Introduzione

di Christian Elia

A Potsdam, in Germania, c’è il Zentrum für Zeithistorische Forschung (ZFF), un centro di ricerca sulla storia contemporanea. Dai loro studi risultano essere 137 le vittime dirette del muro di Berlino. A queste, giustamente, se ne sommano altre 251, vittime indirette della stessa barriera.

Quel muro è durato poco meno di 30 anni: 1961 – 1989. Oggi, nel 2019, si celebra il 30° anniversario dell’abbattimento di quel muro, ma non c’è nulla da festeggiare.

Secondo uno studio del Transnational Institute, dal 1989 a oggi, solo in Europa sono state costruite circa mille chilometri di barriere e recinzioni, che equivalgono a sei nuovi “muri di Berlino”. Viene specificato che la maggior parte dei muri è stata costruita negli ultimi anni, a partire dal 2015, quando la guerra civile siriana e la crisi dei migranti erano al loro apice.

I muri, al mondo, non sono mai stati così tanti. Secondo uno studio dell’Università del Quebec-Montreal, se si vuol capire quante barriere ci sono oggi al mondo, bisogna emanciparsi dall’immaginario di quello di Berlino. Cemento, certo, ma anche reti e filo spinato, e mille altri innovativi e costosi materiali. E allora sono circa settanta le barriere nate con l’idea di dividere, per sempre magari, o di rendere la vita un inferno ai migranti. E non finisce qui, perché si arriva fino al mare. D’acqua, come il Mediterraneo, che è il muro più infame della terra, o di sabbia, come il Sahara, dove non c’è scampo.

Questa Q Stories nasce dall’idea di creare un nuovo, immateriale, memoriale. Nasce dall’idea che alcune – simboliche – storie raccolte lungo i muri, con le illustrazioni struggenti di Enrico Natoli, diventino pietre d’inciampo e memoria per tutte le migliaia di vittime che ogni anno muoiono di muri, mentre il mondo celebra quello che non c’è più.

Una celebrazione che, bene ricordarlo, non nasceva dalla fine di una guerra feroce come quelle in Afghanistan, Iraq e Siria, o dalle violenze terribili di regimi come l’Egitto, gli arresti di massa in Turchia, o le condizioni di schiavitù di paesi come il Bangladesh, oppure dall’inferno dei diritti del Corno d’Africa, fino ai cambiamenti climatici che rendono inabitabili pezzi di mondo sempre più grandi.

Nasceva da un unico desiderio: la libertà. Che all’epoca era riconosciuta come legittima ambizione, che faceva dei saltatori di quel muro degli eroi. Eppure i saltatori di oggi, per la narrazione, sono solo clandestini.

Questa Q Stories vuole essere una narrazione alternativa per tutti i saltatori di muri, che oggi non hanno neanche diritto a un nome.

*illustrazione della copertina di Enrico Natoli

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ZZF

Il Centro per la Storia Contemporanea di Potsdam

The Business of Building Walls

Il rapporto del Transnational Institute

Borders, Fences and Walls: State of Insecurity?

Il lavoro di Elizabeth Vallet, direttrice del Center for Geopolitical Studies alla University of Quebec-Montreal
Tahmina
confine Slovenia - Croazia

di Christian Elia

Il suo nome non lo conosce nessuno. Le autorità croate l’hanno classificata come vittima sconosciuta. E allora, nel caso di questa giovane donna afgana, un nome lo diamo noi. Sarà Tahmina, come l’attivista afgana che da tempo si batte con l’hashtag #WhereIsMyName per l’usanza delle zone rurali afgane di non chiamare per nome le donne, ma di rivolgersi a loro come se fossero oggetti o animali. La mia ‘cosa’.

Ecco, questa giovane donna scappava. Dalla guerra, dalla povertà, dalla vita drammatica che faceva. Chi lo sa. Di sicuro la sua vita non era cambiata, nonostante la guerra iniziata nel 2001, che a detta delle classi dirigenti dei Paesi della coalizione militare che ha attaccato e invaso l’Afghanistan, l’avrebbe liberata.

Un’altra promessa non mantenuta, anzi, negata, visto che adesso, per l’Unione Europea, l’Afghanistan è un Paese ‘sicuro’ verso il quale rimpatriare gli afgani. Anche lei era scappata, ma il suo lungo viaggio è finito nelle acque gelide del fiume Kupa, il 25 agosto scorso.

Viaggiava in un furgone, nascosta dietro un carico di cassette di frutta, con un caldo opprimente, stipata con altre undici persone. Secondo la ricostruzione della polizia croata, il furgoncino, nei pressi del villaggio di Slatina Pokupska, ha forzato un posto di blocco. Sempre secondo la ricostruzione della polizia – nessun giornalista ha potuto incontrare i superstiti – il furgoncino ha accelerato furiosamente e, dopo una curva a gomito, presa a grande velocità, è caduto nel fiume.

