Chi non terrorizza, si ammala di terrore
di Christian Elia
La cartina di tornasole di quanto i venti anni di ‘guerra al terrorismo’ siano stati l’enorme prezzo pagato alla visione euroatlantica del mondo è la più retorica delle affermazioni: “Tutti ricordiamo dove eravamo l’11 settembre 2001”.
Una facile profezia, che si auto avvera, perché quello è l’unico punto di vista che ha tenuto il centro della scena in questi anni.
Invece questo ventennio è soffocato di macerie, fisiche, umane, politiche, in tutto il mondo, non solo negli Stati Uniti. Perché New York, il Pentagono e le Torri Gemelle non sono né l’inizio, né la fine: sono un segno.
Un segno che è tracciato, nel sangue, su una linea del tempo, che prevede un prima (gli attentati in Yemen e in Africa contro gli Usa, tanto quanto il sostegno occidentale ai gruppi armati che si ispirano a una loro idea di ‘guerra santa’ in Afghanistan contro i sovietici) e che prevede un dopo.
Quel dopo, passati venti anni, non appare chiaro a prima vista. Eppure c’è, in molti aspetti delle nostre vite quotidiane. La militarizzazione dello spazio pubblico, l’abuso del concetto di ‘terrorismo’ per criminalizzare il dissenso e la solidarietà, la ferocia delle misure contro l’immigrazione che, completamente decontestualizzate dalla realtà, vengono giustificate con il fantasma delle ‘cellule dormienti’.
Il 1 maggio 2003, sul ponte della portaerei USS Abraham Lincoln, l’allora presidente Usa George W. Bush apparve sotto uno striscione che recitava ‘Missione compiuta’. Era una menzogna, come molte altre. Oggi, in un cerchio che si è simbolicamente chiuso con la presa di Kabul, da parte dei talebani, quel fallimento è sotto gli occhi di tutti.
Nulla spiega meglio della morte di Osama bin Laden gli errori di questi anni: alla fine, la mente e il finanziatore degli attacchi dell’11 settembre 2001 è stato assassinato in un’azione di intelligence ad Abbottabad, in Pakistan, dove si nascondeva. E sembra così semplice: contro il terrorismo, quello vero, che colpisce indiscriminatamente i civili anche se giustificando la strage con legittime reciminazioni, serve e funziona solo l’intelligence. Non avremmo mai bombardato Palermo dopo gli attentati a Falcone e Borsellino. E servono le trattative, le stesse definite ‘inimmaginabili’ coi talebani nel 2001, sono diventate realtà nel 2016 a Doha, in Qatar.
Invece, il 7 ottobre 2001, iniziò la più vasta, sanguinosa e costosa vendetta della storia degli stati nazionali, l’operazione Enduring Freedom, che è iniziata bombardando un contadino in Afghanistan che non sapeva neanche che fosse stata attaccata New York ed è finita con una ritirata ignominosa, scomposta, come l’assalto di vent’anni prima, perché una vera e proprio ‘exit strategy’ non c’e’ stata mai.
Il complesso militare-industriale globale aveva bisogno di un nuovo nemico, Osama e i suoi deliri erano il nemico ideale. Nel mezzo c’è stata una strage di civili senza fine, come mai prima nella storia dopo la Seconda Guerra mondiale, costata come decine di piani Marshall che avrebbero potuto generare sanità, istruzione, investimenti. Nizza e Jeddah, Madrid e Londra, Mumbai e Nairobi, Parigi e le Filippine, il Sahel e il Nord Africa: tutti capitoli dello stesso sistema di morte.
Il mondo, venti anni dopo l’inizio della guerra al terrorismo, è profondamente più insicuro di prima.
Ricordo ancora quello che mi ha detto, nel 2004, a Baghdad, Ibrahim, un poliziotto, che ti rispondeva ‘iracheno’ invece di curdo, sunnita o sciita: “Io prima del vostro arrivo non avevo mai visto né un kamikaze né un autobomba”.
C’erano stati, in guerra con l’Iran ad esempio, ma il concetto è che dal 2003 il suo paese era diventato un inferno. Come l’Afghanistan, che non conosceva pace da decenni, ma dove chi ti ammazzava prima del 2001 non si faceva chiamare ‘liberatore delle donne ed esportatore di democrazia’.
Sono finite in questo vuoto quel che restava della credibilità e della voce delle Nazioni Unite, mentre molti leader mondiali (da Sharon a Putin, da Assad a Netanyahu, da Erdogan a Trump) coglievano l’occasione per trasformare gli oppositori in ‘terroristi’. Sono finite in questo vuoto la credibilità dell’informazione, sempre più precaria e incerta, e il diritto d’informazione, quando Julian Assange rischia il carcere a vita per aver diffuso immagini di crimini di guerra, e sono arrivati in quel vuoto i complotti falsi che annullano la conoscenza e la comprensione dei complotti veri. Sono entrate in crisi la giustizia sovranazionale, mettendo in discussione l’idea stessa di diritti umani, e quell’idea di stato sovrano – prodotto d’importazione occidentale pure quello – che per anni ha tenuto assieme con il nazionalismo e le dittature quelli che per le strategie della guerra al terrorismo tornavano a essere curdi, sunniti, sciiti e via dividendo.
