Raccontare rivoluzioni può essere una mistificazione. Perché le rivoluzioni si devono, o dovrebbero, vivere. E pensare, sempre, ogni giorno. O come l’orizzonte di Galeano, quello dell’utopia, che si sposta ogni passo più in là, o come l’esercizio quotidiano di una rivolta interiore contro l’indifferenza.
Il 1968, quest’anno, ha vissuto una nuova giovinezza. Come ogni anniversario, però, si è ammalato di retorica. Ed ecco che la rivoluzione di quella generazione, dai campus degli Stati Uniti d’America fino alla Sorbona di Parigi, passando per la Statale di Milano, ha finito per essere una sterile lotta tra reducismo e strabismo.
Coloro che rivendicano la loro rivoluzione come fosse un format, applicabile sempre e ovunque, o peggio, come unità di misura delle rivoluzioni mancate degli altri. E poi quelli che giudicano un movimento che non hanno vissuto, ignorando il contesto del tempo e riducendolo a mero bilancio da ragionieri con gli occhiali dell’oggi.
Ogni tempo ha le sue rivoluzioni, che hanno un senso e una storia in quel contesto, umano, politico, economico e culturale.
Nel caso del movimento del ’68, da sempre, questo orizzonte è stato eurocentrico e wasp (white anglosaxon person), tra la Gran Bretagna e gli Usa, tra la Francia e l’Italia. Ed è stato ricordato con quelle coordinate.
Q Code Mag, con una delle narrazioni collettive che predilige, ha tentato di allargare quello sguardo, raccontando il ’68 – e il suo oggettivo portato iconico e filosofico – con gli occhi degli altri, di chi guardava e di chi elaborava, nei contesti che viveva, quel che accadeva nel mondo.
Abbiamo voluto raccontare l’altra Europa, quelle dei regimi totalitari che imperavano in Grecia, Portogallo e Spagna. Abbiamo voluto raccontare il resto del mondo, dall’India alla Cina alla Jugoslavia non allineata, fino al blocco socialista, che aveva molte più sfumature di quante si vogliano raccontare. E se non troverete Praga, che ha un suo racconto già di massa, troverete invece Belgrado, Budapest e Mosca.
Perché solo allargando lo sguardo, ci pare, si può smettere di mettersi al centro di un racconto che immaginiamo globale e che, così facendo, si ammala di provincialismo.
Pubblicheremo, per oltre un mese, differenti racconti su differenti paesi, che abbiamo chiesto a compagni di strada che quei contesti camminano e abitano da tempo.
Non mancate di farci avere* i vostri, di racconti, perché le narrazioni collettive vivono di tanti sguardi.
Buona lettura
immagine di copertina di Enrico Natoli
*redazione@qcodemag.it
Neanche le dittature più granitiche sono monolitiche. La società, malgrado tutti gli sforzi repressivi, brulica di dissenso.
A volte succede che quel dissenso venga in malafede usato dai posteri negazionisti per negare appunto che quella dittatura sia mai esistita e che la libertà sia mai stata negata.
Il ’68 portoghese è l’anno in cui Salazar compiva quarant’anni di politica al vertice, dove era giunto quando nel ’28 fu chiamato al governo da una giunta militare golpista, che lo voleva come ministro delle Finanze per ripianare il debito pubblico e raggiungere l’agognato pareggio di bilancio senza ricorrere all’aiuto finanziaro internazionale. Ora ha 79 anni e il suo impero vacilla, ma non cade.
Eppure quello è il decennio in cui nelle colonie africane sono comparsi i movimenti di liberazione, scatenando guerre lunghe e dure che lasceranno il segno su intere generazioni.
Fra gli studenti nascono forme di contestazione che mirano a spaginare la convivenza tra legalità moderata e militanza clandestina, e tendono a scavalcare a sinistra lo stesso Partito comunista.
I soliti complottisti diranno che li finanziava la CIA proprio per minare le basi e il prestigio del partito filosovietico, ma intanto questi studenti devono fingere di guardare all’America e di importare mode esterofile, quando invece manifestano un’urgenza tutta personale.
Per protestare contro la loro guerra, quella che li vede partire per l’Africa e forse non tornare a casa tutti interi o non tornare affatto, fanno come i coetanei di mezzo mondo al suono della chitarra di Joan Baez: manifestano contro la guerra in Vietnam. Il ’68 portoghese comincia proprio così, con i cortei di gennaio davanti all’Ambasciata USA, che si concludono con cariche e arresti.
Non che negli altri ’68 siano mancate le manganellate, ma il Portogallo è pur sempre il Paese in cui non esistono né i partiti politici né l’habeas corpus, ed è piuttosto ampio il concetto di pratica sovversiva attentatrice delle gerarchie statali e della sicurezza nazionale.
D’altronde circolano di nascosto non solo i libri di Marx ed Engels, ma anche quelli di Malraux, Sartre, Beauvoir e perfino gli opuscoli dei Testimoni di Geova. Insomma sono lontane sia Parigi che la provincia americana.
E a proposito di Francia e di America, il 6 giugno il coreografo Maurice Bejart porta un suo spettacolo a Lisbona. Ne approfitta per chiedere al pubblico un minuto di silenzio in memoria di Robert Kennedy, assassinato proprio quel giorno, e contro la violenza di tutti i fascismi, aggiunge. Salazar non gradisce e in Consiglio dei ministri chiede l’espulsione dell’artista. Approvata.
Il giorno dopo il Consiglio dei ministri torna a riunirsi. Ci sono misure urgenti da discutere, la nazione attende, ma il presidente chiede di nuovo l’espulsione di Bejart.
I suoi collaboratori si guardano in faccia: alcuni stupiti, altri, più addentro, solo imbarazzati. Non l’avevamo espulso ieri? Il fatto è che il dott. Salazar già da tempo dà segni di scarsa lucidità.
Ed ecco che il ’68 portoghese, all’interno della mitologia su quell’anno fatidico, diventa il simbolo più eloquente della decrepitezza del potere incapace di rigenerarsi.
Meno di due mesi dopo, durante un soggiorno estivo fuori Lisbona, Salazar cadrà da una sedia. L’impero vacilla, ma regge. L’imperatore cade, per non rialzarsi più.
A sostituirlo viene un suo ex delfino, Marcelo Caetano. All’inizio sembra voler aprire a quel dissenso brulicante, tanto da far parlare di “primavera marcelista”.
Dice una canzone di quegli anni, scritta dal poeta Ary dos Santos, che con versi allusivi provava a bucare le maglie della censura e arrivare ai festival pop della TV: “Con banderiglie di speranza/mettiamo in fuga la fiera./Siamo in Piazza della Primavera”.
Ma il regime si richiuderà nel Palazzo fino alla rivoluzione del ’74.
Per Salazar, morto il 27 luglio 1970, gli ultimi due anni sono segnati dalla demenza senile. Nessuno dell’entourage avrà il coraggio di dirgli che è stato destituito e li vivrà nella residenza ufficiale, dove gli organizzeranno persino interviste e comunicati radio alla nazione.
Una farsa in cui la colpa maggiore del Portogallo è il non aver dato i natali a un Risi o un Monicelli capaci di darci almeno il piacere postumo della rivalsa comica.
Ad Agrigento tutto arrivava in ritardo, gli autobus, le novità discografiche, le mode, la storia. Anche la gestazione del ’68 ad Agrigento avvenne con qualche mese di ritardo.
Nell’estate di quell’anno sulla terrazza dell’unico stabilimento balneare di san Leone, la marina della città, una ventina di amici, quasi tutti iscritti al primo anno di università, si incontravano di pomeriggio e discutevano.
Parlavano della notte passata che li aveva dispersi e dell’invasione di Praga, dei due tedeschi che erano spariti e del Vietnam.
Discutevano della teologia della liberazione, della rivoluzione culturale in Cina e del riformismo del PCI, delle occupazioni a Pisa e Palermo dove la maggior parte di loro avevano frequentato.
Degli scontri coi celerini, dei compagni arrestati, di Lenin e don Milani. Poi la sera qualcuno si ubriacava di vino cattivo declamando Rimbaud, altri intrecciavano amori su quella stessa terrazza, un paio andavano a studiare Hegel.
Rispetto ai ragazzi che si erano licenziati dal liceo un anno prima – azzimati, eleganti – erano tutti molto cambiati: capelli lunghi, barbe arruffate, e tutti ad annusare l’arrivo anche sul quell’estremo lembo meridionale delle province italiane del vento che soffiava da nord, da Torino, Milano, Parigi, Berlino, che attraversava le capitali europee e sembrava travolgere le città e il mondo apparecchiati dai genitori.
La terrazza dello stabilimento si affacciava sul mare. Alle loro spalle, su in collina, sorgeva la ‘città dei templi’ , quella ereditata dai genitori, dove due anni prima un intero quartiere era stato travolto da una grande frana provocata da una urbanizzazione dissennata, che aveva sfigurato irreparabilmente in un decennio l’intero profilo meridionale della città.
Quella quinta di palazzoni, un gigantesco diaframma di cemento, dalla terrazza dello stabilimento si poteva vedere benissimo, bastava girare le spalle al mare e guardare la collina. Ma durante quella estate del ’68 i ragazzi rimasero a discutere guardando il mare, le spalle alla città.
Cercavano di mettere a fuoco i cancelli delle fabbriche metalmeccaniche fra le nebbie torinesi, le risaie dei vietcong e i campanili di Santa Clara, le facce dei rivoltosi di Praga, i protagonisti lontani della rivoluzione in atto.
Alle loro spalle, sulla città dove erano cresciuti – i cortili, le viuzze, la grande medina del centro storico con i suoi asini e le capre, le grida degli ambulanti e l’acciottolato sconnesso – si allungavano le ombre dei nuovi palazzoni, mentre l’intera città si inoltrava vociante e stravolta fra gli scenari di una modernità di scarto, ispirata ad un insensato americanismo.
A quelle verticali dei palazzi sarebbero state presto affiancate dismisure anche orizzontali da un PRG che avrebbe disegnato una città di periferie attorno a un centro storico in disuso, con distanze da metropoli e senza un’idea di trasporto pubblico.
Ma tutto questo non era e non sarebbe stato visto da quella terrazza. La città era come invisibile. La presbiopia corrispondeva alla voglia di distanziarla, di tornare al più presto nelle sedi universitarie. Poi di restarci.
Ma forse durante l’estate del ’68 quei ventenni guardavano il mare anche perché sapevano che prima o poi lo avrebbero attraversato, che avrebbero viaggiato.
Non verso le città italiane o europee dove si arrivava in autostop e si trovavano ovunque i compagni, anche quelli che ospitavano, ma verso i paesi di cui si leggeva sulle pagine di Camus, di Marquez, di Hesse. Le terre oltre il mare, l’ Africa, l’America Latina, l’India: qualcuno di loro vi si era già avventurato, altri lo avrebbero fatto, qualcuno vi si sarebbe perso.
Quel vento viaggiava e faceva viaggiare, e come spesso accade viaggiando il tempo rallentava, si dilatava, lo spazio alterava le distanze, e ieri era lontano come un miraggio di luci in fondo alla pista nel deserto ed era vicino l’orizzonte sobbalzante oltre il parabrezza e la nuvola di polvere rossa. Appena dietro le palpebre chiuse, la rivoluzione sembrava vicina. Come la Cina di Bellocchio.
Poi, fra stragi e colpi di Stato, in Italia e nel mondo, quel vento e quel viaggiare sono passati.
L’immaginazione era stata al potere, ma solo nell’immaginazione, alla fine quella di una banda di terroristi allucinati: agli ultimi visionari lo aveva mostrato l’assassinio di Moro, mentre il binocolo si rovesciava e dileguava la distorsione ideologica e visiva. Craxi era al governo e a trenta anni molti si guardavano attorno spaesati.
Nei primi anni ’80 i pochi che erano tornati ad Agrigento dopo la laurea guardavano stupiti attorno a loro, come dopo una lunga assenza, il paradigma di un rovinoso oltraggio ambientale, un paesaggio urbano plasmato da un paradossale autolesionismo collettivo, una città scempiata dai suoi abitanti, dove si continuava a costruire abusivamente in piena valle dei templi.
Assieme alla critica astratta del consumismo, il ’68 aveva ispirato una generica e problematica sensibilità ambientalista, che cominciava a interrogare i testi canonici sui limiti dello sviluppo, sul senso della ‘umanizzazione della natura’ auspicata dal giovane Marx.
Qualcuno di quelli che erano sulla terrazza quindici anni prima scrisse e fece affiggere un manifesto che denunciava l’edificazione di un insediamento di villini abusivi in zona A, in piena zona archeologica, di cui nessuno mostrava di accorgersi. Poco dopo veniva aperto un circolo di Lega per l’Ambiente.