Erano le tre di notte, tutto era buio, le persone intrappolate sono riuscite a fuggire alla morte rompendo a calci i finestrini del furgone, prima che fosse troppo tardi. All’arrivo della polizia, infatti, l’autista si era dileguato. Gli agenti hanno provato a recuperare le persone dal fiume, ma per Tahmina non c’è stato scampo. L’hanno tirata fuori, respirava ancora. È morta poco dopo in ospedale. Era incastrata in fondo al furgone, non aveva mai nuotato nella sua vita, avrà pensato che non era giusto finire così, dopo tutta la fatica fatta per arrivare fin là. Avrà pensato ai suoi figli, avrà pensato al suo passato. Avrà pensato a tutti quelli che non hanno mai pensato, neanche una volta, a lei.

Secondo quanto hanno raccontato gli agenti, la donna faceva parte di una famiglia di sei persone che viaggiavano insieme: coniugi e quattro figli di età compresa tra tre e nove anni. Le autorità hanno confermato che erano tutti cittadini afgani passati da un campo profughi in Bosnia-Erzegovina prima di continuare il loro viaggio. Doveva esser sembrato loro un buon affare: pagare quel che avevano per un passaggio sicuro, invece di affrontarlo a piedi, attraversando luoghi sconosciuti. Prima, però, l’amara scoperta delle condizioni del viaggio: caldo soffocante durante il giorno, nessuna sosta per non dare nell’occhio, neanche lo spazio per sedersi un attimo e stendere le gambe. Ore senza bere, senza poter fare i bisogni, con l’acqua da centellinare. Tutto, però, è meglio dell’Afghanistan, dove il 2018 è stato l’anno con il più alto numero di vittime civili.

I controlli, tuttavia, si sono intensificati anche lungo le strade e il confine tra la Slovenia e la Croazia, proprio lungo il fiume Kupa, è stato recintato e chiuso. Lo scorso anno sono state undici le vittime annegate nel fiume Kupa/Kolpa, secondo il rapporto Desperate Journeys, dell’Unhcr. Molti di loro non hanno neanche il diritto a essere ricordati con il loro nome.

illustrazione di Enrico Natoli

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Desperate Journeys

Il rapporto dell'Unhcr
Omar
Ceuta e Melilla

di Christian Elia

Aprile 2018. Esterno giorno. I volontari li avevano notati subito, con quel sesto senso che sviluppano quelli che sono abituati a star dietro all’umanità che si muove ai margini. Un bimbo, con la faccia la smorfia da duro, che non gli riesce bene. Due camionisti, grandi e grossi, lo strattonano, lo insultano in spagnolo.

Cercano di avvicinarsi, ma il gruppetto si disperde. La Guardia Civil si avvicina, chiede ai volontari – e non a tutti gli altri – cosa stanno facendo là. Nonostante le pettorine, nonostante i badge identificativi, sembrano che siano loro il problema.

Intanto il camion ha acceso il motore, altre urla, altri ragazzetti che strillano. Sembrano tutti uguali, ma non lo sono. Sembrano tutti in fuga, e lo sono.

Omar è uno di loro, ha 16 anni. Come gli altri veste ciabatte sgangherate, indossa un’imitazione della maglietta del Milan, un paio di jeans luridi. Occhi neri, grandi. Capelli neri, ricci.

L’ultima cosa che Omar dice prima di morire è “aiuto!”, in arabo. I volontari e gli altri ragazzi la sentono, distintamente. Corrono tutti, anche quelli della Guardia Civil, perché il tonfo del camion si è sentito bene. Il camion guidato dai due spagnoli che è passato sul corpo di Omar. Uccidendolo.

La polizia spagnola arresta il conducente, che si difenderà dicendo che lui e il suo collega hanno sorpreso il ragazzino mentre cercava di rubare nel camion. Tutti gli altri testimoni sono concordi, invece, nel dire che Omar – come tutti gli altri – stava solo cercando di infilarsi nel cassone, per passare nascosto in traghetto e arrivare in Spagna, da Ceuta.

Omar era marocchino. Il conducente, che la polizia arresta, è spagnolo. Si chiama Jaime ed è stato condannato per omicidio volontario.

A Ceuta, come a Melilla, invece restano migliaia di persone, nascoste nei boschetti attorno alle enclavi spagnole in Marocco, cintate da tre cerchi di barriere di filo spinato che arrivano fino a tre metri di altezza. La costruzione, a spese dell’Unione Europea, è costata circa 30 milioni di euro ed è lunga 8 chilometri a Ceuta e 12 chilometri a Melilla.

Ciclicamente, organizzandosi in gruppi, per rendere più difficile fermarli, gruppi di disperati si lanciano sulle reti, bastonati dalla polizia. Quasi 20mila persone, via nave, sono arrivate in Spagna lo scorso anno. Omar no, non andrà più da nessuna parte.

illustrazione di Enrico Natoli

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Con el mundo a cuestas

Documentario sul confine tra Ceuta e Melilla e il Marocco
Alì
confine Croazia - Bosnia Erzegovina

di Christian Elia

All’ospedale della cittadina di Bihać non avevano mai visto una cancrena come quella. Alì portava con sé il dolore feroce, lacerante, di una necrosi di mesi. Quelli spesi a fare pochi chilometri.

