IL COLPEVOLE-THE GUILTY, di Gustav Moller, con Jacob Cedergen. Premio del Pubblico al Sundance Film Festival , premio del Pubblico al Rotterdam Film Festival, premio al Pubblico, miglior sceneggiatura e miglior attore al Torino Film Festival. Nelle sale.
Diavoli di scandinavi! Sono dei maghi dei gialli in libreria, da anni. Ora proprio uno svedese firma un thriller mozzafiato, dalla suspense crescente e implacabile, con il minimo dei mezzi possibili: un uomo al telefono, chiuso tra due stanze e un corridoio. Le stesse stanze e lo stesso corridoio in cui ci troviamo chiusi anche noi, con il nodo alla gola, dall’altra parte dello schermo, per 85 minuti: il tempo reale dell’azione.
Ma andiamo con ordine. Asger Holm è un poliziotto di Copenaghen che è finito al centralino delle emergenze, il 991, perché il giorno dopo ha un processo per un omicidio commesso in servizio. All’inizio gli capitano chiamate banali e lui sembra persino un po’ annoiato: è sera, non manca molto alla fine del turno.
All’improvviso gli telefona una donna dall’aria terrorizzata, che gli fa capire di essere in auto con qualcuno che l’ha sequestrata. Poche risposte, quasi in codice, e Asger capisce che l’uomo con lei è il marito e che i loro due figli, piccoli, sono rimasti a casa da soli.
Quando la conversazione si interrompe, per il poliziotto inizia la caccia contro il tempo per cercare di salvarla, con le uniche armi che ha a disposizione: il telefono del centralino delle emergenze, il suo cellulare e poche, incerte informazioni. Ma è solo l’inizio. Il puzzle si rivelerà più complicato di come sembrava e avverranno colpi di scena a dir poco spiazzanti. Non tutto era come sembrava, anzi…
Al suo debutto cinematografico, Moller fa centro e stupisce con questo thriller che corre lungo il filo, tutto in assenza, a distanza, con una sceneggiatura di ferro che riesce a tenere lo spettatore incollato allo schermo per tutta l’ora e mezza scarsa del film.
Il senso di oppressione del protagonista, l’ansia provocata dall’evoluzione imprevedibile degli eventi, ci piomba addosso grazie a una lunga serie di efficaci primi piani sull’attore (per la cronaca, un superbo interprete da noi pressoché sconosciuto). Da questa distanza così ravvicinata riusciamo a sentire i rumori di ciò che accade all’altro capo della telefono, le parole degli interlocutori: la donna angosciata, il marito, la loro figlia di 5 anni, un collega di Asger che lo sta aiutando, la pattuglia che sta cercando il furgone della coppia. E anche noi non abbiamo modo di sapere nulla di più di quanto non sappia lui, grazie al suo computer e alle risposte che riesce a strappare, a tratti.
Non solo. La sostanziale assenza della colonna sonora ci impedisce di immaginare altro rispetto all’azione che non si svolge sulla scena cinematografica. Ed eccoci intrappolati nello stesso senso d’impotenza in cui si trova il poliziotto, che deve e vuole salvare la situazione senza poter uscire dalla sua postazione del 991.
Tutto accade in tempo reale e il montaggio non lascia spazio e respiro a nessuna spiegazione in più. Risultato? L’empatia con il protagonista è fortissima: noi siamo lì, accanto a lui, finché non si alza e finalmente si stacca dal telefono. Soltanto allora la nostra respirazione torna normale. Bingo!
Perché è questa la strategia per far sì che un film molto insolito si regga saldamente in piedi, riuscendo a farsi ricordare, e spingendoci, una volta fuori dalla sala, a una interessante riflessione: quanto possono influire le nostre certezze sul destino degli altri, quando poi si rivelano errate? Sembra un rompicapo ma dopo aver visto il film capirete. Fidatevi…