Ad Agrigento i suoi frutti più maturi il ’68 li ha dati forse venti anni dopo, quando un gruppo di giovani ambientalisti e qualche quarantenne memore di una terrazza sul mare e di una città invisibile, nei primi anni ’90 spaccarono la città sulla questione dell’abusivismo, rompendo omertosi e pluridecennali tabù.
Il loro candidato a sindaco non venne eletto per una manciata di voti.
Si ritrovarono in otto nella Piazza Rossa di Mosca, il 25 agosto del 1968, con i cartelli in mano e il destino già scritto di chi sotto un cielo già gonfio di pioggia va in cerca del vento di una primavera che per un momento sembrò soffiare più forte, spingendo da ovest e riportando la mente alle speranze di quel marzo lontano in cui la terra, dopo decenni di gelo, poco a poco ricominciò a respirare.
Accadevano fatti strani, a quei tempi, in Unione Sovietica sul limitare di una primavera che si annunciava diversa da tutte le altre. Oltre le fitte lame del gelo che allentava finalmente la morsa, sotto la coltre di ghiaccio che già si faceva lucida e trasparente, si scorgeva qualcosa di nuovo, uno strano riflusso di vita più impetuoso e impaziente dell’incedere usato di un marzo qualunque che bussa come sempre alle porte.
Nel ‘53 Stalin, il tiranno, era morto e il terrore, come ghiaccio, già si scioglieva in torrenti di acqua e di fango che scorrevano lenti, scoprendo alla vista e all’aria primaverile i poveri resti di un paese straziato, trafitto e ridotto al mutismo più cupo.
Ma l’arrivo della nuova stagione col gelo sciolse anche anche il silenzio. Fra i ciuffi di erba nuova, che spuntavano dalle distese d’acqua, la terra riprese il respiro e in quel momento avvenne un fatto inaudito alle orecchie di più di una generazione: poco a poco tornarono i suoni, i sussurri, le parole. E quelle strane creature apparse all’improvviso su quello sfondo di quegli anni che la storia avrebbe ricordato come l’epoca del “disgelo”.
Prima timide, evanescenti e poi più sfrontate, queste strane creature vennero alla ribalta, e schiarita la voce, iniziarono a raccontare. Alcune gettarono sul volto di pietra della Verità di partito, con pagine piene delle loro fosche memorie, tutto il buio di esistenze percosse dalla furia tutt’altro che eroica dei bolscevichi o incastrate sotto strati di gelo fra le viscere più nere e nascoste della
dittatura, i gulag; altre uscivano e si radunavano in strada, portando con sé i propri versi, a volte anche una chitarra, uniche armi con le quali combattevano la loro lotta di liberazione, quella dell’arte dalla gabbia di regole grigio cemento colata dall’alto del potere sovietico con un unico getto monocolore.
Altre ancora si dedicavano a espandere l’eco di queste voci nuove,
raccogliendole in riviste non ufficiali, quaderni dattiloscritti che gli stessi lettori provvedevano a ricopiare e diffondere nell’ombra.
Si chiamavano Solženicyn e Pasternak, cantori della furia disumana del potere, Okudžava, il bardo con la chitarra, Evtušenko e Voznesenskij, i poeti, Ginzburg, Osipov, Galanskov, Bukovskij, Deloné, giovani giornalisti, studenti, autori che contribuivano attivamente, ma in segreto, a muovere l’universo sommerso delle pubblicazioni clandestine.
Ma i più audaci di tutti, fra le creature saltate fuori al disgelo, erano due personaggi davvero bizzarri. Uno dei due si chiamava Nikolaj Aržak; il secondo, Abram Terc, prendeva il nome dall’eroe ebreo di una canzone diffusa fra i bassifondi di Odessa.
Entrambi pubblicavano su una rivista parigina racconti satirici in cui sbeffeggiavano non solo la passività e il conformismo che imperavano in URSS, ma anche il grigiore del canone letterario imposto dalle autorità sovietiche, che ovviamente non apprezzavano certe facezie. Tuttavia, erano obbligate loro malgrado a subirle perché l’identità dei due scrittori era ancora un mistero, ben coperto dai due nomi di fantasia.
Questo però non indusse alla resa il partito, ancor più intollerante nei confronti dei due sconosciuti in vena di frizzi e di lazzi da quando il Segretario del PCUS Nikita Chruščëv, sempre troppo indeciso e oscillante fra rigidità e riforma, era stato sostituito da Leonid Brežnev, che subito si mostrò risoluto fautore di una maggiore stabilità, pretesto rassicurante che, come spesso accade anche oggi, nascondeva l’intento più veritiero, ovvero il perseguimento del più becero immobilismo.
Nel settembre del 1965 il KGB riusciva a identificare i due burloni: Abram Terc era l’accademico Andrej Sinjavskij, Nikolaj Aržak era il traduttore e poeta Julij Daniel’.
Entrambi furono arrestati, processati l’anno successivo e condannati rispettivamente a sette e cinque anni di reclusione in un campo di lavoro, perché fosse chiaro a tutti che il Partito non amava gli spiritosi, che andavano puniti immediatamente e in maniera esemplare.
Tuttavia, i due scrittori, allontanandosi verso l’abisso del gulag, lasciarono dietro di sé un solco profondo. Con il rifiuto di dichiararsi colpevoli e di riconoscere il carattere politico delle loro opere letterarie, Sinjavskij e Daniel’ furono i primi a reclamare la liberazione dell’atto creativo dai lacci dell’ideologia, sfidando apertamente non solo in campo artistico l’autorità del partito.
Fu questo l’inizio della dissidenza. Da quel momento in avanti per molti intellettuali sovietici scrivere sarebbe diventato sinonimo di contestare, denunciare, resistere: alle condanne penali, agli internamenti e, più in generale, alla macchina soffocante e mastodontica delle istituzioni.
A poco più di un anno dalla condanna di Sinjavskij e Daniel’, nel maggio 1967, fu Solženicyn a denunciare le vessazioni del KGB e della censura inviando una lettera a tutti i delegati del Congresso degli Scrittori.
Le sue parole ebbero un’eco potente, che riuscì a sfondare la muraglia impenetrabile dei confini sovietici: risuonarono anche a Praga, nel novembre del 1967, come un presagio, a pochi mesi dalla bella stagione di riforme e di libertà arrivata nel ‘68 e passata alla storia come “Primavera di Praga”.
Il 1968 in URSS, invece, si aprì in un’aula di tribunale, dove si discuteva il caso di quattro giovani moscoviti, Jurij Galanskov, Aleksandr Ginzburg, Aleksej Dobrovolskij e Vera Laškova accusati di propaganda antisovietica.
Ginzburg era l’autore del libro bianco sul caso Sinjavskij e Daniel’,
Galanskov era incriminato per aver redatto e trasmesso all’estero la rivista illegale Feniks; Dobrovolskij era accusato di essere l’autore di uno dei testi pubblicati su Feniks, mentre Laškova aveva trascritto entrambe le raccolte. Tutti gli imputati furono dichiarati colpevoli: Galanskov fu condannato a sette anni di lager, dove restò fino alla morte nel 1972, Ginzburg a cinque anni, Dobrovolskij a due anni. Vera Laškova, condannata a un anno di reclusione, fu liberata pochi giorni dopo il processo.
Le vicende dei quattro richiamavano in maniera fin troppo evidente il caso di Sinjavskij e Daniel’ per passare inosservate.
Se a questo si aggiungono le violazioni procedurali commesse durante l’inchiesta, appare subito chiaro il motivo per cui al processo seguì un’ondata di sdegnate proteste.
Larisa Bogoraz, filologa e moglie di Daniel’, scrisse insieme al fisico Pavel Litvinov un appello che si rivolgeva non alle autorità sovietiche, evidentemente dure d’orecchio e non solo, ma all’opinione pubblica straniera. L’iniziativa generò la risposta di decine di lettere individuali e collettive e intensificò l’attivismo sociale nel paese, contribuendo alla formazione di un movimento di difesa dei diritti civili in URSS.
Le autorità, dal canto loro, neppure si sforzarono di dissimulare il proprio totale disinteresse nei confronti della questione dei diritti civili. E la Cecoslovacchia, immersa nel vivace fermento del rinnovamento, fu proprio il terreno dove la scarsa sensibilità del PCUS si mostrò in maniera drammaticamente evidente. Con l’intenzione di fermare il fervore riformistico cecoslovacco, che rischiava di offuscare l’autorità di Mosca e, quel che è peggio, di espandersi in maniera contagiosa in altri paesi socialisti, nella notte fra il 20 e il 21 agosto 1968 le truppe di cinque paesi membri del Patto di Varsavia invasero la Cecoslovacchia.
Ancora una volta il destino di Praga si legò a quello di Mosca, dove otto persone si trovarono nella Piazza Rossa per protestare contro l’invasione. Erano Tatjana Baeva, studentessa, Konstantin
Babickij, linguista, Vladimir Dremljuga, operaio, Vadim Deloné, Victor Fajnberg, critico d’arte, Natalja Gorbanevskaja, poetessa. Con loro i già noti Larisa Bogoraz e Pavel Litvinov. Quest’ultimo
mostrava un cartello con la scritta “Per la vostra libertà e la nostra”; Natalja Gorbanevskaja invece aveva con sé una bandiera della Cecoslovacchia.
L’esile folla di contestatori fu subito accerchiata e portata in arresto. Tutti i manifestanti subirono una condanna. Solo Tatjana Baeva, allora ventunenne, fu subito rilasciata dopo aver dichiarato, su suggerimento dei sette compagni di sciagura, di essersi trovata lì per caso.
In quegli ultimi giorni d’agosto, nell’aria che già portava l’odore d’autunno, ormai non c’era più traccia della speranza sottile di primavera, che altrove aveva spalancato finestre e aperto nuovi orizzonti. Sotto un cielo già gonfio di pioggia, l’Unione Sovietica, come un fossile vinto dal torpore dei vuoti rituali e travolto dal grigio dei dogmi di carta, sprofondava sempre più in basso, in una immensa, stagnante palude.
In un vicolo della città vecchia di Fiume esiste ancora oggi un club che è stato un luogo di culto per la fertile scena rock locale.
Il suo nome è Palach e la sua storia riporta indietro nel tempo all’anno 1968, quando Fiume – Rijeka – Jugoslavia, poteva sembrare sonnolenta a confronto con le scosse telluriche che parevano sovvertire ordini e gerarchie nel resto del mondo.
La Jugoslavia, sempre in difficile equilibrio tra i due blocchi, era stata scossa da una breve fiammata di proteste nel giugno di quell’anno, che aveva avuto il suo epicentro a Belgrado, dove si era verificato l’unico, violento, momento di contatto tra i manifestanti e la polizia. La scintilla era scoppiata la sera del 2 giugno, quando uno spettacolo di musica leggera era stato spostato all’ultimo momento in una sala al chiuso a causa della pioggia. I posti limitati erano stati in breve occupati dai membri delle Brigate volontarie che erano impegnate in lavori pubblici nella zona residenziale di Novi Beograd, dove si trovava anche la cittadella universitaria.
In breve si era arrivati a uno scontro tra i membri delle Brigate e gli studenti che premevano all’ingresso, conclusosi con l’intervento della polizia. Dopo una notte di subbuglio, la mattina seguente un corteo di studenti era partito, pronto ad arrivare nel centro della capitale, ma la polizia aveva deciso di fermarli ad ogni costo nei pressi di un sottopassaggio.
Qui l’atmosfera divenne presto surreale. Mentre polizia e studenti si confrontavano, erano giunti sul posto alti funzionari del partito e alcune autorità cittadine per cercare di placare gli animi.
Era arrivato anche Veljko Vlahović, che, da giovane rivoluzionario, nel 1936 aveva scritto un appello agli studenti jugoslavi, invitandoli ad andare in Spagna a battersi contro il fascismo. Vlahović aveva lui stesso combattuto in Spagna, dove aveva perso una gamba nella difesa di Madrid.
La calma in quel giorno di giugno non arrivò e anzi presero a volare i mattoni del vicino cantiere. Fu così che la milizia prese a manganellare senza pietà gli studenti che manifestavano chiedendo migliori condizioni, barricandosi dietro i ritratti di Tito e lanciando invettive contro la borghesia rossa, accusata di aver tradito i propri ideali.
Sul terreno rimasero oltre cento feriti, furono colpiti anche alcuni professori, mentre circolavano voci su possibili morti. Il corto circuito era completo. L’opinione pubblica si scoprì sotto shock e gli intellettuali espressero sostegno agli studenti, che nel frattempo avevano occupato le sedi universitarie, presto battezzate in Università rossa Karl Marx.