In questo periodo storico, però, anche pochi chilometri possono diventare lunghissimi. Alì era partito, dalla Bosnia-Erzegovina, l’inverno scorso. Il 21 settembre è morto all’ospedale di Bihać. Alì aveva 31 anni, arrivava dalla Tunisia. Alì si chiamava Khobeib, ma tra i tanti codici dei camminanti c’è quello di andarsi incontro, semplificare la comunicazione. Ecco che Alì, per tutti quelli che camminano con te, è più semplice. Come un nome di battaglia, per i partigiani. E ciascuno ha diritto al nome – e alla vita – che si è scelto.

Come tanti, senza bisogno di visto, era partito per la Turchia. Come tanti aveva affrontato il viaggio fino al confine con la Grecia. Contando solo su sé stesso e sulle sue gambe, le sue braccia, i suoi occhi. E i suoi piedi. Perché per tante persone l’unica risorsa è il proprio corpo. Quello che, pur di cambiare vita, è pronto ad affrontare gelidi inverni e torride estati, centinaia di chilometri, sull’asfalto, quando si può, o nel bosco, quando si deve. Il corpo è tutto quello che hai.

In condizioni critiche lo hanno incontrato due volontari italiani, Lorena Fornasir e Gian Andrea Franchi, che ogni volta che possono caricano la macchina di tutto quel che riescono e partono, lungo la rotta balcanica, per dare una mano. Lo hanno incontrato nel centro che è stato creato a Vučjak, nei pressi del confine tra Bosnia-Erzegovina e Croazia, in una zona martoriata durante la guerra degli anni Novanta, dove ci sono ancora campi minati. Centinaia di persone, stipate, in condizioni disumane, portate via da Velika Kladuša, dove la situazione si era fatta insostenibile. Perché la gente della Bosnia-Erzegovina la conosce bene la guerra e la fuga, ma per mesi, anni, le persone sono rimaste intrappolate in questo collo di bottiglia. In un Paese che ha tanti problemi.

Mentre il tempo passava le relazioni umane si facevano più complesse, le persone da accoglienti divennero sempre più diffidenti, gli imprigionati cedettero all’insofferenza. Alla fine la situazione era diventata esplosiva, ed ecco il trasferimento, che non risolse nulla. La gente restò intrappolata lo stesso, solo in un luogo differente, più isolato. Alì, come tanti, era là. Alì aveva raccontato di aver raggiunto l’Italia nel 2011.

Quando in tanti avevano preso in parola l’ex presidente Usa Barack Obama, che all’Università del Cairo nel 2009 aveva promesso che tutto sarebbe cambiato. Basta guerre. Era tempo, per i giovani arabi, di prendere in mano il loro destino. Alì, come tanti altri, lo ha fatto.

Hanno rovesciato dittature decennali, sostenuti da quegli stati che oggi chiudono le frontiere, dopo aver lasciato da soli questi ragazzi di fronte alla repressione, alla restaurazione e alla solita fame. Dopo un ritorno in Tunisia, ci aveva riprovato. La sua vita non se l’è presa il Mediterraneo, se l’è presa il gelo dei Balcani. Ha tenuto duro, aveva solo il suo corpo. Ma i suoi piedi lo hanno abbandonato, l’assideramento si è fatto cancrena, abbandonato solo, quasi nudo, scalzo. La sua storia era complessa, anche per quelli che avevano voglia di ascoltarla. Il suo dolore era sempre più grande, invisibile tra il campo di Vučjak e quello di Bira, vecchi capannoni industriali dismessi, tra serpenti e topi, in mezzo a quasi 10mila persone che vengono, vanno, provano, riprovano. E vengono respinti.

La polizia croata, come ha denunciato il rapporto di Amnesty International Pushed to the edge, che ha raccolto centinaia di casi di violenza e percosse della polizia croata ai danni di persone che tentano anche fino a otto, nove volte di passare.

Alì ora è tornato a casa, grazie agli attivisti informali che percorrono la sua stessa strada, che hanno raccolto i soldi per trasportarne la salma come – nelle città – raccolgono tante cose. E raccolgono scarpe. Buone scarpe. Adesso sapete perché.

illustrazione di Enrico Natoli

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Pushed to the edge

Il report di Amnesty International sulle violazioni dei diritti dei migranti lungo la Balkan Route
Sergìo
Usa - Messico

di Christian Elia

 

Una croce, blu, disegnata da una mano incerta. Sotto, dello stesso colore, la stessa mano ha scritto Sergio Adrian, con la data: 7 giugno 2010. Questo è quel che resta, su un pilone di cemento, di una vita intera.

In una scritta non ci stanno i sogni e i difetti di Sergio, le sue ambizioni e le cose in cui riusciva bene, quelle che ha provato a fare senza successo e quelle che non ha mai avuto il coraggio di fare.

Perché una scritta è solo un ricordo, una targa informale, che vive fino a quando c’è una storia da raccontare, una voce da ricordare. Una storia che inizia come tante e finisce peggio.

Sergio Adrián Hernández Güereca, 15 anni, nato a Juarez, in Messico. Quel confine lo ha visto da quando è nato. Un confine che è vorace delle speranze di tutti coloro che lo vogliono attraversare.