Questo ventennale (e lo speciale di Q Code) sarà una mappa dei ricordi e delle conclusioni. Questo ventennale, per noi, serve a creare le connessioni e i contesti, perché se non spieghi l’invasione dell’Iraq del 2003 non capisci Daesh, se non racconti Baghram, Guantanamo, Abu Ghraib e le renditions, non afferri il contesto che oggi, dolorosamente, si mette a bilancio. Ed è che chi l’ha voluta e giustificata, oggi, che l’ha persa la guerra al terrorismo.
Non abbiamo perso solo una guerra, ma molto di più. Abbiamo perso importanti spazi di libertà, abbiamo perso in molti casi la capacità di distinguere una legittima lotta di liberazione o di resistenza dal terrorismo, abbiamo subito il furto delle parole, sicurezza, soprattutto.
Quello che però non serve a nessuno è sedersi sempre dalla parte dei vinti, perché non è così. Non si è riusciti a fermare la macchina della guerra, pur avendo avuto la capacità – appassionata e confusa – di vedere che la guerra prima o poi sarebbe tornata indietro. Vero, ma è anche vero che senza quella resistenza, civile e culturale, oggi sarebbe ancora peggio. E non è finita, per niente, anzi: oggi più che mai bisogna tornare a mettere in rete il dissenso, unendo le voci, non oggettivizzando i beneficiari della solidarietà, ma restituendo a loro – come a noi stessi – il diritto a raccontare la nostra storia.
Perché la sconfitta più grande, in molte aree del mondo, è che abbiamo perso la capacità di rappresentare un immaginario democratico, inclusivo, che contrasta le disuguaglianze. Ed è proprio la costruzione di quell’immaginario, anzi, di uno nuovo, condiviso e decolonizzato, che deve essere l’obiettivo dei prossimi venti anni.
L’ultimo volo americano dall’Afghanistan ha lasciato dietro di sé una serie di promesse non mantenute e domande ansiose sul destino del paese.
La fine della guerra più lunga degli Stati Uniti è stata senza cerimonie; spazzatura che soffiava sull’unica pista d’atterraggio dell’aeroporto internazionale di Kabul, gli afgani che indugiavano fuori dai cancelli, sperando ancora invano nell’evacuazione, i Talebani che sparavano vittoriosamente nel cielo notturno.
Nei suoi ultimi giorni, c’erano due marines americani che stringevano la mano ai combattenti talebani nella penombra del terminal nazionale. C’erano file di sfollati affamati e disidratati che salivano su aerei grigi che li portavano verso un futuro incerto. Era la leadership talebana che dettava le sue condizioni, mentre una generazione di afgani meditava la fine di 20 anni di una sorta di speranza estesa.
L’Iraq Historic Allegations Team è stato istituito dal governo di Baghdad per indagare sulle denunce di abusi sui civili. Dopo il suo crollo, alcuni temono che la verità non verrà mai fuori
Gennaio 2004. Il filmato del cellulare è sgranato, i suoni di una rivolta sono udibili in sottofondo. Un gruppo di soldati britannici afferra quattro ragazzi iracheni per strada e li trascina nella loro caserma. La telecamera ingrandisce e rimpicciolisce mentre i soldati li picchiano. Un soldato si avvicina a un ragazzo e lo prende a calci in mezzo alle gambe. Un altro prende a pugni un ragazzo in testa e nello stomaco. Il soldato che filma continua a parlare ininterrottamente. “Oh sì! Lo prenderai”, dice. Imita le loro grida di pietà. “Oh, ti prego! Per favore, no!” Altri soldati passano dentro e fuori dall’inquadratura, apparentemente indifferenti.
Questo filmato, dal sud dell’Iraq, sarebbe passato al News of the World e pubblicato due anni dopo. Fu uno dei primi casi di soldati britannici che abusavano di civili iracheni a diventare pubblico, e provocò furia sia in Iraq che in Gran Bretagna. “Metteteli in prigione”, chiedeva un articolo del Daily Star. In tutto il Medio Oriente, il filmato è andato in loop sui canali di informazione. Nella città meridionale irachena di Bassora, dove le truppe britanniche erano di stanza, 1.000 persone sono scese in strada per protestare, cantando “No, no, Tony Blair” e bruciando le bandiere britanniche fuori dal consolato.
Relativo a una coppia o diade: in logica matematica, si dice di relazione binaria, in semiotica, un segno che vede in gioco due elementi, nelle discipline psicologiche, indica un rapporto o relazione fra due persone o una interazione tra due aspetti psicologici e/o culturali.