Il crescendo della tensione fu interrotto il 10 giugno, a una settimana esatta dagli eventi, da un discorso di Tito alla televisione di Belgrado, che rimane un capolavoro dell’arte machiavellica della politica.
Il presidente abbracciò le richieste degli studenti, promettendo inchieste sulle violenze della polizia, ma non mancò di invitarli a tornare a studiare, perché gli appelli degli esami erano vicini.
Niente di tutto questo sarebbe mai ovviamente avvenuto, ma il discorso rese euforici gli studenti, convinti che il presidente si fosse schierato dalla loro parte, e spense momentaneamente le tensioni. Nelle altre città jugoslave gli studenti manifestarono solidarietà ai colleghi belgradesi, ma poco si mosse.
All’Università di Zagabria mancò il sostegno del mondo accademico, come era successo nella capitale. In Kosovo la protesta assunse connotati nazionali. I vecchi rivoluzionari al potere riuscirono nel loro intento di soffocare la ribellione dei giovani.
Le radici del giugno 1968 in Jugoslavia, quella calda e ingannevole estate – come la definì il regista Goran Paskaljević nel titolo di un noto film, risiedevano negli anni precedenti. Nella riforma economica, che aveva aperto le porte al cosiddetto ‘socialismo di mercato’, ma soprattutto nelle teorizzazioni del gruppo Praxis che, sotto l’influenza della scuola di filosofia organizzata sull’isola di Korčula e delle letture di Herbert Marcuse ed Erich Fromm, portava avanti una critica della realtà circostante alla ricerca di un socialismo dal volto umano. Ma anche in fenomeni comuni al resto dell’Europa, con la rottura generazionale tra i padri, che avevano ricostruito il paese dopo la guerra, e i figli che non vi si riconoscevano più.
Abbondavano inoltre gli stimoli che arrivavano dal mondo occidentale, attraversato dai cortei. Anche in Jugoslavia si manifestava, con il beneplacito delle autorità, contro la guerra in Vietnam, mentre si moltiplicavano i ritratti di Che Guevara.
Già da tempo gli slogan terzomondisti risuonavano nelle piazze, come era accaduto nel 1961 in occasione dell’omicidio di Patrice Lumumba.
L’attacco verbale lanciato dagli studenti – da sinistra – contro il sistema, accusato di non mantenere le promesse, con i suoi stessi slogan, metteva a nudo le contraddizioni che ribollivano nella società jugoslava dell’epoca. Si protestava contro la borghesia rossa, che amava costruirsi le case di villeggiatura e fare shopping a Trieste. Si chiedeva una maggiore democratizzazione e libertà di stampa. Si reclamavano misure egualitarie per contrastare le diseguaglianze in aumento.
Tuttavia, la mancata saldatura tra le lotte studentesche e quelle operaie emerse sin dall’inizio con drammaticità, con i lavoratori che si schierarono con la classe politica contro i movimenti universitari. Le richieste di maggiore liberalizzazione erano destinate a infrangersi contro le resistenze del sistema e a lasciare il passo al crescere dei nazionalismi, i suoi portavoce estromessi dal potere, mentre le fratture tra le classi sociali emergevano nel mezzo della retorica.
La portata dirompente del 1968, tuttavia non si esaurì con le proteste di giugno. In Jugoslavia si seguiva infatti con grande apprensione l’evoluzione degli avvenimenti in Cecoslovacchia, dove la primavera di Praga, con la sua volontà di riformare il socialismo reale e di guadagnare indipendenza dal blocco sovietico, faceva esplicito riferimento all’esempio della Jugoslavia, che esattamente venti anni prima era uscita vincitrice da un braccio di ferro durissimo con l’Unione Sovietica di Stalin.
Non a caso la visita di Tito a Praga, avvenuta tra il 9 e l’11 agosto, era stata trionfale, con folle in strada a salutare la delegazione jugoslava. L’invasione da parte delle truppe del patto di Varsavia, avvenuta nella notte tra il 20 e il 21 agosto, fu condannata con forza da Belgrado, che vide materializzarsi l’incubo dei carri armati sovietici.
In un momento di tensione che rasentava l’isteria fu creata la Difesa territoriale, una milizia su base repubblicana, che sarebbe poi diventata, oltre vent’anni dopo, il fulcro degli eserciti che si contrapposero all’Armata jugoslava nella guerra degli anni ‘90.
E, grazie a un’intesa con Roma, la Jugoslavia decise di spostare le sue truppe posizionate presso il confine con l’Italia per rafforzare il fronte orientale.
Anche Fiume non rimase immune dagli echi del 1968.
La città, come il resto della Jugoslavia, viveva una fase tumultuosa di sviluppo economico, che si rifletteva in un maggiore benessere e una modernizzazione degli stili di vita. Segnata dalla partenza di massa della componente italiana nel dopoguerra, si ritrovava, a vent’anni di distanza, ad accogliere lavoratori che arrivavano da molti angoli della Federazione, attratti dall’industria pesante e dalla cantieristica. Un’integrazione in prospettiva nell’amalgama della società jugoslava, che però in quei primi anni mostrava le sue difficoltà, lasciando fiorire sacche di marginalità.
Nella seconda metà degli anni ‘60, come racconta lo storico fiumano Bruno Vignević, si diffondevano nuovi stimoli e prendeva forma una scena culturale autoctona, dopo che per molti anni i maggiori intellettuali cittadini erano giunti da fuori. Nonostante all’epoca in città si trovassero non più di 4000 studenti, durante il 1968 emersero alcuni segni di impegno politico diretto contro l’imperialismo occidentale.
Gli studenti inviarono un proclama, pubblicato dal quotidiano locale Novi List, contro l’occupazione israeliana del 1967 e organizzarono un concerto per raccogliere fondi a favore del popolo vietnamita, che si può considerare l’evento catalizzatore della scena rock fiumana.
All’indomani della repressione delle proteste nella capitale, in un incontro con i vertici cittadini, oltre a inoltrare richieste concrete per la risoluzione dei problemi legati alla vita studentesca, avevano espresso solidarietà ai colleghi belgradesi, pur non mancando di sottolineare il loro appoggio al presidente Tito.
Tuttavia, in una delle città simbolo della Jugoslavia operaia, dove i lavoratori sorpassavano di gran numero gli studenti, si materializzò ancora una volta l’impossibile incontro tra le lotte studentesche e quelle operaie, che la classe politica voleva evitare.
Come racconta Vinjević, i lavoratori condannarono l’attivismo studentesco con dei proclami sui quotidiani locali, nei quali espressero sostegno alla classe politica. La locale Lega dei comunisti, nel tentativo di placare gli animi, si dimostrò sensibile ad alcune delle richieste concrete che venivano dalle università. Gli studenti continuarono a negoziare spazi di espressione, il cui maggior risultato fu un progetto di teatro sperimentale caratterizzato dall’acronimo SEKS.
In quel frangente fu invitato in città il regista belgradese Želimir Žilnik, uno dei promotori della corrente cinematografica dell’Onda nera, che metteva il dito nel ventre molle delle contraddizioni della società jugoslava.
Poi, nell’agosto 1968 altre notizie in arrivo dall’Est avrebbero presto fatto irruzione nella vita cittadina. Quando i carri armati sovietici entrarono in Cecoslovacchia, circa 50mila turisti cecoslovacchi si trovavano sulla costa croata, molti dei quali nella sua parte settentrionale. Il turismo cecoslovacco nell’area gettava le sue radici in relazioni di lunga data, che risalivano ai tempi dell’Impero austroungarico, quando le élite boeme trascorrevano la villeggiatura in quella che era allora la perla del Quarnero, Opatija (Abbazia).
Dai primi anni ’60, in concomitanza con una relativa apertura sul piano interno, i turisti cecoslovacchi avevano iniziato a ottenere con più facilità i visti per la Jugoslavia ed erano ricomparsi sulle spiagge del Quarnero. In alcuni casi le avevano anche sfruttate come un trampolino per approdare nel blocco occidentale.
Nell’agosto del 1968 anche la moglie del leader cecoslovacco Ana Dubček, con i due figli, era arrivata sulla costa. Sarebbero stati i due maggiori esponenti della scena politica croata, Savka Dabčević-Kučar e Miko Tripalo, insieme con il sindaco di Fiume, a comunicarle la notizia dell’invasione. Ma al mare in Jugoslavia si
trovavano anche Ota Šik, il teorico delle riforme economiche, e Jiří Hajek, ministro degli Esteri. Il primo avrebbe raggiunto successivamente la Svizzera, mentre il secondo avrebbe proferito un accorato discorso alle Nazioni Unite contro l’invasione sovietica, prima di decidere di tornare in patria.
I turisti cecoslovacchi, colti di sorpresa dall’invasione sovietica, rimasero per alcune settimane bloccati sulla costa croata, seguendo con apprensione le notizie che arrivavano dalla televisione jugoslava. Di fronte a questi ospiti scomodi, le autorità locali jugoslave cercarono di mostrare un volto solidale, chiamando a una mobilitazione i cittadini per fornire aiuto materiale. In particolare si raccolse denaro per permettere ai cecoslovacchi di fare ritorno al loro paese, una volta riaperte le frontiere.
Alcuni di loro riuscirono ad attraversare il confine con l’Austria e a prendere la strada del blocco occidentale. Pur nella tragedia dell’esilio, i profughi cecoslovacchi, non incontrarono difficoltà ad essere accettati da altri paesi. Erano istruiti, provenivano dalla classe media, l’incarnazione perfetta delle vittime del comunismo che tutti avrebbero voluto accogliere.
VARLJIEVO LETO ’68 – IL FILM SULL’ESTATE CALDA DEL 1968 DI GORAN PASKALJIEVIC
Nei giorni dell’invasione sovietica della Cecoslovacchia, un gruppo di studenti di una facoltà tecnica fiumana si trovava in un viaggio studio a Pilsen, presso gli stabilimenti della Skoda. Dopo i primi giorni in cui parteciparono alle manifestazioni, furono presi e rispediti in Jugoslavia.
Tuttavia, uno di loro, Željko Morović, era riuscito a scattare alcune fotografie degli scontri, che furono pubblicate dal quotidiano Novi List ed esposte in una mostra cittadina.
“Quest’ultima fu uno degli eventi di punta del 1968 cittadino” continua Vinjević, “perché in quell’occasione i fiumani ebbero l’occasione di vedere di prima mano immagini autentiche dell’occupazione sovietica e delle reazioni dei cittadini cecoslovacchi”.
Sull’onda di quella partecipazione, il leader della Lega degli studenti fiumani, Igor Mrduljaš, propose di ribattezzare il club studentesco con il nome fortemente emotivo di Palach, in onore di Jan Palach, il giovane praghese che si diede fuoco per protestare contro l’invasione sovietica. La classe politica locale acconsentì, mentre era impegnata a placare il malcontento con l’attuazione di alcuni progetti infrastrutturali.
Nonostante un tentativo di cambiargli nome– ribattezzandolo Ivo Lola Ribar, in onore di un altro eroe rivoluzionario che però per molti giovani all’epoca simboleggiava l’ordine costituito – per tutti e ancora oggi il club sinonimo della cultura alternativa fiumana porta ancora il nome Palach.
Da una decina d’anni Jan Palach è ricordato su una targa esposta di fianco all’entrata. E rimane testimone di una temperie in cui, nella particolare posizione politica del paese, in un difficile equilibrio tra i blocchi, gli studenti univano istanze provenienti dall’est e dall’ovest, per parlare delle falle del loro sistema ed esprimere la voglia di ribellione che attraversava il continente. E di uno scontro tra ribellione e sistema, tra vecchi e nuovi aneliti rivoluzionari che difficilmente riuscivano a capirsi.
Come nel resto del mondo, ma con i dovuti distinguo, l’India non è stata immune al fermento della fine degli anni ‘60, ai disordini studenteschi e le proteste per i diritti civili.
Nel 1968 l’India era indipendente da 21 anni. La mezzanotte tra il 14 e il 15 agosto 1947 segnò l’inizio di una nuova era per due neonate nazioni: l’India, laica e a maggioranza hindu e il Pakistan, teocratico e musulmano.
La partizione dell’India Britannica – la più grossa migrazione di massa nella storia dell’umanità –rese profughi 14 milioni di persone tra hindu, musulmani e sikh scatenando un circolo di violenza che ha fatto circa due milioni di morti.
La morte del Mahatma Gandhi -il “Padre della nazione”, nei cui confronti il paese si è raramente posto in maniera critica – per mano di un estremista hindu nel 1948 non fece che aggravare le tensioni interreligiose e sociali.