Sergio è tra quelli. Solo che la sua vita è finita contro una pallottola sparata da un agente federale Usa, dall’altra parte del fiume Rio Grande, vicino al Ponte Paso Del Norte tra Downtown El Paso e Juárez nel 2010. L’agente ha sparato a Sergio perché, secondo la ricostruzione ufficiale, Sergio gli ha tirato delle pietre. L’agente si chiama Jesus Mesa Jr., figlio di un padre e una madre che hanno fatto la stessa strada che sognava di fare Sergio.

Il 21 novembre 2019, la Corte Suprema Usa ha espresso preoccupazione circa le implicazioni per la politica estera e la sicurezza nazionale degli Stati Uniti se alle famiglie di adolescenti messicani uccisi da agenti della Border Patrol nelle sparatorie transfrontaliere fosse permesso di adire le corti americane. Ha così, nel dubbio, respinto il ricorso della famiglia. Il tribunale era chiamato a valutare per la seconda volta se i parenti delle vittime straniere ferite in territorio straniero possano andare in tribunale senza l’espressa autorizzazione del Congresso.

Il giudice Neil M. Gorsuch, figlio di un padre e una madre come quelli di Sergio, arrivati chissà quando dall’Europa dell’Est, ha motivato il suo voto contrario al risarcimento dicendo che temeva che il diritto di citare in giudizio il governo Usa potesse estendersi alle operazioni militari e diplomatiche statunitensi all’estero. L’avvocato della famiglia di Sergio, Steve Vladeck, figlio di un padre e una madre come quelli di Sergio, ha detto alla corte che permettere che la causa proceda non minerebbe le relazioni esterne, ma non è servito a nulla.

Quando Sergio è stato ucciso, aveva giocato con gli amici, correndo su un ripido terrapieno sul lato degli Stati Uniti per toccare un’alta recinzione – e poi correndo giù per la collina fino al Messico. Mesa ha affermato che i ragazzi stavano lanciando sassi contro di lui, anche se un video dell’incidente filmato con un cellulare lo smetiva. Mesa ha afferrato uno degli amici di Hernández e poi, tenendolo stretto, ha sparato almeno due colpi oltre il confine, uccidendo l’adolescente disarmato.

L’avvocato di Mesa, Randolph Ortega – figlio di immigrati come sognava di essere Sergio – ha detto che permettere che una tale causa proceda avrebbe un “effetto agghiacciante” sulle operazioni quotidiane della pattuglia di frontiera e che il Congresso, non i tribunali, dovrebbe decidere chi può citare in giudizio i funzionari federali. Il giudice Sonia Sotomayor – figlia di immigrati latino americani – ha sottolineato come Mesa sarebbe stato condannabile solo se l’adolescente fosse stato in piedi sul lato americano del confine, ma non così.

Chissà che avrebbe fatto Sergio nella vita. Magari il giudice della Corte Suprema o il poliziotto di frontiera.

illustrazione di Enrico Natoli

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Life in the Shadow

Il documentario della BBC sul confine Usa-Messico
Ameera
confine Albania, Kosovo e Montenegro

di Christian Elia

Nessuno conosce i loro nomi, neanche Ameera, che pure deve a loro la vita sua e dei suoi due figli. A lei hanno detto di essere algerini, Ameera vorrebbe tanto sapere chi sono, dove sono finiti, come stanno. Lo vuole sapere per ringraziarli, per aiutarli se può, per restituire quel che le hanno dato. È qualcosa che va oltre la gratitudine stessa, una necessità, un’urgenza.

Perché forse è anche difficile immaginare come ci si possa sentire nella notte più buia, in mezzo alle montagne, quando anche se è estate, di notte il freddo si infila ovunque. Ameera aveva deciso di partire lo stesso. Il suo viaggio doveva continuare. Il suo viaggio era iniziato mesi prima, in Turchia, dove era arrivata in fuga da Aleppo, in Siria, dove prima del 2011 non aveva mai immaginato che pochi anni dopo la sua vita sarebbe stata in pericolo in quella zona di confine tra Kosovo, Montenegro e Albania.

E Ameera era in Albania, anche se forse, nel cuore buio di quella notte d’estate, non lo sapeva neanche. Sapeva, più o meno, la direzione. Quando poteva caricava il suo cellulare e andava avanti. Da sola, in gruppo, sempre con i figli stretti al petto. Le avevano detto di andare a nord, sempre, verso l’Austria e la Germania.
Dove altre persone di Aleppo erano arrivate, dove avrebbero potuto aiutarla, lei che con i suoi due piccoli era rimasta sola perché la guerra di era presa il marito. Altri della sua di famiglia erano in Germania: l’unico futuro possibile sembrava là, a qualsiasi costo. Ameera non aveva mai visto montagne alte, dure, belle di giorno, minacciose di notte.

