico, che non ha mai smesso di lottare. Spesso senza essere raccontati, prendendo in mano il proprio destino e raccontandosi da soli.
Ognuno con la propria lotta, la propria storia, le proprie ferite e il proprio orizzonte. E per i saharawi l’orizzonte, da sempre e per sempre, è un luogo magico tra il mare e il deserto.

“Il deserto in arabo è Sahara, come sai noi come popolo ci chiamiamo saharawi, i nostri padri fondatori della repubblica saharawi l’hanno chiamata Saharawi perché c’è un legame indissolubile con il deserto. In Marocco, o altrove, la gente si vergogna di dire che proviene da fuori delle grandi città, per i saharawi è l’opposto: la gente si vergogna di dire di vivere in città. Quando ero piccolo raccontavo bugie ai miei amici, a scuola, quando mi chiedevano dove avevo passato l’estate. Dicevo nel deserto, da mio nonno, che ha dei cammelli, ma non era vero, perché mio nonno è morto prima che io nascessi e quando è morto non aveva più cammelli. Il nostro mare lo chiamiamo ‘il polmone del Sahara Occidentale’, è bellissimo avere il deserto e il mare insieme, un panorama straordinario. Una spiaggia di sabbia infinita, lungo 1200 chilometri, e un mare grandissimo.”

Quando vi siete resi conto che la narrazione internazionale sulla questione saharawi era iniziata a cambiare?

“È iniziata con l’ascesa al trono in Marocco del re Mohammed VI, nel 1999: la propaganda marocchina convinceva il mondo che era iniziata una nuova era, un periodo di democrazia e libertà. Il Re ha incolpato suo padre di tutti i terribili massacri contro il popolo marocchino, ma la verità è che lui è peggio di suo padre. Almeno suo padre (Hassan II ndr) era un dittatore e diceva pubblicamente che poteva uccidere due terzi del popolo per avere la stabilità nel paese. Invece suo figlio usa i media per vendere sogni, ma la verità che è peggio di suo padre”, racconta Mohamed.

Nel 2011, il lungo anno della rabbia, anche in Marocco c’è stata una reazione contro il potere. Le parole d’ordine del Movimento 15M erano le stesse, con le dovute specifiche, degli egiziani e dei tunisini, degli yemeniti e dei siriani. Ci son stati contatti, nelle proteste, tra i militati saharawi e il movimento 15M?

“Sinceramente non conosco nessuno del movimento 15M, ma ho amici e amiche marocchine che sono contro il regime e denunciano le violazioni dei diritti umani nel Sahara Occidentale. Non ci siamo fidati all’epoca, e purtroppo quello che è accaduto nei paesi in rivolta ci ha dato ragione. Per noi, la cosiddetta ‘primavera araba,’ è iniziata in Sahara Occidentale, a ottobre del 2010. C’è anche un intervento di Noam Chomsky che lo racconta.”

Per un muro che è caduto, nel 1989, mille ne sono nati. E ogni anno l’Europa celebra quel muro del passato, ma ignora che in Sahara Occidentale esiste un muro più vecchio e ancora in piedi.

“L’Europa, intesa come governi e istituzioni dell’Unione, hanno interessi in comune con il Marocco e sono pragmatici. Non gli importa di quello che accade nel Sahara Occidentale, tranne pochi paesi, come la Norvegia o la Svezia. Non penso che vorrebbero avere problemi con il regime marocchino, la prova delle mie parole è nelle tre sentenze del tribunale di giustizia europea che annulla l’accordo di pesca tra l’Europa e Marocco specificando che il Marocco e il Sahara Occidentale sono due paesi diversi e bisogna rispettare la legge internazionale e il diritto all’autodeterminazione del popolo saharawi: eppure dopo tre anni da quelle sentenze, l’Europa ancora sfrutta le risorse naturali saharawi senza vergogna. Questo ci fa capire che non diranno neanche una parola e ricordiamo che il muro è stato costruito con finanziamenti francesi.”

Il futuro, quando il presente è doloroso, è una speranza? “Tra dieci anni, certamente, cambierà tanto la situazione per noi. Le prime cose che mi vengano in mente sono l’indipendenza, se le Nazioni Unite e l’Europa e l’America decideranno di applicare il referendum, costringendo il Marocco a rispettare i diritti del popolo saharawi. Oppure sarà una guerra che porterà il Marocco al collasso e sarà costretto a ritirarsi dal Sahara Occidentale: ora è iniziata la guerra e i saharawi hanno capito bene la lezione di non fidarsi più delle Nazioni Unite e delle sue promesse. Anche se non veniam raccontati, lo facciamo da soli. Se non c’era il web, oggi, avremo davvero difficoltà a far sapere quello che sta succedendo nel Sahara Occidentale, soprattutto perché la maggior parte dei media internazionali portano avanti la propaganda marocchina. Il web è importante, ma anche i giornalisti e i blogger e gli attivisti onesti che hanno scelto di stare nella parte giusta ci hanno aiutato tantissimo. E li ringraziamo e andiamo avanti.”