La migrazione forzata, le divisioni su base religiosa e la natura violenta della partizione lasciarono una scia di odio e un clima di ostilità che ancora oggi serpeggia tra le due comunità. Già nei primi decenni dopo l’indipendenza, iniziarono a definirsi quelli che saranno poi i problemi irrisolti della “più grande democrazia al mondo”: sovrappopolazione, alti tassi di povertà, tensioni sociali, castali e religiose, carenza di infrastrutture e corruzione diffusa.
«Uno degli aspetti più importanti dell’esercizio di costruzione della nazione nell’India post-coloniale è stato l’omogeneizzazione culturale portata avanti dal governo centrale e l’imposizione dell’Hindi come lingua ufficiale comune», spiega Karthikeyan Damodaran, dottorando in studi del Sudest Asiatico all’Università di Edimburgo, «che ha scatenato disordini in molti stati di lingua non-hindi, in particolare nelle zone tamil. Le agitazioni a Madras nel 65 furono le prime del loro genere, e hanno messo in mostra lo scontento dei tamil rispetto alla politica linguistica del governo indiano, veicolato dagli emergenti partiti etnonazionalisti. Con il crescere delle agitazioni, le proteste hanno assunto forme violente, fino alla garanzia che l’inglese sarebbe rimasto seconda lingua ufficiale».
Tra il ’66 e il ’67 la recessione colpì l’economia indiana, causando una diminuzione nella produzione e un aumento della disoccupazione: il malcontento era tangibile.
«Le elezioni del 1967, mezzo secolo fa, hanno determinato delle profonde fratture nell’edificio politico e sociale della nazione, dall’istituzione del sistema elettorale nel 51-52», scrive V Krishna Ananth su DNA, «fratture che hanno assunto molte forme: ciò che è emerso nel ’67 è stata la frammentazione della realtà socio-politica indiana come nazione “cucita insieme”, artificiosamente, nel 1947».
Nel ’67 le elezioni si tennero in gennaio. La popolarità del Partito del Congresso, il partito della dinastia Nehru-Gandhi che ha dominato la storia dell’India repubblicana, era in calo: la morte di due leader di spicco, Jawaharlal Nehru prima e Lal Bahadur Shastri poi, aveva indebolito la leadership del partito creando diverse fratture interne, mentre le opposizioni stavano creando un fronte unico contro lo strapotere del Congresso.
È in quegli anni e negli strascichi del colonialismo – come il conflitto tra i zamindar (feudatari e proprietari terrieri) e i braccianti (proletari) – che vanno ricercate le origini di una scissione che ha caratterizzato la storia della sinistra indiana.
Nel 1967, nel villaggio di Naxalbari, nel Darjeeling, in Bengala Occidentale, una sezione del Partito Comunista (Marxista) Indiano capeggiata da Charu Majumdar, Kanu Sanyal e Jangal Santhal diede inizio a una rivolta armata per ridistribuire le terre ai braccianti che lavoravano nelle piantagioni di the.
Il Siliguri Kishan Sabha (una delle sigle dell’associazionismo contadino in Bengala), di cui Jangal era il presidente, appoggiò il movimento iniziato da Sanyal e imbracciò le armi.
In breve tempo, molti tribali Santhal e contadini proletari si allearono contro i proprietari terrieri locali per distruggere le strutture capitaliste. La rivolta in Bengala, brutalmente sedata, fu la miccia che innescò una serie di movimenti rivoluzionari a guida comunista in aree remote – spesso tribali – nella parte nordorientale del paese.
L’ascesa del naxalismo corrispondeva alla crescita del comunismo militante nel paese, che vide la creazione del Partito comunista indiano Marxista-leninista (Cpi-ml) nel 1969 e l’emergere di gruppi ribelli come il Centro Comunista Maoista (Mcc) e il People’s War Group (Pwg). All’inizio degli anni ‘70 il naxalismo era diffuso in quasi tutti gli stati, a eccezione dell’India occidentale. Nel 1980, si stima fossero circa trenta i gruppi attivi, con 30mila militanti.
I Naxaliti davano voce ai membri più poveri e socialmente emarginati della società (i popoli tribali e i Dalit, i fuoricasta del sistema sociale indiano, un tempo detti intoccabili) e aderivano alla dottrina maoista di una rivoluzione guidata dai contadini. Hanno portato avanti una guerriglia a bassa intensità contro proprietari terrieri, uomini d’affari, politici e forze di sicurezza, danneggiando le infrastrutture, i trasporti, le comunicazioni e le linee elettriche grazie ad una fitta rete di basi operative disseminate in aree forestali remote.
I Naxaliti avevano stabilito una forte presenza nelle sezioni più radicali dei movimenti studenteschi a Calcutta, tanto che molti studenti abbandonavano gli studi per unirsi ai guerriglieri. La battaglia quindi non era più circoscritta alle campagne o alle terre da redistribuire, ma si era estesa alle città e ai centri urbani. Majumdar, figlio di un freedom fighter, aveva dichiarato l’inizio della “annihilation line”, che imponeva ai guerriglieri di assassinare i nemici di classe (proprietari terrieri, imprenditori, professori, poliziotti, politici di destra e di sinistra), anche in maniera individuale.
“L’annientamento del nemico di classe non significa soltanto liquidare gli individui, ma significa anche distruggerne l’autorità politica, sociale ed economica”, scriveva Majumdar nella sua raccolta, “Otto Documenti Storici”, base ideologica del naxalismo. L’allora governatore del Bengala, del Partito del Congresso, mise in atto brutali contromisure per arginare l’azione dei guerriglieri tramite le forze di polizia, che non disdegnavano la tortura e l’incarcerazione illegale.
Lottavano per la terra (i contadini) e per la foresta (i tribali), e in molti casi cadevano vittime della repressione: si battevano per la conservazione forestale e l’agricoltura cooperativa, fornendo strutture educative e mediche nelle zone forestali e rurali più isolate.
A Srikakulam, la lotta era capeggiata da un insegnante di scuola che guidò i tribali in una serie di scioperi del lavoro, sequestrando i cereali ai ricchi agricoltori e ridistribuendoli ai poveri. In Telangana, la lotta era guidata da un veterano del movimento comunista.
Il conflitto tra il progresso, lo sviluppo sfrenato, e la protezione delle terre e dei diritti degli aborigeni ha continuato ad alimentare le attività dei Naxaliti, a loro dire sostenute dalle popolazioni tribali. Il movimento è stato però anche violento, soprattutto dal 2005, scontrandosi con una brutale operazione anti-guerriglia: oltre tremila persone sono state uccise nel conflitto tra il governo e i militanti, e 350 mila tribali sono stati cacciati dalle loro terre.
La fine della terza guerra indo-pakistana nel 1971 portò alla creazione del Bangladesh dal Pakistan Orientale, una vittoria per il governo del Congresso che aveva appoggiato i separatisti e innalzava così il suo indice di consenso.
In quegli anni, la popolazione indiana aveva superato i 500 milioni, aggravando l’annosa crisi alimentare che affligge il paese.
Gli effetti della crisi petrolifera del 73 si abbatterono sul subcontinente sotto forma di una forte recessione e di una crescente disoccupazione, alimentando un’inflazione dilagante che, unita alla scarsità di cibo, in poco tempo, fece esplodere scioperi e disordini su larga scala. Il sostegno dei poveri e delle classi medie al Partito del Congresso era definitivamente eroso.
Gli studenti nello stato del Gujarat iniziarono una protesta contro l’aumento dei prezzi della mensa; la polizia rispose con cariche sproporzionate, scatenando un’ondata di proteste in tutto lo stato. La rabbia dei giovani era indirizzata principalmente verso il governo corrotto e il suo apparato repressivo. Inizialmente il movimento, detto poi Nav Niram, si diffuse in maniera spontanea, senza il supporto di un partito politico o una guida riconosciuta.
Quando il governo del Gujarat diede le dimissioni, il movimento era già divampato anche in Bihar. Qui però, era capeggiato da un veterano socialista gandhiano, Jayaprakash Narayan, noto come JP, sigla con cui fu poi battezzato anche il movimento. I problemi economici e sociali, così come le accuse di corruzione al governo, furono all’origine dei crescenti disordini politici in tutta l’India, culminati nel Movimento JP in Bihar.
Le opposizioni indissero uno sciopero a livello statale che si concluse con colpi di arma da fuoco sulla folla e la morte di otto studenti del JP Movement. La tensione era altissima. Nello stesso anno, a Patna, capitale del Bihar, JP organizzò una manifestazione per chiedere le dimissioni dell’assemblea legislativa alla quale l’esercito rispose con l’arresto di 1600 agitatori e 65 leader studenteschi.
JP non si fece intimidire e indisse la Sampurna Kranti, la Rivoluzione Totale contro il governo. Un mese dopo, le ferrovie paralizzavano il paese con uno sciopero di 20 giorni per l’introduzione della giornata lavorativa di otto ore, che coinvolgeva 1,7 milioni di dipendenti.
Intanto nel 1975, l’Alta Corte di Allahabad aveva dichiarato Indira Gandhi colpevole di aver commesso irregolarità e brogli durante le ultime elezioni.
I partiti di opposizione scesero in piazza con scioperi e proteste a livello nazionale chiedendo le sue immediate dimissioni: la popolarità dell’“Imperatrice d’India” non era mai stata così bassa.
La sua risposta ai disordini crescenti in tutto il paese fu l’imposizione dell’Emergenza Nazionale, la più grande minaccia alle fondamenta democratiche del paese e uno dei periodi più bui e controversi nella storia repubblicana indiana.
Con l’Emergency, iniziata il 26 giugno del ’75il governo centrale ha assunto, per 21 mesi, ampi poteri in nome della difesa del law and order nel paese: giustificando la sospensione delle garanzie costituzionali con lo la millantata minaccia alla sicurezza nazionale, Indira Gandhi ha di fatto azzerato molte libertà civili, rinviato le elezioni a livello nazionale e statale, liquidato i governi statali che sono stati sostituiti da persone leali alla famiglia e imprigionato circa mille leader e attivisti politici dell’opposizione.
Gli scioperi e le proteste di qualsiasi tipo erano stati messi fuorilegge, le detenzioni arbitrarie (circa 140mila) e la tortura di attivisti e dissidenti erano all’ordine del giorno, così come l’utilizzo dei maggiori media per diffondere la propaganda governativa. Nel frattempo, il primogenito Sanjay, a capo dell’amministrazione statale, definiva un programma di controllo delle nascite tramite campi di sterilizzazione forzata su oltre otto milioni di persone nel tentativo di contenere la crescita demografica.
L’Emergenza fu sollevata nel marzo del 1977, e il governo indisse nuove elezioni e le opposizioni, unite nel Janata Party contro la “dittatura del Congresso”, portarono a casa una schiacciante vittoria.
Anche il Rashtriya Swayamsevak Sangh, un’organizzazione di destra che diventerà la spina dorsale e il braccio armato del futuro Bharatiya Janata Party (BJP), il partito del premier Narendra Modi, era parte dell’alleanza.
E’ in questo breve interregno di due anni che vanno ricercate le origini dell’ascesa del BJP come contrappeso allo strapotere e agli abusi del Congresso, senza dimenticare che molti dei suoi leader si fecero le ossa proprio nell’opposizione all’Emergency.
Il fermento rivoluzionario di quegli anni era stato brutalmente represso da una dittatura che trovava la sua giustificazione nella costituzione stessa e aveva così trasformato le tensioni sociali in una bomba a orologeria, che esploderà nelle proteste della classe operaia tra il ’77 e il ’79.
Paradossale destino dei muri, perfino di quei 155 chilometri di calcestruzzo e filo spinato che separavano Berlino ovest dalla DDR, è l’incapacità di fermare la circolazione di idee.
Nel 1968, anche nel cielo diviso di Berlino, la speranza di cambiamento circolava impunita e sovrana a est come a ovest, con la Primavera di Praga da una parte e le proteste degli studenti dall’altra, ad alimentare suggestioni reciproche.
In quell’anno che tanto volle far la storia riuscendoci clamorosamente, il centro di Berlino Est era un enorme cantiere: venivano fatti brillare gli edifici che portavano ancora tracce di guerra e distruzione, sostituiti a pieno ritmo da nuove costruzioni pronte per l’imminente celebrazione del ventesimo anniversario della DDR.
A livello urbanistico quella speranza di rinnovamento era sublimata nell’altezza record della torre televisiva di Alexanderplatz, simbolo delle nuove conquiste dell’uomo socialista.
Dall’altra parte del Muro, invece, si radicalizzavano le manifestazioni contro le leggi speciali emanate dal governo di Bonn, proteste iniziate un anno prima con l’uccisione dello studente Benno Ohnesorg da parte di un agente della polizia (agente di Berlino Ovest che poi, decenni più tardi, si scoprì essere informatore della Stasi, a testimonianza di quanto il ’68 tedesco fosse tutt’altro che diviso).
