Introduzione
Un progetto nato in collaborazione con la ONG Terre des Hommes

L’altra notte, quando la nuova Spagna di Sanchéz ha accolto i migranti, io ero con mia figlia, che ha quasi due anni e a volte si sveglia ancora. Quando succede, io le vado a fare compagnia finché non si riaddormenta. Mi aveva chiesto il biberon, io le avevo scaldato il latte nel microonde e le avevo messo un biscotto solubile. Lei l’aveva sorseggiato con gusto e si era rimessa a dormire. Io le sono rimasta accanto guardando il soffitto e ho provato a immaginare come mi sarei sentita se intorno a me ci fossero state centinaia di persone, stipate, infreddolite, arrabbiate, se gli schizzi salati del mare mi stessero colpendo la faccia, se Tina, invece che tornare a sognare, stesse urlando, stanca e spaventata, e a come mi sarei sentita inutile e folle per averla trascinata lì, senza nemmeno un biberon di latte da darle, dopo averle fatto passare magari qualche mese sotto il sole libico, mentre con ogni probabilità qualcuno mi violentava o mi insultava, con la sola sciocca presunziona di salvarle la vita cercando rifugio in una parte del mondo che immaginavo migliore da quella da cui stavamo scappando.

Sui migranti e sulla migrazione tutti ormai hanno un’opinione, quindi non mi metterò certo io qui ora ad aggiungerne una ennesima e non richiesta.

Mi permetto solo di dire che è difficile capire cosa prova qualcuno e cosa lo spinge a compiere certe azioni se non siamo stati nemmeno un attimo ad ascoltarlo in silenzio, sospendendo qualunque giudizio, se non siamo stati sinceramente curiosi nei suoi confronti, se non gli abbiamo fatto capire che di lui o lei ci importa.

Faccio questo lavoro ormai da un decennio e credo che l’ascolto e l’oggettività siano alla base del giornalismo. Né buono, né cattivo, semplicemente onesto e degno.

Storie illustrate di minori migranti è un progetto nato in collaborazione con la ONG Terre des Hommes che dal 2011, grazie al progetto Faro, accoglie i migranti al porto di Pozzallo offrendo sul posto e nei centri di accoglienza di Scicli, Siracusa e Catania, assistenza psicologica e psicosociale ai minori stranieri e alle famiglie con bambini. Volevano e noi con loro, raccontare le storie di alcuni ragazzi che negli anni hanno aiutato cercando però una narrativa diversa, che andasse oltre il classico fotoreportage.

Io e Mirko Cecchi abbiamo pensato a lungo a come fare e alla fine abbiamo chiesto aiuto a Michela Nanut, amica e bravissima illustratrice. A settembre siamo andati in Sicilia e abbiamo incontrato otto giovani migranti. Arrivavano dalla Nigeria, dal Gambia, dal Marocco e dalla Guinea e stavano cercando di ricominciare. Io li ho intervistati, Mirko li ha ritratti e poi Michela ha illustrato parte dei loro racconti sulle fotografie rendendo le immagini leggere, fluttuanti.

I racconti di quei ragazzi e di quelle ragazze, pieni di violenza, ingiustizia, angoscia si sono trasformati così in un’avventura incredibile, come può essere dormire nel deserto sotto le stelle quando hai 16 anni.

Il progetto è stato esposto a Milano qualche mese fa da Milonga, un piccolo negozio di cornici, prima di arrivare a QCode è stato pubblicato su El Pais e Donna Moderna, testate diverse, pubblici diversi, e ora farà parte di Osvaldo, il festival dedicato al viaggio che si terrà a Rovereto dal 20 al 24 giugno al quale siete tutti invitati.

Quello che volevamo era, con un linguaggio nuovo, più onirico e meno diretto, raggiungere quante più persone possibili e ci stiamo riuscendo.

Ci vogliono cinque minuti per guardare le otto foto illustrate e leggere le otto didascalie che le accompagnano. E’ un tempo breve ma sufficiente per provare a mettersi nella pelle di quei ragazzi, per starli ad ascoltare, percepirne il dolore e la speranza, e ripensare, magari diversamente, a quella nave.

Il racconto di O., Gambia
Arrivato in Italia a luglio 2016, a 14 anni

Ha lasciato la scuola e il suo paese quando è morto il padre che lavorava al mercato per andare a cercare un lavoro e sostenere la madre. Le dissi: Provo ad andare in Senegal, magari lì trovo qualcosa da fare.” E lei diceva: “No, no.” Ma io dicevo: “Se rimango qua non ho possibilità, finirò a vendere droga” Ma io sono musulmano e questo non è permesso.

Il mio libro preferito è “Things fall apart” di Chinua Achebe ma da quando sono arrivato ho letto solo “Io parlo italiano”. Sono molto preoccupato perché non ho un tutore. Ho iniziato a frequentare il liceo a Siracusa ma quando compirò 18 anni verrò trasferito in un centro per adulti che potrebbe essere ovunque e potrei essere costretto a smettere di studiare, ancora una volta.