Ameera aveva trovato un tassista che le aveva promesso di portarla in una zona buona, dalla quale poteva continuare a piedi. Ameera, nel centro di accoglienza a Tirana dove è passata, raccontava che all’inizio erano due gruppi, piccoli, anche loro portati là dalla piccola mafia dei tassisti, che si fanno scafisti dell’asfalto, ingrassati da queste leggi che chiudono tutti gli accessi legali per una persona in fuga. Le avevano detto che le cose erano cambiate, essere siriani, scappare da uno dei regimi più brutali della Terra e dalla guerra contro i ribelli non bastava più. Le avevano detto che anzi, il contrario, per tante persone in Europa Assad e i suoi sicari hanno vinto la guerra. E la chiamano pace. Ameera non voleva per i suoi figli quell’inferno che si era preso suo marito. Ed è partita. Quella notte, alla fine, nel buio e nel bosco, ha perso i riferimenti e le persone del gruppo. La paura, come unica certezza, mentre fingeva che andasse tutto bene per non spaventare i piccoli.

Loro piangevano, infreddoliti, affamati. Lei stava finendo le misere scorte, sempre più infreddolita e preoccupata. Ameera racconta di aver pensato di fermarsi. Inutile andare avanti. Meglio stringersi al cuore i suoi figli, tentare di tenerli caldi, farli dormire un po’ e ripartire la mattina dopo. Proprio mentre rovistava, al buio, per terra, sotto un albero, un dolore lancinante: il morso di un serpente.

Ameera viene travolta dal suo dramma prima ancora che dal dolore. I suoi piccoli, da soli, senza di lei. Ameera ha paura di morire e, con ferocia, si accusa, si sente in colpa. E si sente morire. L’unica cosa che riesce a fare e urlare disperata. Chiede aiuto, ma le sembra che il bosco le restituisca la sua voce dolente. Le speranze scivolano via, velocemente; la mente si annebbia, lentamente. All’improvviso un rumore di passi.

Ameera grida ancora più forte, andava bene chiunque, almeno qualcuno a cui affidare i figli e chiedergli in nome di Dio di essere umani. Sono due ragazzi, giovani. Ameera ricorda di averli sentiti discutere, li capisce anche nel dialetto: uno ha paura, vuole andare avanti, l’altro dice che Dio li guarda, non possono tirarsi indietro.

Quei due ragazzi, che si dicono algerini, hanno salvato la vita ad Ameera e ai suoi figli. Li hanno portati giù, dove c’era gente, che li ha condotti in ospedale. Ameera vorrebbe trovarli, ringraziarli. Sapere se ce l’hanno fatta. Ameera non ci pensa mai a cosa sarebbe accaduto senza di loro, dice che la spaventa troppo, anche solo l’idea. Però a quei ragazzi ci pensa, sempre, anche adesso che tutto è andato bene.

illustrazione di Enrico Natoli

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Do you remember Balkan Route?

Un multimedia racconta la rotta balcanica
Shihab
India - Bangladesh

di Christian Elia

Il mango, per le sue proprietà nutrizionali, viene chiamato il re della frutta. Chissà se Shihab lo aveva sentito dire, o se aveva solo fame. Oppure, come fanno tutti i ragazzi del mondo, stava solo giocando con gli amici. Rubare frutta, in fondo, chi non lo ha fatto.

Farlo vicino a un muro, però, è molto pericoloso. Perché i muri uccidono e la barriera al confine tra India e Bangladesh è uno dei peggiori.

Questo, Shihab, 18 anni, lo sapeva di sicuro, come tutti i ragazzi del Bangladesh che vivono nella zona di Chuadanga, vicino al posto di frontiera di Jibonnagar. Correva l’anno 2016. Shihar è stato ucciso, mentre altri tre suoi amici sono rimasti feriti, quando le truppe di frontiera della Border Security Force (BSF – truppe indiane che pattugliano la rete di divisione) hanno aperto il fuoco su di loro. Cercavano di passare la frontiera illegalmente? No, raccoglievano manghi.

L’India ha sospeso sette dei soldati della in relazione all’assassinio, dopo che è stato formato una commissione d’inchiesta per indagare sull’incidente. Il comunicato stampa che la annunciava, sottolineava come l’India si sarebbe impegnata a sostenere le disposizioni del piano di gestione completa del confine per assicurare la pace, la sicurezza e la sicurezza sul confine tra India e Bangladesh per realizzare l’obiettivo di portare il numero di incidenti mortali sul bordo a zero.

Chissà come avrebbe commentato la notizia di questo impegno, il giovane Shihab. Chissà quante volte avrebbe maledetto l’idea di prendere quel dannato mango.

Solo che la fame a volte gioca brutti scherzi. A Shihab e a tutti i migranti che dal Bangladesh tentano di passare dall’altra parte. Sono 1146 i civili provenienti dal Bangladesh uccisi alla frontiera con l’India negli ultimi quindici anni.