I giovani delle due repubbliche tedesche interagivano anche con scambi politici diretti, rigorosamente autogestiti, con esponenti della sinistra extraparlamentare che si recavano in visita a Berlino Est per imparare a costruire il socialismo, ai tempi in cui Mosca e i suoi satelliti ancora facevano presa sull’immaginario rivoluzionario.
Anche i primi comunardi della storica Kommune 1 di Kreuzberg prendevano appunti da dissidenti di Berlino Est, come Robert Havemann (Dialettica senza dogma). Il Mokka-Milch-Eis-Bar sulla Karl-Marx-Allee e case private ospitavano riunioni clandestine, in cui ci si scambiavano pamphlet politici, volumi di Marx ed Engels, consigli per eludere la repressione della polizia e, non meno importanti del libro rosso di Mao, vinili di Dylan e Hendrix.
Gli inni rock alla libertà, portati di nascosto oltre il Muro o registrati segretamente da emittenti dell’ovest, finivano per influenzare anche le canzoni rosse istituzionali, come quelle del gruppo Hootenanny di Berlino Est (poi ribattezzato con il nome più ortodosso di Oktoberklub), inizialmente favorevole al partito unico della DDR, ma poi sempre più polemico e desideroso di cantare “la quotidianità per com’era davvero” (Reinhold Andert).
Da quell’esperienza politica alcuni “rocker” dell’est elaborarono nel tempo struggenti canti di libertà, come la celeberrima Am Fenster dei City, che prospettando orizzonti privi di ogni confine si rivolgevano al cuore cicatrizzato della nazione.
Era sempre il ’68 intratedesco quello parafrasato dal dissidente della DDR Wolf Biermann, che a un paio d’anni di distanza cantava l’attentato a Berlino Ovest contro il leader studentesco Rudi Dutschke, un attacco neofascista che aveva sconvolto la sinistra mondiale: “Tre pallottole contro Rudi Dutschke, non erano solo per lui, se ora non ci difendiamo, il prossimo sarai tu. Ah, Germania, i tuoi assassini! È il solito vecchio strazio di sangue e lacrime […] quei signori ne han già fatti fuori parecchi, anziché farvi distruggere, distruggete il loro potere!”.
Ma nello stesso album, accanto alla critica alla Germania occidentale e al suo “cancelliere nazista” Kiesinger, una sferzante accusa è diretta anche al regime della SED nella canzone “Non aspettate che arrivino tempi migliori: Molti si daranno da fare affinché il socialismo vinca oggi, oggi e non domani, la libertà non arriva mai troppo presto! E il mezzo migliore contro il socialismo (lo dico forte) è che voi lo costruiate davvero, il socialismo!”
Le richieste di un “socialismo dal volto umano”, di cui si era fatto promotore il leader cecoslovacco Alexander Dubček, riecheggiavano dunque anche nella DDR, insieme alle correnti anti-autoritarie che, muovendo da Berkeley, Parigi e dalle piazze di Berlino ovest, scavalcavano il Muro dal trampolino dei media occidentali.
A Berlino Est quel vento di riforme era molto meno impetuoso che a Praga, eppure i cittadini della DDR se ne erano fatti inebriare. Alcuni giovani sfidavano la polizia sfoggiando capelli lunghi e jeans d’importazione, pur sapendo di andare incontro a sorveglianze meticolose da parte della Stasi; anche le ragazze che non appartenevano all’associazione giovanile della FDJ osavano indossare minigonne al posto della rigida uniforme blu.
La ribellione contro i padri – che nell’ovest della Germania, ancora poco de-nazificata, era declinata nel motto ‘Non fidarti di nessuno che abbia più di 30 anni’ (Trau keinem über 30) – nella DDR antifascista assumeva le forme di un malcelato disprezzo per i vecchi funzionari di partito, convinti di rappresentare comunque la metà migliore della Germania.
Fra quei padri antifascisti c’era chi denunciava i propri figli ribelli, come Horst Brasch, viceministro alla cultura, e chi invece per la protesta dei figli perse carriere di prestigio.
Nella cultura pop tedesco-orientale, il 1968 era l’anno in cui nei cinema spopolava il musical Heißer Sommer, che ambiva a rappresentare i sogni della nuova generazione – beninteso, quelli approvati dal partito – in una “calda estate”, così diversa per la Germania di cinquant’anni fa che aveva dato tante speranze ai due stati di quella nazione.
Quello stesso anno sanciva anche l’insperata vittoria della squadra di calcio Union di Berlino Est, che potè finalmente qualificarsi ai campionati europei, salvo poi doversi ritirare all’ultimo in seguito alle proteste della UEFA contro la repressione militare della Primavera di Praga.
Fu proprio l’invasione della Cecoslovacchia da parte di mezzo milione di soldati del Patto di Varsavia – sostenuta dal governo della DDR, pur senza partecipazione diretta della Nationale Volksarmee (che i sovietici preferirono non coinvolgere per evitare ricordi di 30 anni prima, in cui Praga veniva occupata da tedeschi con tutt’altra uniforme) – ad arrestare il timido disgelo e la speranza di cambiamento.
I cittadini della DDR che, almeno all’inizio, avevano accettato la
costruzione del Muro come una misura “necessaria”, ora con l’invasione di Praga si confrontavano con la realtà più cruda del socialismo reale.
Alcuni esposero la bandiera della Cecoslovacchia distribuendo volantini a sostegno di Dubček (la Stasi ne sequestrò 3500 solo a Berlino); altri fra intellettuali e scrittori – affinando pratiche di autocensura (con le celebri e controverse “forbici in testa”) – provavano a prendere posizione (fra cui Reiner Kunze, Günter Kunert, Volker Braun, Brigitte Reimann e Irmtraud Morgner).
Una manifestazione di protesta sotto l’ambasciata dell’URSS a Unter den Linden sfociò in arresti e anni di reclusione: in tutta la DDR vennero condannati 1200 cittadini, tre quarti di essi avevano meno di trent’anni.
All’alba del 21 agosto, all’est il vento del Sessantotto già si stava congelando. Secondo Rudi Dutschke – l’attivista simbolo di quegli anni, che tanto influenzò militanza e pensiero critico sia nella BRD che nella DDR – questo avveniva perché circolava una falsa idea di socialismo: per lui l’unico socialismo possibile era quello che non si fermasse all’Elba, ma che fosse espressione senza confini di tutti gli “Stati Uniti d’Europa”.
La liberazione dell’essere umano su basi internazionaliste ed egualitarie, accanto all’irrinunciabile libertà individuale, restavano le modeste aspirazioni dei sessantottini tedeschi. Anche loro, da una parte e dall’altra del Muro, erano realistici e chiedevano l’impossibile.
Nel 1968 in Cina c’è la Rivoluzione Culturale. Anzi, il “’68 cinese” è già in corso da due anni e Mao sta pensando di mettere fine al caos creato dalle guardie rosse spedendole tutte in campagna a “imparare dai contadini”.
Il 27 maggio, il Quotidiano del Popolo pubblica un editoriale dal titolo Una grande tempesta per esaltare i movimenti giovanili che stanno percorrendo tutto l’Occidente e aderirvi incondizionatamente, ma a luglio operai e contadini entrano nelle scuole per mettere in riga le diverse fazioni di guardie rosse che si stanno massacrando a vicenda. Basta, è suonata la campanella, fine della ricreazione.
A partire da settembre, 17 milioni di giovani cinesi sono caricati su treni, autobus, carretti e biciclette per essere spediti nelle più remote provincie a zappare la terra. Alcuni ci resteranno dieci anni interrompendo gli studi, tant’è che oggi si parla ancora di shiluo de yidai, ‘generazione perduta’.
Quando si tratta di ricordare quegli eventi, in Cina bisogna attenersi alla versione ufficiale. È quella messa nero su bianco da una risoluzione del Partito del 1981, secondo cui la Rivoluzione Culturale “non è stata in nessun modo una rivoluzione o una forma di progresso sociale”, bensì “un periodo di caos a livello nazionale, erroneamente lanciato da un leader, sfruttato da una cricca contro-
rivoluzionaria, che ha arrecato gravi disastri al Partito, al Paese e alla gente di tutte le nazionalità”.
È forse la più esplicita critica a Mao Zedong, che però viene in qualche modo salvato facendogli fare la parte del rimbambito, plagiato dalla banda dei quattro, in cui spicca naturalmente una donna da bruciare sul rogo: Jiang Qing, la quarta moglie del grande Timoniere. Demaoizzazione nel nome di Mao, è stata definita.
Due anni fa cadde il cinquantenario della Rivoluzione Culturale e il refrain dominante sui media di Stato cinesi fu: “Tranquilli, non tornerà mai più”.
Perché è inequivocabilmente bollata come quel periodo orribile in cui i figli si ribellarono ai padri, gli studenti ai professori, la gente fu uccisa per strada e il mondo fu capovolto.
Adesso va invece alla grande Confucio – lo stesso che nel “lungo ’68 cinese” era simbolo di vecchiume da estirpare – tornato il grande pensatore che offre i fondamenti ideologici alla plurimillenaria civiltà cinese. Confucio ratifica l’esistente – del resto fu lui stesso a dire che non si era inventato nulla – in cinque relazioni fondamentali: governante e suddito, padre e figlio, marito e moglie, anziano e giovane, amico e amico. Sono tutti rapporti diseguali tranne l’ultimo, apparentemente, ma anche in questo caso c’è sempre l’amico più vecchio e quello più giovane, quello più ricco o con più potere e quello un po’ più miserello.
Se le relazioni sono rispettate, la famiglia è armonica e quindi anche la società. Punto. Ma torniamo al ’68 cinese. Durante il cinquantenario della Rivoluzione Culturale ho incontrato alcuni dei giovani di allora, quelli della “generazione perduta”, e ho avuto una percezione più complessa di quella che tende a restituirci la narrazione ufficiale: fu sicuramente un periodo di caos e di violenza, ma anche di liberazione.
Forse l’unico momento in cui un’idea di uguaglianza fece capolino nella storia cinese (un’uguaglianza forse rozza e violenta, ma non c’è forse violenza necessaria anche nella Place de la Concorde che fonda la nostra modernità?). Ed è questo l’elemento forse più intollerabile oggi. Per cui scatta la rimozione.
Quando si parla di “versione ufficiale”, in Cina, si parla di un messaggio che viene dall’alto e che segna i comportamenti. Di recente ho partecipato al progetto di una casa di produzione cinese – Sanduotang – che consisteva nel ripercorrere l’itinerario fatto da Michelangelo Antonioni per girare il suo documentario Chung Kuo del 1972, dunque in pieno “lungo ’68 cinese”.
Noi dovevamo documentare il grande cambiamento degli ultimi 40 anni di “Riforme e Aperture”. Sono andato in giro per la Cina a incontrare alcune delle persone che Antonioni aveva filmato 46 anni fa e a vedere i luoghi percorsi dalla sua troupe.
Chung Kuo finì in seguito stritolato nella lotta di potere tra la la banda dei quattro e Zhou Enlai (era stato Zhou a invitare Antonioni in Cina) e fu condannato nel 1974 in quanto “propaganda anticinese”. Il pretesto estetico fu il fatto che “il clown anticinese Antonioni” (così fu definito in un opuscolo che raccoglieva tutte le critiche contro di lui) aveva ritratto “cose negative” – cioè anche la povertà – mentre l’esterica della Rivoluzione Culturale imponeva scene eroiche e monumentali che celebravano Xinhua, la nuova Cina.
Ouyang Juanjuan era la direttrice di un ristorante di Suzhou dove la troupe fece delle riprese. Nel 1974 le fu imposto di scrivere una critica contro Antonioni che uscì sul Quotidiano del Popolo.
Oggi ha 72 anni ed è una cuoca di successo, ma quando ricorda quell’episodio prova un incredibile rimorso – fino alle lacrime – e tramite noi ha voluto chiedere ancora scusa a Enrica Fico Antonioni, la moglie del regista che era con lui in Cina nel 1972.
Credo nella sincerità di Ouyang Juanjuan, ma il suo rimorso mi è parso quasi eccessivo, ho avuto la percezione che il suo dolore non fosse tanto dovuto al male inflitto a Michelangelo Antonioni, ma che compatisse soprattutto se stessa, la giovane donna della Rivoluzione Culturale che compì un atto oggi considerato riprovevole, vergognoso. Lei è stata complice di quel “periodo di caos (…) che ha arrecato gravi disastri al Partito, al Paese e alla gente di tutte le nazionalità”. È a questo livello profondo che agisce la narrativa ufficiale.