A cura di Christian Elia, per Q Code Magazine, una serie di interviste, voci dalle piazze in rivolta, di Medio Oriente, Nord Africa e dintorni
di Luca Rasponi
Nel 2010, a metà della ventennale war on terror lanciata da George W. Bush nel 2001 e finita nei giorni scorsi con il repentino ritorno dei talebani al potere, Bourgaux torna nel villaggio afghano dov’è già stata più volte per i suoi reportage.
Si tratta di Dasht-e-Qaleh, piccolo paese nel nord dell’Afghanistan dove vive e opera Mamour Hasan, signore della guerra con il quale negli anni la giornalista belga ha instaurato un rapporto di confidenza e rispetto.
L’anziano uzbeko, protagonista della resistenza contro i sovietici prima e contro i talebani poi, governa il villaggio godendo – almeno in apparenza – dell’unanime consenso da parte degli abitanti.
Molti statunitensi hanno visto gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001 svolgersi proprio davanti ai loro occhi.
Quello che è successo l’11 settembre e come ha cambiato il nostro mondo è la storia più importante dell’era moderna.
È il cardine su cui sono cambiate tante cose. Ma negli anni successivi la storia che siamo arrivati a raccontare di quel giorno è incompleta – e a volte sbagliata.
Long Shadow esamina le domande che permangono due decenni dopo e i misteri che ancora circondano l’11 settembre, il peggiore attacco terroristico sul suolo Usa.
Questa è una storia dell’11 settembre diversa da quella che probabilmente ricorderete. Ma è una storia che vi aiuterà a dare un senso al mondo che gli attacchi hanno lasciato dietro di sé.
Ascolta le sette puntate del podcast Long Shadow di Garrett Graff
Nel vero stile del Midwest, gli abitanti di Bloomington non sono poco amichevoli, ma tendono ad essere riservati. Un estraneo ti sorriderà calorosamente, ma normalmente non ci sarà nessuna di quelle chiacchiere da estranei nelle aree di attesa o nelle code alla cassa.
Ma ora c’è qualcosa di cui parlare che supera ogni riserva, come se in qualche modo fossimo tutti lì e avessimo appena visto lo stesso incidente stradale.
Per esempio, ascoltato nella fila alla cassa da Burwell (che è una specie di Neiman Marcus delle stazioni di servizio/convenience store plazas – situato in posizione centrale a cavallo di entrambe le strade principali a senso unico, e con i migliori prezzi del tabacco in città, è un tesoro municipale) tra una signora con un camice da cassiera Osco e un uomo con una salopette tagliata sulle spalle per farne una specie di gilet fatto in casa: “Con i miei ragazzi pensavano che fosse tutto un film tipo Independence Day, poi dopo un po’ hanno cominciato a notare che era lo stesso film su tutti i canali”. (La signora non ha detto quanti anni avevano i suoi ragazzi).
Leggi il racconto di David Foster Wallace su RollingStone pubblicato il 25 ottobre 2001
Gli Stati Uniti hanno invaso l’Afghanistan alla fine del 2001 per distruggere al-Qaida, rimuovere i talebani dal potere e rifare la nazione.
Il 30 agosto 2021, gli Stati Uniti hanno completato il ritiro delle truppe dall’Afghanistan, fornendo un incerto segno di punteggiatura a due decenni di conflitto.
Negli ultimi 11 anni ho seguito da vicino i conflitti successivi all’11 settembre per il Costs of War Project, un’iniziativa che riunisce più di 50 studiosi, medici ed esperti di diritto e diritti umani per fornire un resoconto dei costi e delle conseguenze umane, economiche, di bilancio e politiche delle guerre in Iraq e Afghanistan.
Turning Point è una miniserie tv, prodotta da Netflix, in cinque puntate, per la regia di Brian Knappenberger.
Dopo una prima parte dai contenuti soprattutto commemorativi, la docuserie evolve infatti in un’equilibrata lettura degli anni seguenti l’attentato, quelli delle guerre in Afghanistan e Iraq.
E, a garanzia di una certa obiettività, lo fa proponendo una serie di interviste a personalità provenienti da più fronti, non solo quello statunitense.
Voci dell’amministrazione Bush, ma anche giornalisti e voci dissidenti su quella narrazione del ‘o con noi o contro di noi’ che animò la reazione Usa agli attacchi dell’11 settembre 2001.
di Pankaj Mishra, tratto da Internazionale
L’esercito statunitense si sta ritirando dall’Afghanistan mentre i taliban conquistano terreno. Il 6 luglio le truppe americane hanno lasciato la loro base aerea di Bagram, vicino a Kabul, nel cuore della notte, senza informare gli alleati afgani. La cosa strana, in questa cupa fase finale della guerra, è che tutto era prevedibile fin dall’inizio. Eppure delle convinzioni false hanno alimentato un’iniziativa che è costata un numero incalcolabile di vite umane e centinaia di miliardi di dollari, lasciando l’Afghanistan in condizioni peggiori di quelle in cui era prima. E bisogna capire perché è successo.
Una timeline, che parte dal 1999, racconta per tappe il conflitto più lungo della storia militare degli Stati Uniti d’America.
Vai alla timeline del Council on Foreign Reletions