Il racconto di L., Nigeria
Arrivata in Italia ad agosto 2016, a 17 anni

Ha lasciato il suo paese alla morte del padre per scappare a un matrimonio combinato dallo zio. Aveva 50 anni, una ex moglie e altri figli. Io ho detto di no, mi sono arrabbiata e mia mamma ha capito. La partenza è stata improvvisa, ho ricevuto una chiamata un pomeriggio che mi diceva di andare a Benin City e da lì siamo partiti. La persona che mi aveva comprata in Benin era d’accordo con un libico che mi ha portato nel ghetto di Saba dove sono rimasta sei mesi perché non avevo mai abbastanza soldi per andare via. Nel ghetto ognuno pensa a sé stesso e fuori è ancora più pericoloso.

 

Io una volta sono uscita per prendere dell’acqua, ero con un’altra ragazza, gli Asma boys ci hanno rapito, ci hanno portato in un edificio abbandonato e hanno fatto quello che volevano.

Il racconto di T., Nigeria
Arrivato in Italia a luglio 2016, a 16 anni

Un giorno ha piovuto fortissimo, io e mia sorella eravamo a scuola e quando siamo tornati la nostra casa era crollata e i nostri genitori erano morti. La casa era stata costruita con dei soldi prestati ma anche se non c’era più il debito andava saldato. Le persone con cui mio padre era in debito venivano a minacciarmi continuamente ma io non sapevo come pagare. Così un giorno ho seguito un amico più grande che andava in Libia. Non sapevo che sarei arrivato in Italia, dovevo solo andare via perché se no mi avrebbero ammazzato.

Prima di arrivare in Libia T. non aveva mai visto il mare. Quando è arrivato il momento di partire i trafficanti mi hanno spinto sulla barca, mi hanno colpito e mi hanno fatto saltare un dente. A un certo punto l’acqua ha iniziato a entrare nel gommone. Io non so nuotare, ero spaventatissimo. Poi una nave italiana ci ha salvato. Ero così felice di non essere morto…

Il racconto di K., Marocco
Arrivata in Italia ad agosto 2016, a 17 anni

Arrivo da una città del centro del Marocco, è piccola ma più grande di Scicli dove vivo adesso. Sono andata via perché un giorno ho litigato con quelli che pensavo fossero i miei fratelli e ho scoperto che i miei genitori in realtà erano i miei nonni. Con loro sono ancora in contatto e ci vogliamo molto bene ma non volevo più stare con i miei zii. In Libia sono stata chiusa in una stanza per un mese e mezzo ma non mi hanno fatto del male. Sono arrivata in Italia grazie all’aiuto del figlio dei miei vicini in Marocco che era già qui da tre anni e mi ha spiegato come fare su facebook. Sulla nave eravamo in tantissimi, io ero sola e due donne siriane che viaggiavano con un bambino piccolo si sono prese cura di me e mi hanno protetto.

K. parla perfettamente italiano, frequenta un corso per mediatore culturale organizzato da Terre des Hommes ed è iscritta al liceo tecnico turistico di Scicli. Per il suo primo giorno di scuola è andata lei stessa a comprarsi dei vestiti nuovi.

Il racconto di M., Gambia
Arrivato in Italia a luglio 2017, a 17 anni

Faccio parte della popolazione povera del mio paese e i miei genitori vengono da due tribù diverse: Fula e Mandinka. Quando il nonno è morto ha lasciato a mio papà 40 mucche e lui le ha affidate a un signore della tribù dei Fula perché se ne prendesse cura. Gli disse di non venderne una perché era “sacra” ma l’uomo l’ha venduta ed è andato via e le altre mucche sono morte una dopo l’altra. Così mio papà ha perso la sua ricchezza e se la prende scherzando con la mamma che viene dalla stessa tribù di quell’uomo.

Il viaggio di M. è durato quasi tre anni. In Libia è stato rapito, imprigionato e torturato più volte. A volte mi assale la paura. Ma poi mi dico, ok stai calmo, sei qui, sei salvo. Ho visto le persone agire come nei film: sparare, torturare. Ho visto tutto questo accadere veramente. Alcuni giorni mi sento “penzolare”, come quando ero in Gambia, non faccio niente. Il tempo passa. Sto sdraiato a letto, non vado a scuola, sto buttando via il tempo. Vedo altri ragazzi che sono arrivati da uno, due anni e ho paura che per me sarà lo stesso.

 

Il racconto di I., Nigeria
Arrivata in Italia a giugno 2017, a 16 anni

Sto imparando l’italiano perché credo sia utile. So dire “buongiorno, ci vediamo domani, io sono I., vengo dalla Nigeria, ho 17 anni, mi piace la mela, ieri mi ha chiamato mia nonna”.