Ma la frattura rappresentata dal dolore di Ouyang Juanjuan diventa invece continuità nel ricordo di altri due “sessantottini” cinesi. Prima dicevamo di demaoizzazione nel nome di Mao e in Occidente concepiamo la Cina attuale come il mondo alla rovescia rispetto a quella di mezzo secolo fa. Invece, Ma Yongxi e Ma Dongcheng, già capi villaggio in una poverissima zona dello Henan ripresa da Antonioni, vedono una continuità da Mao Zedong a Xi Jinping, passando attraverso Deng Xiaoping.
Hanno introiettato quell’idea di socialismo cinese come teoria dello sviluppo, o “sviluppismo”, che è il cavallo di battaglia del Partito, ciò che crea consenso.
Ma Dongcheng, 72 anni, mi dice che “ai tempi di Mao andava bene Mao, oggi va bene Xi”. Il che significa che non c’è contraddizione, lo sviluppo di oggi ha le sue radici in quella “povera” Cina. E Ma Yongxi ha visto questo filo rosso della storia con i suoi occhi: “Sono nato in una casa di fango, poi mi hanno dato una casa di mattoni e dopo il capodanno cinese mi verrà assegnato un grande appartamento moderno in un palazzo nuovo d zecca”. Ha 81 anni e riesce ancora a vedere il futuro: “Zhima kaihua jiejie gao”, “l’albero di sesamo è sempre più alto”, mi dice.
In tante parti del pianeta il 1968 era un anno di incendi. Una generazione presentava – con tutte le contraddizioni del caso – il conto a quella precedente, chiedeva tutto, non voleva più fare sconti.
Era come se il mondo emerso dalla fine dei conflitti mondiali, guarito dalle ferite di guerra, si guardasse allo specchio e chiedesse di più, subito, senza compromessi.
C’erano, però, delle stanze buie, e molte le abbiamo raccontate in questo speciale. Una di queste, particolarmente buia, aveva inghiottito la Grecia e la sua gioventù.
La notte tra il 20 e il 21 aprile 1967, infatti, tutte le contraddizioni della Grecia avevano indossato una divisa militare e si erano presentate in forma di golpe. Il difficile equilibrio emerso in un Paese che gli accordi di Yalta avevano assegnato al blocco capitalista, ma che contava un’immensa forza progressista, passato per una sanguinosa guerra civile negli anni Quaranta, aveva prodotto un colpo di mano dei militari.
Ecco che il loro ’68, i giovani greci e tutti i dissidenti, lo avevano vissuto sulla loro pelle nel biennio precedente, finendo assassinati o incarcerati o in esilio.
Nikolaos Papadogiannis, lecturer in Storia Contemporanea all’università di Pryfisgol a Bangor, in Galles, ha studiano quella diaspora, in particolare in Germania, dove vivevano fianco a fianco dissidenti politici e migranti economici, che guardavano da lontano una Grecia oppressa dalla dittatura nota come Regime dei Colonnelli, mentre il ’68 in Germania e in Europa esplodeva in tutto il suo portato libertario.
“Sono tanti i casi di cittadini greci che fuggirono in Germania Ovest durante la dittatura, ma la maggior parte di loro erano migranti economici, solo una parte aveva un coinvolgimento politico. Un caso, noto, è stato quello di Costas Simitis, che si rifugiò in Germania dopo aver piazzato una bomba ad Atene. Ma come ho detto, la maggioranza della comunità era di lavoratori: dopo gli accordi tra Atene e Berlino, furono più di 400mila gli emigranti. Tra loro nacquero delle associazioni, come la Federation of Greek Communities o la Hellenic Student Societies, che si caratterizzarono per un ruolo politico, sia nel contrasto dall’estero alla dittatura in Grecia sia nelle evoluzioni politiche in Germania Occidentale.
Le attività di questi a altri gruppi di migranti politicizzati avevano tre obiettivi principali: la legislazione locale, gli elementi tedeschi vicini al regime greco e gli uomini d’affari tedeschi conservatori. La loro vita non era facile: il governo tedesco non vedeva di buon occhio la militanza politica, sia da parte dei rifugiati che da parte dei migranti economici, e il rischio di arresto o deportazione era concreto.
Inoltre, per loro, dopo l’ascesa del regime, era quasi impossibile tornare a casa, soprattutto se finivano nel mirino della League of Greeks of West Berlin, un’organizzazione di immigrati greci pro-regime che segnalava i ‘sovversivi’ ad Atene, che poteva privarli del passaporto.
Ma questo non impedì a molti di loro di militare attivamente, fino ad atti di violenza, come attentati dinamitardi contro consolati greci nel Paese o scontri con sostenitori del regime, o con forme di resistenza culturale. In questo senso va ricordata la figura di Kostas Papanastasiou, proprietario della taverna TerzoMondo a Berlino Ovest, che fin dagli anni ’70 era un punto di riferimento dell’opposizione al regime e degli intellettuali – come il grande Mikis Theodorakis – che si opponevano ai Colonnelli”.
Anche in Italia non mancò un legame forte con la dittatura in Grecia, sia a destra, dove per anni si è parlato di un tentativo di eversione nera sul modello della Giunta dei Colonnelli, sia a sinistra. Questo clima, poi, si infiammerà con l’attentato a Piazza Fontana a Milano, che per molti militanti di sinistra simboleggerà il tentativo delle forze reazionarie di prendere il potere in Italia.
Anche a sinistra, la solidarietà con l’opposizione in Grecia, era molto sentita. Nelle prime ore del 19 settembre 1970, in piazza Matteotti a Genova, lo studente di geologia Kostas Georgakis si diede fuoco per protestare contro la dittatura del governo di George Papadopoulos. La Giunta ritardò l’arrivo delle sue spoglie a Corfù per quattro mesi, temendo reazioni pubbliche e proteste.
All’epoca la sua morte provocò scalpore in Grecia e altrove, in quanto fu la prima tangibile manifestazione della profondità della resistenza contro la Giunta.
Bisognerà aspettare il 1973, e l’insurrezione degli studenti del Politecnico di Atene, per vedere il tramonto della dittatura in Grecia. Studenti, operai e intellettuali si barricarono negli edifici universitari e, la leggenda vuole, alla richiesta di consegnare le armi e uscire risposero “Venite a prenderle”.
La repressione fu brutale, ma nel giro di un anno – anche per causa della crisi internazionale con la Turchia rispetto alla questione cipriota – la dittatura crollò, restituendo a una generazione intera di ragazzi greci il loro ’68.
Il ’68 latinoamericano è stato il detonatore di vittorie e tragedie che si consumarono negli anni ’70. Lungo tutti gli anni ’60 la moltiplicazione di collettivi sui diritti dei soggetti sconfitti dalla Conquista (la colonizzazione delle Americhe a partire dalla metà del XV secolo) aprì una stagione.
Indigeni, contadini, afroamericani, donne che crearono una rete di relazioni che spesso daranno vita a movimenti politici, a sindacati a gruppi di lotta armata.
Questo perché il contesto è quello della Guerra Fredda e il subcontinente latinoamericano era “incastrato” nella parte del mondo sotto diretta giurisdizione degli Stati Uniti.
Questo elemento geopolitico si era tradotto nell’impossibilità di portare avanti istanze riformiste radicali senza che il combinato disposto degli eserciti e l’assistenza di Washington lo stroncassero.
Così era successo nel 1954 in Guatemala dove il governo progressista di Jacobo Arbenz fu destituito da un colpo di Stato e così succederà in Brasile dove nel 1964 i militari destituiscono il riformista Joao Goulart inaugurando una stagione lunghissima.
Ci fu l’eccezione però, la rivoluzione cubana del 1959. Un movimento di avanguardia diventato di popolo contro una dittatura legata agli Stati Uniti. In quella rivoluzione si forgiò Ernesto Che Guevara, morto in Bolivia nel 1967, e diventato l’icona del ’68.
Le idee di Guevara, che al di fuori da Cuba non ebbero mai successo e questo perché Cuba era caso irripetibile in America Latina, funsero da carburante per ciò che sarebbe successo negli anni a venire.
Abbandonata momentaneamente l’idea che la democrazia potesse essere lo strumento per il cambiamento, fioriscono gruppi armati che seguendo la linea guevarista diventano conosciuti in poco tempo, anche se sempre minoritari.
L’esercito Rivoluzionario del Popolo in Argentina, i Tupamaros in Uruguay, il MIR in Cile e tanti altri che negli anni ’70 opereranno in contesti rurali o urbani senza mai riuscire nell’impresa che era riuscita ai Castro.
Ma il ’68 latinoamericano non sono queste esperienze di guerriglia, ma i grandi movimenti popolari che acquisiscono protagonismo.
In Argentina nel 1969 40mila operai dell’industria dell’auto occupano per giorni la seconda città del paese, Cordoba, e l’esercito deve usare la mano pesante per recuperare il prestigio.
In Colombia vengono occupate massicciamente terre del latifondo dai contadini che non accettano la timida riforma agraria del governo. In Uruguay il governo perde il controllo sull’università e i licei occupati e difesi con tutti i mezzi dagli studenti che chiedono cambiamenti.
In Messico la Piazza delle Tre culture si tinge di rosso quando l’esercito reprime gli studenti che protestavano contro il regime alla vigilia dell’apertura dei Giochi Olimpici.
Il ’68 è stato fondamentalmente questo, sangue, lacrime e speranze di cambiamento che si alimentavano non solo dalle idee del Che, anzi, ma con forte influenza ad esempio degli scritti di un teologo peruviano, Gustavo Rodriguez, che parlava di un Cristo della liberazione.
In Brasile Paulo Freire teorizzava la pedagogia degli oppressi. Nel cuore della foresta amazzonica, un raccoglitore di caucciù, Chico Mendes, pensava alla nascita del primo sindacato dei popoli della foresta.
Il ’68 è l’ondata di cultura popolare che si traduce in musica. La primavera dei cantautori da Cuba fino all’Argentina che intonano canzoni di lotta e di amore.
E’ il teatro dell’oppresso e la scuola di fumetto rioplatense. Sono i racconti patafisici di Julio Cortazar e il realismo magico di Garcia Marquez.
Il ’68 è un’esplosione che coinvolge tutti e ogni istanza della società. Da questo insieme di movimenti e di creatività nasceranno l’esperienza di Unità Popolare in Cile e del Frente Amplio in Uruguay, il ritorno di Peron in Argentina e le esperienze nazionaliste di Velazco Alvarado in Perà e di Omar Torrijos in Panama.
Dalla saldatura tra marxisti e cattolici nascerà il fronte Sandinista che porta a termine le seconda rivoluzione latinoamericana nel 1979 dopo anni di lotta. Ma come detto, la cornice era quella della Guerra Fredda e dell’inalterabilità degli equilibri stabiliti.
Il ’68 latinoamericano si concluderà con il massacro degli anni ’70 in Sud America e degli anni ’80 in Centro America. La reazione fu violenta, avevano osato di mettere in discussione lo status quo antico e moderno.
Ma i fermenti non si spensero mai, e riafiorarono alla fine delle dittature con il protagonismo ancora dei movimenti sociali, i senza terra, i cartoneros, i desplazados, gli afroamericani, le donne, le madri dei desaparecidos.
Un ’68 lungo ormai quasi mezzo secolo, con il mondo che ha continuato a girare, permettendo ad alcuni sopravvissuti di diventare addirittura presidenti dei loro paesi, come Mujica in Uruguay e Bachelet in Cile. Lo stesso per diversi protagonisti di lotti di base di quell’epoca, come Lula in Brasile e Morales in Bolivia.
Ondate di sinistra e di destra che però non hanno intaccato il patrimonio di idee e la soggettività politica dei movimenti che continuano ad organizzare società altrimenti disgregate.
E poi una scoperta, la democrazia in America Latina oggi è solida e si possono cambiare le cose senza dovere armarsi. Quello che nel ’68 non si poteva oggi si può, se i partiti continueranno ad essere la materializzazione delle istanze popolari e se i dirigenti non dimenticheranno mai da dove provengono e a chi devono il loro ruolo.
Il 17 novembre 2016 ha luogo in Tunisia la prima udienza della Istanza di Verità e Dignità, commissione incaricata di documentare e investigare sui crimini commessi dai governi autocratici tra il 1955 e il 2013. La sala è gremita. Si tratta di un momento storico, perché dopo anni di repressione brutale e ingiustizia diffusa, la Tunisia degli sconfitti può finalmente parlare.