Anche quando non cercano di passare. “Abbiamo paura per la nostra vita, ma abbiamo investito i nostri soldi lì. Non sappiamo cosa fare”, hanno dichiarato – al tempo dell’incidente – i commercianti del Bangladesh che hanno comprato i frutteti di mango al di là del confine. Perché i confini dividono tutto, gli affetti e gli affari, senza riguardo. E per ragazzi come Shihar, raccogliere manghi è uno dei pochi lavori possibili in quella zona, anche se ha un costo troppo alto.

illustrazione di Enrico Natoli

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Assessing the Evidence: Environment, Climate Change and Migration in Bangladesh

Un report dell'International Organization of Migration spiega come il cambiamento climatico spinga all'esodo la popolazione del Bangladesh
Oineroi
confine Grecia Turchia

di Christian Elia

Il macchinista, da quello che sembra, non si è neanche accorto di loro. Li ha trovati, la mattina del 27 novembre 2018, un uomo che si recava in giro con il suo cane. Tre uomini, apparentemente giovani, sono stati trovati morti su un binario nel nord della Grecia, apparentemente uccisi da un treno mentre dormivano, come ha raccontato la polizia locale. Vicino al villaggio di Fylakio, dove c’è un centro di detenzione che, nonostante gli sforzi dell’Unhcr, continua a essere ritenuto un buco nero nel sistema greco ed europeo. Nessuna separazione tra uomini e donne, nessuna separazione tra minori e adulti. Fylakio si trova tra le città di Alessandropoli e Komotini, vicino a quella tripla frontiera che – assieme alle isole – è diventato un punto di ingresso importante.

La polizia ha dichiarato di non essere stata in grado di identificare immediatamente le vittime.

Probabilmente persone del centro, che quando escono da là o da quello di secondo livello della zona, hanno un ordine di abbandono del Paese che non significa nulla.

Finora, quest’anno, le autorità greche hanno registrato oltre 14mila ingressi irregolari attraverso il confine turco, rispetto a circa 5.500 nel 2017. Arrivano con piccoli barchini, ma il viaggio – che non è detto sia meno costoso di quelli verso le isole – avviene in un tratto di mare molto capriccioso e pericoloso. Solo negli ultimi diciotto mesi, sono molti i casi di decesso. Per gli Oineroi, invece, la morte è arrivata nel sonno. E anche per loro, con rispetto, bisogna provare almeno a dare un nome. Gli Oineroi, nella mitologia greca, sono dèi minori, generati dalla notte. Sono le proiezioni dei sogni dei mortali, nel mito greco. Ecco, i tre senza nome, uccisi da un treno nel sonno, mentre riposavano, crollati dopo tanto andare, camminare, nascondersi, è un prezzo troppo alto per i loro sogni. Un prezzo che hanno pagato ai loro sogni e che pagheremo alle nostre coscienze. Non si sa neanche da dove arrivavano, senza alcun documento addosso, con cellulari inutilizzabili.

Lungo la strada che porta a nord, da Salonicco ad Alessandropoli, e poi verso settentrione, capita di poterne vedere per strada. Braccati, smarriti. Prendono rischi, come tutti i fuggitivi. I binari del treno, come era accaduto nel 2015, in Macedonia, con la strage di 14 persone investite da un treno, sono un punto di riferimento. Seguendo quelli, da sud a nord, il viaggio ha una direzione in una terra per tutto il resto sconosciuta. L’unica certezza che si rivela è la condanna a morte.

illustrazione di Enrico Natoli

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Greece: Violent Pushbacks at Turkey Border

Il rapporto di Human Rights Watch
Alaa
muro Israele - Palestina

di Christian Elia

Qalandya è un non luogo. Oggi è diventata una specie di stazione elegante, dove gli ‘utenti’ sono invitati a lasciare tutto in ordine come lo hanno trovato. Qalandya è un check-point, una porta di passaggio nel muro che Israele ha costruito – a partire dal 2002 – per chiudere i palestinesi dall’altra parte. Per impedire gli attacchi sul suo territorio, ma lo ha fatto prendendo la terra dei palestinesi.

Alaa era una delle centinaia di migliaia di palestinesi che hanno un tempo differente da tutti i comuni mortali, perché il loro tempo è gestito da un check-point. Ti muovi all’alba, per non restare chiuso dalle lunghe file per i controlli. Non passi se, senza essere tenuti ad alcuna spiegazione, i militari israeliani chiudono.

Alaa aveva ventotto anni. Viveva nel campo profughi vicino al check-point. Una di quelle vite che sono un ossimoro: essere rifugiati dovrebbe essere una condizione temporanea, ma in Palestina significa un destino di generazioni.

Alaa ha imboccato una corsia riservata ai veicoli. A molti è accaduto, Qalandya – soprattutto in passato – era un incubo, un dedalo. Non si è fermata quando le hanno urlato di farlo. Sotto la minaccia delle armi non ha proferito parola, come impietrita. Secondo i militari israeliani li ha minacciati con un coltello da cucina. Nel dubbio, l’hanno crivellata di colpi. Come lei, dal 2015, sono state centinaia le vittime di quella che i giornalisti amano chiamare ‘intifada dei coltelli’. Perché suona bene, è mediatico.

Ma non c’è nessuna intifada nell’alzarsi la mattina, ogni mattina, alle tre, per non restar chiuso fuori da quell’unica opportunità di lavoro che hai. Andare nelle colonie illegali, andare in Israele, a lavorare nell’edilizia o per fare le pulizie, anche se hai una laurea e un dottorato. Alaa era uno di quei fantasmi senza futuro, che ogni giorno sono a disposizione dell’umore del soldato di turno. Anche solo dire un ‘no’ significa tornare indietro senza un perché.