Quando a mio nonno hanno smesso di pagare la pensione sono finiti i soldi e ho dovuto lasciare la scuola. Volevo studiare musica e arte, io canto e ho recitato in alcuni spettacoli della chiesa. Volevo diventare un’attrice. Sono andata in città a lavorare come donna delle pulizie ma non ho guadagnato abbastanza. I miei nonni piangevano. A Benin ho avuto un ragazzo che mi ha chiesto se volevo andare all’estero perché lui aveva una sorella con il marito in Francia e si poteva fare. Sono stata messa in una casa dove mi hanno fatto il Juju, dicevano che era per proteggermi. Avrei dovuto pagare 35.000 euro, io ho chiesto quanto fosse in moneta nigeriana ma mi hanno detto che non mi doveva importare. Dopo tre giorni abbiamo cominciato il viaggio. Non ho più sentito il mio ragazzo, lui era partito e il mio telefono non funzionava.

Sono stata in Libia 7 mesi e mezzo, ho iniziato a cucinare nel ghetto dove stavo a Sabrata e guadagnavo qualcosa per poter mangiare. Io non pensavo che sarei finita a fare la prostituta, ma loro mi urlavano addosso, io sono stata male, non volevo farlo. Mia nonna è molto vecchia, ha il bastone, non le posso spiegare tutto, potrebbe avere un infarto. Io qui non ho più paura perché credo in Dio.

Il racconto di S., Guinea
Arrivato in Italia a gennaio 2017, a 17 anni

Ero partito da casa con pochi vestiti, quando sono arrivato non avevo neanche le scarpe.

La mia vita qui è già cambiata, qui sono tranquillo, sto meglio. Ma per studiare devo andare in Francia, so come fare a superare Ventimiglia. Sto mettendo da parte i soldi, qui al centro ci danno 10,50 euro a settimana e qualche volta lavoro fuori aiutando un vetraio.

Voglio andare a Nice – la pronuncia in inglese e ride. Ho degli amici là. Quando arrivo vado dalla polizia e chiedo di fare domanda d’asilo. Se sono fortunato mi prendono perché qui non sono ancora stato registrato con le impronte digitali.

Siamo stati quattro giorni nel deserto, siamo stati fortunati, Dio ci ha aiutato. Gli altri ci mettono una settimana, si rompono i motori, spesso si perdono o muoiono.

Prima o poi voglio rivedere il deserto perché è un altro mondo, non c’è niente. Io non avevo paura, eravamo su delle macchine Toyota grandi, eravamo tranquilli. A scuola avevo studiato cos’era il deserto ma non c’ero mai stato. Vorrei tornare, ma tra cinque o dieci anni quando in Libia saranno finite “queste cose bastarde”. Vorrei andare con la mia famiglia. Io ho dormito lì, sulla sabbia, senza coperta. Faceva freddo, zero gradi, però la sabbia era calda perché di giorno c’erano 70 gradi.

Il racconto di E., Nigeria
Arrivata in Italia a settembre 2016, a 17 anni

La mamma di E. l’ha abbandonata quando aveva 10 anni e lei è rimasta sola con il padre e la sorella minore. A 16 anni E. ha lasciato per la prima volta la Nigeria e a seguito un’amica in Mali. La donna le aveva promesso un lavoro in un negozio con il quale avrebbe potuto aiutare il padre rimasto invalido dopo un incidente. Ma il lavoro che c’era era la prostituzione. Volevo tornare indietro ma non avevo i soldi. Lei mi ha picchiata, mi ha chiuso in una stanza. Io urlavo. Sono rimasta rinchiusa per un mese. E poi ho dovuto farlo. Quando sono tornata a casa mio papà mi ha chiesto cosa avevo fatto ma io non gli ho detto nulla. Ma le persone del villaggio mi ridevano dietro. Io non ho resistito e sono partita di nuovo.

Il viaggio verso l’Italia E. l’ha fatto da sola, pagandolo con i soldi guadagnati in Mali e senza il controllo di nessuna Madame. Quando vedo le altre ragazze – vittime di tratta – ogni volta ho un flashback e gli dico: “Vi stanno mentendo. Credetemi. Se voi andate con loro sarete schiave per sempre. La vostra vita sarà miserabile, senza senso.

Nel centro dove vive E, controlla le telefonate che fanno le ragazze con i familiari per capire se gli stanno facendo delle pressioni perché si prostituiscano e rispettino il Juju e ogni mercoledì va all’ospedale di Siracusa dove aiuta gli immigrati nigeriani a farsi capire. É stata marchiata a fuoco su un braccio: Me l’ha fatto un uomo in Mali per vendetta. Mi disse: se avrai dei figli dovrai spiegare perché hai questo segno, dovrai raccontare loro la tua storia.