Parlano le madri dei ragazzi uccisi durante le proteste del 2011. Parla la madre di Kamel Matmati, uomo di Ennahda (principale formazione politica islamista del Paese), scomparso nel 1991; morto dopo tre giorni dall’arresto in seguito ad atroci torture, la famiglia venne informata del decesso solo nel 2009, dopo anni di vane ricerche e crudeli umiliazioni. Parla il ricercatore Sami Brahim, otto anni di carcere e violenze. Parleranno il giorno seguente Bechir Laabidi, sindacalista di sinistra, incarcerato e torturato con il figlio per la loro attività politica e il fratello del comunista Nabil Barakati, arrestato e seviziato fino alla morte per avere preso parte alla cosiddetta “rivolta del pane” a cavallo tra il 1983 e il 1984 e per la sua opposizione al presidente Habib Bourguiba.
Parleranno in molti nelle successive udienze, rompendo il muro di silenzio e menzogna che ha protetto autocrati, oppressori e tutti coloro che con questo sistema si sono arricchiti.
“Vi parlerò, sulla base di una breve testimonianza, delle violazioni che ho subito, della lotta che abbiamo condotto perché il nostro Paese inventasse una sua via, frutto della discussione e della partecipazione di tutti i suoi figli”.
Il 17 novembre parla anche l’intellettuale Gilbert Naccache, fra i fondatori nel 1963 del gruppo di sinistra indipendente GEAST (Groupe d’études et d’action socialiste en Tunisie) e della rivista affiliata Perspectives Tunisiennes, undici anni di detenzione tra il 1968 e il 1979.
Il ‘68 in Tunisia comincia presto, nei primi anni Sessanta. La Tunisia, diventata indipendente il 20 marzo 1956, è un Paese da costruire, liberare dal giogo coloniale, instradare verso la modernità e verso una società nuova e giusta. Al timone è Habib Bourguiba, che sarà presidente della Repubblica dal 1957 al 1987, quando verrà rimosso e sostituito da Zine El-Abidine Ben Ali a seguito del cosiddetto “colpo di stato medico”.
Nel 1962 un giovane ed entusiasta Naccache rientra da Parigi con la sua laurea in agronomia in tasca per contribuire al futuro della Tunisia. La sua militanza si intreccia con il suo lavoro presso il Ministero dell’Agricoltura, dove si occupa di unità cooperative di produzione:
“Prima sorpresa: l’ufficio era composto di 4 ingegneri francesi, ancora coloni in Tunisia, e da un ingegnere, sempre francese, che aveva lavorato su temi affini in Marocco, un’esperienza nota per essere stata disastrosa. Questo ufficio era supervisionato da un capo servizio, un ingegnere agronomo originario di una ricchissima famiglia del sud”.
Il racconto di Naccache riassume in poche frasi i problemi che ancora affliggono la Tunisia contemporanea. Il Paese tutto da costruire non si è mai veramente reso indipendente dai rapporti coloniali, rimanendone legato a doppio filo in termini di sudditanza economica e di agenda politica.
Non solo, il Paese che si voleva più libero e giusto sarà nei decenni governato da élite che professano la modernizzazione senza curarsi della redistribuzione delle risorse, a livello socio-economico come geografico.
“All’epoca [del processo di modernizzazione] mi chiedevo che ne sarebbe stato di tutti coloro che sarebbero rimasti sfollati [nelle campagne]. I quartieri periferici delle grandi città, specialmente di Tunisi, sono state una prima risposta a queste domande.”
Naccache si riferisce con molta probabilità a quartieri di Tunisi come Ettadhamen o Douar Hicher, ma lo stesso si potrebbe dire di centri come Kasserine o Sidi Bouzid, fra i principali teatri della thawra al-karama (Rivoluzione della Dignità) del 2011.
A preoccupare il giovane agronomo non era soltanto la questione di una modernizzazione prepotente. Negli anni Sessanta si gioca in Tunisia una aspra battaglia politica per decidere a quale modello tendere: se recidere le relazioni coloniali con la Francia o meno, se perseguire un modello di tipo cooperativo, oppure affidarsi a uno Stato centralizzato e sulla pianificazione dall’alto.
E come racconta Naccache, gli anni Sessanta sono anni di repressione.
Nel 1961 viene assassinato a Francoforte Salah Ben Youssef, principale rivale politico di Bourguiba (era stato condannato a morte in contumacia già nel 1957), voce e leader delle proteste del sud tunisino impoverito da una gestione centralistica e basata su una meccanizzazione di larga scala compatibile con gli interessi dei grandi capitali, ma non con la conformazione socio-economica dell’area.
Tra il 1962 e il 1963 numerosi oppositori politici vengono arrestati, sospettati di avere complottato un colpo di Stato. Stessa sorte toccherà a molti giovani tunisini progressisti, critici verso uno Stato sempre più avvitato sulle proprie logiche e sulle élite legate al partito di Bourguiba, il Neo-Destour, poi divenuto Parti Socialiste Destourien (sarà infine rinominato Rassemblement constitutionnel démocratique con l’ascesa di Ben Ali al potere).
Giovani antimperialisti sostenitori del panarabismo e della causa palestinese, affascinati dalle nuove correnti teoriche della sinistra, segnati dalla guerra di indipendenza algerina e da quella in Vietnam. Giovani che vogliono ribellarsi contro uno Stato-padre che opprime senza dare, come descritto magistralmente nel libro Le Syndrome Bourguiba di Aziz Krichen, il quale individua in questo rapporto conflittuale un topos ricorrente della cinematografia e della letteratura tunisina moderna.
Tale rapporto conflittuale è particolarmente evidente nelle dinamiche all’interno del sindacato studentesco UGET (Union Générale des Etudiants de Tunisie), inizialmente legato al Neo-Destour, ma apertosi progressivamente a correnti di sinistra più massimaliste proprio in reazione ai sempre più invasivi tentativi di controllo da parte del partito.
“Di fronte all’impossibilità di esprimersi apertamente, impossibilità aggravatasi nel 1963 a seguito del divieto da parte del Neo-Destour di qualsiasi espressione indipendente, l’unica possibilità rimasta a coloro che volevano esercitare la loro libertà di opinione ed espressione passava per la clandestinità. È proprio questa azione clandestina, in particolare del gruppo di cui facevo parte, Perspectives, che il potere cercherà di schiacciare con ogni mezzo, a cominciare dalla grande repressione del 1968”.
Il ’68 in Tunisia inizia a marzo e Naccache ne aveva già parlato nel libro “Qu’as tu fait de ta jeunesse? Itineraire d’un opposant au régime de Bourguiba (1954-1979)”.
“È dunque la repressione, una repressione generale contro tutto ciò che riguardava i giovani, di un’ampiezza e soprattutto di una ferocia che non avevamo immaginato”, scriveva nel 2009.
A seguito di uno sciopero generale, guidato da un comitato studentesco legato a Perspectives, il 20 marzo 1968 centinaia di persone vengono arrestate e torturate, compreso Naccache.
Nel luglio dello stesso anno viene istituita la Corte per la Sicurezza di Stato, al fine di processare i ‘ribelli’, che saranno condannati a pene tra i 16 e i 14 anni di prigione.
Naccache sarà graziato con la residenza sorvegliata nel 1970, l’anno della caduta di un altro uomo chiave della vita politica tunisina, il Ministro della Pianificazione Ahmad Ben Salah, grande sostenitore del modello cooperativo. Viene nuovamente arrestato nel 1972, rimanendo in carcere fino al 1979.
Del 1968 in Tunisia non rimane memoria, se non quella legata alla repressione.
Nel corso dell’udienza Naccache insiste non tanto sulle violenze subite, quanto sulle motivazioni che spingevano tanti giovani a opporsi a un governo definito “moderno e pragmatico”, ma profondamente ingiusto nella sua continuità con il passato coloniale, così come nelle basi per il futuro che poneva.
Rivendica l’importanza degli ideali che li agitavano, fatti di dibattito, partecipazione, slancio rivoluzionario. Traccia in modo commovente una serie di fili che legano in un’unica grande storia di lotta i morti di tanti anni di opposizione alla Stato autocratico e alle élite cui questo era asservito.
“Vorrei estendere questo omaggio a tutti i feriti della rivoluzione. Hanno pagato con la loro salute, il loro sangue, una parte del loro corpo, le difficoltà che continuano a subire tutt’oggi, specialmente perché non sono riconosciuti per quello che sono, il fatto di essersi levati con altri giovani contro la dittatura, l’assenza di libertà e prospettive di vita.
Grazie a voi che avete reso possibile che vivessimo questa giornata, che da sola compensa una parte delle delusioni che abbiamo avuto nel corso di questi cinque anni.
Vorrei ringraziare ancora tutti coloro che, in ogni momento, hanno opposto resistenza alla volontà di marginalizzare il popolo. In particolare, tutti i miei compagni che hanno manifestato, qualunque sia stato il modo, il loro rifiuto di questi metodi. Il mio pensiero è rivolto in modo speciale a coloro con i quali ho condiviso il mio soggiorno in svariate prigioni, su tutti il compagno Noureddine Ben Khedher, scomparso senza poter vedere la maniera originale con cui si sarebbero realizzati i suoi sogni.
Ognuna di queste persone ha portato la propria pietra alla rivoluzione che sarebbe più tardi venuta, rifiutandosi di richiedere la domanda di grazia loro offerta hanno indebolito l’autorità di uno Stato repressivo e quella, più personale, di Bourguiba e dei presidenti che sono seguiti: “l’uccisione simbolica” del padre, come avrebbe detto Freud, poteva finalmente avere luogo, ed è avvenuta nel gennaio 2011.
A tutti loro, morti o anche viventi che siano, io dico grazie, non avete vissuto invano.”
Difficile non commuoversi. Sette anni dopo quell’inverno 2011, la Tunisia sembra rivivere nuovamente le dinamiche dei primi anni della sua indipendenza, stretta tra aspre lotte politiche, una scellerata agenda di sviluppo e tante anime scoraggiate ma ancora capaci di scendere in piazza e protestare.
“Lo sappiamo bene, la verità è rivoluzionaria”. Così si conclude l’udienza di Naccache. Davanti a una storia che si ripete nelle sue ingiustizie, raccontarla è un modo di resistere e lottare. Non fosse altro che per una questione di dignità.
Il 24 aprile del 1968 il colonnelo Houari Boumedienne inaugura
Boulevard Che Guevara. Non una strada qualsiasi, ma il vecchio
Boulevard de la Republique, una delle arterie più importanti della città, affaccio sul mare, per quasi un chilometro, della capitale algerina.
Nulla di strano per l’Algeria di quegli anni, divenuta il simbolo della lotta contro l’oppressione coloniale e razziale. Nel 1968 l’Algeria non ha ancora compiuto sei anni. Dopo sette anni di guerra atroce, la più sanguinosa della decolonizzazione africana con quasi un milione di morti, segnata da attentati, da un uso generalizzato della tortura e dalla deportazione in campi di internamento di quasi un terzo della popolazione, l’Algeria conquista la sua indipendenza il 5 luglio del 1962.
Sono gli anni della libertà, dell’ euforia, della rinascita dopo 132 anni di dominio francese.
L’Algeria di Ben Bella, leader terzomondista promotore e sostenitore di ogni guerra di liberazione, capofila del socialismo africano, diventa presto una Mecca per i rivoluzionari di tutto il mondo.
‘’I cristiani vanno al Vaticano, i musulmani alla Mecca e i Rivoluzionari ad Algeri’’, dice Amilcar Cabral, leader del movimento per l’indipendenza della Guinea-Bissau e di Capo Verde. Il Che si regala passeggiate alla Casbah e chiaccherate a colpi di sigaro con gli studenti universitari, Mandela si era addestrato durante la guerra di liberazione con l’Esercito delle Frontiere, e poi i Black Panters, che installano ad Algeri la loro sede estera, finanziati in tutto e per tutto dal regime algerino, i ribelli di Rodesia e Mozambico, e piu’ tardi l’Olp di Yasser Arafat.
Ad Algeri sbarcano centinaia di cooperanti francesi pronti ad aiutare la ricostruzione, arrivano i volontari sovietici, i medici cubani.
La stesso spirito libertario non sembra pero’ essere destinato agli
studenti algerini, ai sindacati, alle donne. Le moudjahidat, fondamentali durante la guerra, eroiche portatrici di bombe immortalate da Gillo Pontecorvo, sono escluse di fatto dal processo di ricostruzione. Fin dall’indipendenza il Fronte di liberazione nazionale (FLN) si impone come partito unico, lo stesso Ahmed Ben Bella diventa il primo presidente dell’Algeria con un colpo di mano, un colpo di stato secondo alcuni, come Ait Ahmed del Fronte delle Forze socialiste che dalla Cabilia si scaglia contro lo strapotere del primo presidente.