Magari Alaa ha solo pensato che di quella vita ne aveva abbastanza, magari ha solo avuto paura e si è mossa come non doveva. Magari Alaa non aveva più voglia di essere umiliata. Ma di sicuro nessuno può immaginare di essere una minaccia con un coltellino, di sicuro sai che è un modo per uccidersi.

Non c’è un intifada nell’immolare sé stessi, con un coltellino in mano, di fronte a militari equipaggiati con ogni moderno armamento. Ecco che un video, ripreso con uno dei cellulari presenti in quel momento, ha immortalato gli ultimi istanti della vita di Alaa.

Un velo rosso in testa, un cappotto scuro: due militari israeliani le sparano. Non muore subito, si trascina, lungo un marciapiede, come se all’improvviso tutto quel dolore dovesse svanire in un attimo. L’hanno trasportata in ospedale, dove è morta poco dopo, ma i soccorsi sono stati lenti e farraginosi, come è accaduto in molti altri casi. Alaa poteva essere salvata? Magari si, magari no, magari nessuno andrebbe messo nelle condizioni di non dare più alcun valore alla propria vita.

Amnesty International ha chiesto un’indagine indipendente: le immagini sono chiare, non rappresentava un pericolo letale per gli agenti, era lontana e isolata. Ma hanno sparato. Come lei son caduti tanti, spesso giovanissimi. Chi spara, anche se processato, non rischia nulla e diventa un eroe nei media nazionali. E per Alaa non ha fatto differenza.

illustrazione di Enrico Natoli

Il documentario di Mohammed Alatar

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Qalandia Checkpoint: The Historical Geography of a Non-Place

Il paper di Helga Tawil-Souri, per capire Qalandya
Mildred
barriera Botswana - Zimbabwe

di Christian Elia

Sono da poco passate le 4 del mattino quando l’autobus che trasporta passeggeri dal Botswana allo Zimbabwe si ferma al posto di frontiera Ramokgwebana.

Mentre i passeggeri dell’autobus si preparano a fare un pisolino, aspettando che il confine si apra alle 6 del mattino, uno degli autisti chiama i passeggeri: “Coloro che non stanno bene, per favore, vengano avanti.”

E’ il segnale per coloro che lo devono attraversare illegalmente, quel confine. Perché non hanno alternative. Sei donne e tre uomini si alzano e raccolgono le loro cose; una delle donne assicura il suo bambino sulla schiena. La donna si chiama Mildred. La stampa locale – che ha raccontato la storia nel 2017 – non riporta il nome del piccolo o della piccola.

Come per tutti i passeur del mondo, come per tutte le rotte per ‘bruciare le frontiere’, il percorso viene garantito come “molto sicuro”, a condizione che i viaggiatori siano accompagnati da qualcuno che sappia farsi strada nella boscaglia. E possano pagare.

In questo caso è la stessa persona che dopo il servizio tornerà a guidare il pullman ufficiale, per una commissione di 300 pula (poco meno di 30 dollari Usa).

Nonostante le assicurazioni del passeur, le donne che usano questi valichi di frontiera illegali sono ben consapevoli dei pericoli che potrebbero affrontare nella boscaglia. Tutti hanno incontrato o sentito storie di famigerate bande conosciute come gumagumas, che aggrediscono regolarmente i saltatori di frontiera per derubarli e, in molti casi, violentare le donne.

Mildred ha 35 anni e ha paura, ma non ha scelta, poiché ha esaurito i suoi 90 giorni annuali di ingresso senza visto per i cittadini dello Zimbabwe in Botswana, dove lavora come domestica.

Nel 2003, gli immigrati sono stati accusati dal governo botswanese di aver portato un’epidemia che si era diffusa nel bestiame, l’afta-epizootica, facendo perdere al Paese una gran quantità di denaro che sarebbe dovuta derivare dall’esportazione di carni bovine, pilastro dell’economia del Botswana. Da quell’episodio si è optato per la costruzione del muro, con la benedizione dell’Unione Europea, che aveva concesso al Botswana un finanziamento di 34 milioni di euro per tale progetto.

Botswana e Zimbabwe sono oggi separati da una rete metallica elettrificata. La barriera si estende per circa 500 km. Un muro che racconta il nostro tempo: in pochi chilometri convivono grandi diseguaglianze economiche. Il Botswana, piccolo e dall’economia tra le più sviluppate del continente grazie soprattutto al traino del mercato dei diamanti e appunto del bestiame, e lo Zimbabwe, povero e costantemente instabile. La psicosi del virus ha fatto il resto.

Alcuni villaggi vicini al confine si sono ritrovati divisi in due e impossibilitati a raggiungere fonti d’acqua e territori prima accessibili per le attività di sostentamento come caccia e allevamento.

La barriera impedisce agli animali selvatici i naturali spostamenti migratori, ma anche gli uomini devono scontare la stessa sorte.

Gli attriti tra gli abitanti delle terre isolate e la polizia di controllo del Botswana sono aumentati e continuano, nonostante le autorità di Gaborone minimizzino affermando che molti tratti del confine restano liberi. Il Botswana deve fare i conti con un’immigrazione che, muro o non muro, c’è. La differenza demografica tra i due Stati è ampia: 1 milione e 700mila botswanesi e 12 milioni e 600mila zimbabweani, che riescono a garantire a basso prezzo tanti lavori che altrimenti non avrebbero manodopera. Come Mildred.