Ben Bella riesce pero’ a cavalcare l’euforia dell’indipendenza, si impone sulla scena internazionale e nazionale come un eroe della rivoluzione.
L’effort libérateur consenti dans l’enthousiasme et la fraternité
la plus pure doit nécessairement se prolonger dans l’effort constructif et créateur.
Ainsi nous aurons honoré la mémoire de nos héros et mérité la victoire et l’indépendance. Ainsi, la servitude coloniale aura été pour nous un accident de l’histoire.
(Ben Bella, settembre 1962)
Il paese è da ricostruire, l’economia è distrutta, sconvolta dalla partenza di centinaia di migliaia di pieds noir. Le Università si riempiono di giovani algerini, coscienti del ruolo fondamentale che dovranno giocare per la creazione di una nuova élite.
L’Unea (Unione nationale étudiants algeriens, ex Ugema) di Houari Mouffouk è potente, composta in gran parte da ex moudjahid, combattenti della guerra di liberazione, ci sono i fedelissimi dell’Fln ma anche i militanti comunisti.
La società algerina ribolle del fervore post coloniale. Ma l’euforia va incanalata, controllata, uniformata. Tutto cambia il 19 giugno del 1965 quando i carri armati del ministro della Difesa, il colonnello Houari Boumedienne invadono le piazze, chiudono l’aeroporto, bloccano i servizi di comunicazione. Il presidente
Ben Bella viene arrestato su ordine del suo fedele compagno di armi.
Il simbolo della lotta anticolonialista viene imprigionato e scompare per sempre dalla scena politica algerina.
L’Unea è una delle poche organizzazioni di massa a protestare
pubblicamente contro il colpo di stato.
Il Festival mondiale delle gioventù previsto per lo stesso anno viene immediatamente annullato. Gli studenti, come in ogni parte del mondo, diventano il primo bersaglio della repressione messa in atto dal Consiglio Rivoluzionario di Boumedienne, sapiente invece nel preservare a livello internazionale l’immagine della ‘Mecca dei Rivoluzionari’, come raccontano le stupefacenti immagini d’archivio raccolte nel documentario di Mohammed Ben Slama.
Per gli studenti inizia il calvario. Dal ’65 al ’67, si moltiplicano gli
arresti, le manifestazioni e gli scioperi repressi nella violenza. Lo stesso presidente dell’Unea Houari Mouffouk, viene arrestato.
I capi del movimento studentesco vengono torturati, a volte in quei stessi luoghi di tortura usati dai colonizzatori francesi.
Le assemblee studentesche si fanno sempre più rare, spiega la
ricercatrice algerina Malika Rahal nel suo Contestation étudiante, parti unique et enthousiasme révolutionnaire, riunioni lampo vengono organizzate nei corridoi, i leader studenteschi sono costretti ad agire nell’ombra.
Nel ’67 le cose iniziano a cambiare, o meglio, il regime, consapevole della necessità di poter controllare le università, compie un primo passo di avvicinamento.
Gli universitari invadono le strade della capitale il 5 giugno del 1967: questa volta non protestano contro il Regime ma scendono in piazza contro la Guerra dei 6 giorni, Israele e l’imperialismo USA. Il Centro culturale americano viene saccheggiato. Il regime non reprime la manifestazione anzi accoglie la richiesta degli studenti che chiedono venga instaurato il servizio militare per potersi arruolare contro il nemico sionista.
Nel ’68 però, mentre si rende omaggio a Che Guevara, la polizia, per la prima volta, fa irruzione all’interno delle Università, i leader dell’Unea vengono nuovamente arrestati.
Il movimento è sfiancato. Boumedienne sferra un altro coupe de
maître: nel 1969, quell’euforia rivoluzionaria che aveva invaso le strade di Algeri nei giorni dell’indipendenza, rivive con il Panaf, il festival panafricano, che incorona il paese maghrebino guida dei movimenti di indipendenza africani. Un evento organizzato ad arte per riaffermare la posizione internazionale dell’Algeria e riparare quell’immagine rivoluzionaria danneggiata dal colpo di stato del ’65.
Nelle immagini del documentario girato durante il festival da William Klein, si percepisce la trasgressività e il vento rivoluzionario che ancora una volta da al paese l’illusione di una libertà riconquistata.
Ma il regime va avanti: nel 1971 l’Unea viene definitivamente disciolta (resisterà soltanto la sezione estera), non ci saranno più sindacati studenteschi.
Boumedienne si può permettere soltanto delle organizzazioni giovanili legate all’FLN, necessarie anche per mettere in atto la sue
riforme di stampo puramente socialista. I giovani si riorganizzeranno nei ‘comitati di volontariato per la rivoluzione agraria’, lanciata lo stesso anno. L’opposizione al regime, non soltanto in ambito studentesco, non esiste più.
Bisognerà aspettare le manifestazioni del 1988 per vedere il paese
aprirsi al multipartitismo. Nascono i giornali privati. Nel 1991 vengono organizzate le prime elezioni libere.
Sappiamo come andata. E quell’ Abdelaziz Bouteflika, sapiente ministro degli esteri apprezzato in tutto il mondo, capace di far accogliere all’Assemblea dell’Onu Yasser Arafat con tanto di pistola al seguito, è ancora li’. Guida il paese dal 1999 ed è pronto ad essere incoronato la prossima primavera per un quinto
mandato.
“ero lì dove dovevo essere,
ho fatto quello che dovevo fare”
(epigrafe sulla tomba di Kádár János, segretario del partito socialista operaio ungherese 1956-1988)
“Accetti le mie condoglianze, lei è il primo uomo che conosco che porta un tale peso e carico di problemi e così poche gioie.”
E’ così che il segretario del Partito Socialista Operaio Ungherese János Kádár salutò il suo omologo cecoslovacco Alexander Dubček, al loro primo incontro, in un paesino della Slovacchia meridionale, ad appena due settimane dalla nomina di Dubcek a capo del partito.
Era il gennaio del 1968, non un anno come gli altri. Le politiche riformiste che Dubcek porterà avanti quell’anno per un “socialismo dal volto umano” si concluderanno con l’intervento militare degli altri paesi del patto di Varsavia, la notte del 20 agosto. Dubček capì il tono gioviale, accettò la battuta e sorrise.
Kádár non era un interlocutore come gli altri per Dubček. Non era come Gomulka, Ulbricht, Zhihkov e non era Breznev. Innanzitutto Kadar era ungherese e Dubček era slovacco, la Slovacchia era stata per secoli semplicemente Ungheria, con Bratislava (pardon, Pozsony in magiaro) capitale del Regno d’Ungheria per circa 300 anni. Al costituirsi della Cecoslovacchia il 28 ottobre 1918 a Bratislava, il 41% degli abitanti era ungherese. La Cecoslovacchia era nata come federazione (di per sé una istituzione reazionaria diceva Kádár) con una irrisolta questione nazionale al suo interno con gli slovacchi a recitare parte dei cugini poveri rispetto all’elegante Praga e all’industriosa Boemia. Kadar poteva capire meglio di altri le difficoltà di Dubček, primo segretario slovacco del partito comunista cecoslovacco dal 1921, con maggioranza ceca della segreteria avversa.
E poi senza i fatti del ’56 a Budapest, la prima rivolta antisovietica tra i paesi dell’est Europa non ci sarebbe stato la primavera di Praga.
Kádár era colui che aveva guidato il paese oltre il ’56, voltando le spalle al compagno di partito e primo ministro Imre Nagy, condannato a morte insieme a tanti altri cittadini, riportando però il paese alla normalità. Era stato colui che nel 1962 all’ottavo congresso del partito aveva parlato di avvenuto “consolidamento del socialismo in Ungheria“, frase che significò inizio della fase due, una stagione di piccole, ma importanti riforme, pur nella fedeltà all’alleanza con Mosca, che passerà alla storia come Comunismo al Goulash.
L’Ungheria degli anni ’60 pose limiti ai poteri della polizia segreta e vide l’allentamento della censura. Nel ’67 alla Fiera Internazionale di Budapest fu presentato agli ungheresi il simbolo dello stile di vita occidentale, la Coca Cola, che verrà poi prodotta in Ungheria dal luglio 1968 negli impianti della Fabbrica Liquori Magiara di Kőbánya (in Cecoslovacchia invece si produceva dal ’60 la Kofola, la Coca Cola autarchica).
Nel ’66 era partito il “Nuovo Meccanismo Economico” con aperture al commercio con l’estero, al mercato e alla piccola impresa. E nel ’66 era partito anche il Tancdalfesztival, alla lettera il Festival della canzone ballabile, unico nell’Europa d’oltrecortina d’allora, con tanto di urlatori e beatles magiari e la grande triade rock (le band Metro, Omega, Illés), la cui fama andrà ben oltre i confini nazionali.
A Kádár non piaceva Novotny, il leader cecoslovacco che precedette Dubček, lo reputava uno stalinista, si erano incontrati solo una volta, al confine, nel 1964 (un altro che Kadar non stimava era il rozzo Ceacescu, che non fu mai invitato in Ungheria, in 24 anni).
In quell’unico incontro con Novotny ci fu anche un curioso inciampo diplomatico: al momento dell’esecuzione dell’inno nazionale cecoslovacco si levò un rumore orrendo, metà banda aveva avuto, per sbaglio, lo spartito dell’inno indonesiano (si ripetè l’inno corretto, si sorvolò sull’accaduto, era già il 64, anni prima sarebbe stato ben più serio incidente).
Dubček e Kadar si incontreranno invece nel 1968 ben quattro volte, sempre su richiesta di Dubček, che vedeva in Kádár quasi un fratello maggiore, attribuendogli il ruolo non voluto di mediatore tra l’apertura alla linea di Dubček (dargli fiducia e rafforzare la sua posizione nel partito, non tentare di risolvere con la forza i problemi sociali) e il “ravvedimento di Dubček” (l’ammonimento sugli obblighi internazionali che gravavano su di lui).
“Ma veramente non sai quello che devi fare?” furono le parole di Kàdàr nel loro ‘ultimo incontro, a tre giorni dall’invasione, suggellate da un “le nostre strade non vanno nella direzione sperata“.
La soluzione formale per l’invasione ricalcò quella del ’56: una parte del partito comunista cecoslovacco che volle staccarsi da Dubček e chiese l’aiuto a Mosca, anche militare se necessario. L’Ungheria partecipò all’intervento; Kádár non si nascose, come comunista, come alleato di Mosca cresciuto sotto i principi dell’internazionale socialista, come politico pragmatico che aveva imparato per esperienza personale che nell’Europa degli anni ’60 era impossibile agire in disaccordo con Mosca, come ungherese che ama il suo popolo e vuole difendere le riforme introdotte, ben conscio che la risposta di Mosca le avrebbe cancellate.
Dopo l’intervento militare Kádár non fece alcuna uscita pubblica per settimane, scosso nell’intimo. All’ex ministro delle finanze, Nyers Rezső, che gli manifestò in privato il suo disaccordo con la linea tenuta dalla segreteria, rispose con un bellissimo “Anche noi non siamo d’accordo con noi stessi”.
Chi criticò pubblicamente la linea del partito però ne subì le conseguenze. In primis il grande fiolosofo marxista György Lukács ed altri esponenti della scuola di Budapest (il suo circolo filosofico), alcuni dei quali furono arrestati (tra questi il sociologo Hegedüs András, primo ministro riformista prima dello scoppio del ’56).
La società ungherese nel suo complesso, però, non fu particolarmente scossa dall’avvenimento, tranne rare eccezioni i popoli di oltrecortina vivevano nella diffidenza reciproca.
In Ungheria l’uomo della strada pensava spesso ai compagni socialisti come coloro che si ricordavano dell’Ungheria solo quando si trattava di salame ungherese o di mettere i piedi a mollo nel Balaton.
Non tutti la pensavano così a Budapest. La mattina del 20 gennaio 1969, attorno alle 13, l’ora di maggior traffico per le vie di Budapest, si dette fuoco il giovane Sándor Bauer, versandosi addosso una tanica di benzina, giusto davanti al Museo Nazionale, non a caso il teatro dello scoppio nel 1848 della “Lotta per la libertà”, i moti antiasburgo ungheresi, imitando il gesto compiuto il giorno prima a Praga da Jan Palach.
Sándor Bauer aveva sedici anni, proveniva da Jozsefváros, il quartiere operaio di Budapest, era appassionato di storia ed era considerato un ragazzo prodigio.
Morirà in ospedale dopo tre giorni, la famiglia fu avvisata in ritardo e solo per far firmare al padre la presa visione del certificato di arresto. Tutto fu messo a tacere, sui giornali uscì un solo trafiletto dopo due settimane che avvisava della morte del ragazzo.