Secondo le cifre del governo, gli illegali in Botswana sono più di 100mila. L’immigrazione dallo Zimbabwe è regolamentata dal rilascio di un passaporto e di un visto. Le interminabili attese per ottenere questi due documenti (al termine della validità dei quali, comunque, scatta il rimpatrio forzato) ha spinto molti abitanti a trovare metodi illegali per andare oltre confine. Come Mildred.

Questa volta, a Mildred, è andata bene. Nessuna gang li ha fermati, rapinati, picchiati, violentando lei o altre donne del gruppo. Come secondo i dati delle ong internazionali e locali accade a sette donne su dieci. L’alternativa, in alcuni casi, è essere disponibili con i poliziotti di frontiera, che in cambio di sesso e denaro chiudono un occhio sui documenti delle persone come Mildred. Ed è una forma di stupro anche quello. Mildred stringe il suo bambino e ringrazia la sorte, andando a pulire per quattro soldi la casa di qualcuno, sperando che vada bene anche la prossima volta.

Illustrazione di Enrico Natoli

Mediateca

Untreated Violence

Breaking down the barriers to sexual violence care in Harare, Zimbabwe - Medici Senza Frontiere
Fariborz
isola di Nauru

di Christian Elia

Non c’è modo di sapere se Fariborz Karami avesse mai sentito parlare in vita sua dell’isola di Nauru. Non c’è modo di sapere se Fariborz Karami conoscesse le procedure di esternalizzazione delle frontiere che l’Australia, da anni, mette in pratica, appaltando (a pagamento) a isole come Nauru la reclusione dei richiedenti asilo.

Quello che si sa, per certo, è che Fariborz una mattina, a 26 anni, si è impiccato nella tenda sull’isola di Nauru dove viveva da cinque anni nell’estate del 2018.

Lo chiamano ‘processo di detenzione offshore’. Dal 2012, quando l’Australia ha riattivato quello che non è un muro fisico, ma un muro umano e mentale, Fariborz è stata la 12^ vittima. Perché un muro non è solo fatto di cemento e mattoni, rete spinata e barriere elettriche, ma anche delle sponde di un’isola di 21,2 km².

Fariborz, da cinque anni, aspettava di conoscere l’esito della sua richiesta di asilo politico all’Australia nel campo RPC3, che nell’isola di Nauru identifica la zona di reclusione dei nuclei familiari. Con lui sua madre, Fazileh, che continuava a scrivere lettere disperate a tutti quelli che immaginava potessero fare qualcosa per lei e i suoi figli, Fariborz, appunto, e il piccolo Alì, di 12 anni.

Anche Alì aveva registrato un video, da solo, con il cellulare, nel quale chiedeva, come faceva sua madre nelle sue lettere: “Perché ci odiate tanto?”. E la madre, disperata, diceva in ogni lettera: “Ho paura per i miei figli.”

Purtroppo aveva ragione. La ragione della loro fuga dall’Iran, paese dal quale provenivano, era molto semplice e spietata allo stesso tempo. Erano curdi. Ed essere curdi in Iran non promette nulla di buono.

Fariborz, quando aveva l’età di suo fratello, era stato picchiato dalla polizia iraniana, poi arrestato più volte, sospettato e accusato di far parte di un gruppo armato curdo che voleva la secessione del Kurdistan iraniano da Teheran.

Quando stava bene era un membro popolare nella comunità di rifugiati e richiedenti asilo dell’isola. Giocava, dicono anche bene, a calcio sul piccolo campo costruito all’interno del campo.

Una foto lo ritrae, con un sorriso amaro, mentre mostra una piccola coppa vinta in un torneo organizzato tra reclusi iraniani e la comunità locale. Gli amici lo ricordano come socievole e premuroso, ma sempre gravato peso di un lacerante senso di responsabilità per sua madre e suo fratello. Negli ultimi mesi aveva iniziato a stare sempre più da solo; in tanti avevano lanciato degli allarmi sulle sue condizioni mentali, anche il team di medici dell’isola, ma nessuno ha mosso un dito per Fariborz.

Solo quando Fariborz è morto, lo stato australiano si è fatto vivo con la madre, offrendole di coprire i costi della tumulazione sull’isola del ragazzo o del rimpatrio della salma.

Con dignità e orgoglio, la madre ha rifiutato: “Mio figlio non voleva vivere e morire né in questa maledetta isola, né in Iran”, ha dichiarato al Guardian, che ne ha raccontato la storia.

Un anonimo donatore, grazie a quegli articoli, ha coperto le spese per la traslazione della salma a Brisbane, alcuni membri della locale comunità iraniana hanno garantito per la madre e il fratello, in modo da farli assistere al funerale. Altri rifugiati, come Fariborz, hanno costruito sull’isola un memoriale, con quello che trovavano in giro.

Le autorità australiane non hanno rilasciato dichiarazioni, rispondendo che “non commentano singoli casi”.

illustrazione di Enrico Natoli

Mediateca

The Nauru Files

La mappa interattiva del centro di detenzione per migranti pagato dall'Australia