Le letterature sono inestricabilmente legate alle società da cui si originano e, per questa loro caratteristica, sono anche strumenti indispensabili per la costruzione di un racconto altro rispetto a quello proposto, ad esempio, dalla Storia ufficiale.
Nei regimi, in cui è particolarmente forte il lavoro di propaganda, e in un periodo come quello attuale dominato dal “post-verità”, la fiction letteraria spesso appare necessaria perché, paradossalmente, si dimostra la testimonianza più aderente alla realtà.
Nei “piccoli eventi” narrati da scrittori e poeti sono a volte anche rintracciabili quei meccanismi e quelle dinamiche da cui potrebbe scaturire un “grande evento”, una rivoluzione, per esempio.
Nell’attuale caos siriano, molto simile a una lunga ed estenuante partita a Risiko, le reali motivazioni che sei anni fa hanno portato allo scoppio della rivoluzione sono state inghiottite dagli interessi dei troppi giocatori in campo. La rivolta siriana viene oggi presentata solo come il prodotto di astuti calcoli politici dell’alleanza tra Stati Uniti e paesi del Golfo, ma gli scrittori siriani, da tempo, raccontano un’altra storia, una storia lunga quasi cinquant’anni.
Dopo la fine del mandato francese e la conquista dell’indipendenza nel 1946, la Siria conobbe un lungo decennio di instabilità politica, si susseguirono diversi colpi di Stato e si discussero varie proposte di costituzione.
Come naturale risposta ad anni di dominio straniero, nei paesi arabi nacquero numerosi partiti nazionalisti, tra cui il Ba‘th, di ispirazione socialista, la cui ala militare prese il potere in Siria l’8 marzo del 1963.
Il nuovo governo, guidato dal Consiglio della Rivoluzione, si servì largamente della “soffocante” Legge di Emergenza (promulgata nel 1962) che limitava fortemente le libertà individuali e collettive e che cinque anni dopo portò alla costituzione della Suprema Corte per la Sicurezza dello Stato, un tribunale speciale per gli oppositori politici.
La censura e il clima di terrore “ammutolirono” un intero paese, imbavagliando qualunque tipo di dissenso.
In questi stessi anni, il famosissimo poeta siriano Nizar Qabbani sognava, invece, l’utopica nascita di una repubblica dell’amore contrapposta proprio a quei sistemi di governo che, per perpetrare la loro sopravvivenza, sviliscono i rapporti umani e arrestano qualunque tipo di progresso: “Generalmente i regimi osteggiano il poeta perché essi rappresentano la conservazione e l’immobilismo mentre il poeta è simbolo della volontà di movimento e cambiamento” (Nizar Qabbani, Qissati ma‘a al-shi‘r). Nel 1970 il ministro della difesa Hafiz al-Asad, con un nuovo colpo di mano interno al partito denominato “Movimento Correttivo”, si autoproclamò primo ministro, trasformando definitivamente la Siria nella “terra della repressione”:
“Amami…
lontano dalla terra della repressione,
lontano dalla nostra città sazia di morte,
lontano dalla sua faziosità
e dalla sua rigidità.
Amami… lontano dalla nostra città
perché l’amore non la visita da quando esiste,
e Dio lì non è più tornato.”
(Nizar Qabbani, Poesia selvaggia in Le mie poesie più belle, Jouvence, 2016, trad. S. Moresi, N. Salameh)
Nel 1973 fu promulgata una nuova costituzione che consegnò “generosamente” nelle mani di al-Asad ogni potere statale.
Il nuovo ra’is formò il suo governo secondo un inattaccabile sistema clientelare, affidando la maggior parte dei posti di potere a uomini del suo clan tutti appartenenti al gruppo religioso minoritario alawita.
La tortura, la propaganda, il culto della persona, la censura dei mezzi di informazione, e il capillare controllo della società attraverso uno stato di polizia sono gli elementi su cui il regime fondò la sua autorità. I temutissimi servizi segreti siriani, le mukhabarat, infiltrati in ogni angolo del paese, vigilavano costantemente per “difendere” il Presidente e il Partito, arrestando chiunque disubbidisse o offendesse questa sorta di “semidio” e il suo “Olimpo”.
“Mi resi conto allora che i bambini non sono i soli ad aver paura della polizia, così dissi con un tono che si sforzava di nascondere la tremarella: ‘Io? Che cosa ho fatto?’.
‘La tua schiena… la tua schiena curva offende il buon nome del paese. Soltanto l’affamato o il malato camminano come te’.
‘Infatti io sono proprio affamato e ammalato’.
‘Sfacciato! Dici di essere affamato e malato? Questo tuo discorso è un attacco dichiarato allo Stato’.
‘Mi dispiace. Mi scusi. Non intendevo attaccare nessuno’.
Indicò con il lungo dito la mia faccia e disse:
‘E la tua faccia?’
‘La mia faccia? Che cos’ha?’
‘Guardati allo specchio. La tua faccia è imbronciata. Perché?’.
‘Perché sono senza lavoro’.
‘Taci! Osi criticare le leggi?’.
‘Io?’.
‘Silenzio! Chiudi il becco e allontanati dalla mia faccia e fa’ attenzione quando cammini per le strade!’.”
(Zakaiyya Tamer, Il falcone in Primavera nella cenere e altri racconti, Cicorivolta, 2012, trad. F. Pistono).
Zakariya Tamer, autore di questo tristemente ironico racconto, è uno dei più famosi scrittori siriani, costretto a lasciare la Siria negli anni ’70 a causa del regime.
Autodidatta, si affermò come giornalista e autore di racconti brevi nei quali spesso descrive la situazione del suo paese ricorrendo al surrealismo e alla metafora. Quella che Tamer dipinge nei suoi lavori è una società fondata sull’odio e sul sopruso, dove la violenza e la morte sono una costante, e il debole è sempre vittima dell’arroganza del più forte.
Negli anni ’80 il regime intensificò gli arresti e le esecuzioni sommarie degli oppositori politici, in particolare, dei membri del gruppo dei Fratelli Musulmani. Quello che potrebbe apparire solo come uno scontro confessionale tra sunniti e alawiti, o come uno scontro tra stato laico e socialista e partiti religiosi, era, in effetti, sostanzialmente la volontà di annientare quei gruppi attorno ai quali si sarebbe potuto formare, più facilmente, un movimento forte di opposizione al regime.
L’anno 1982 si aprì con uno dei più grandi massacri perpetrati dal regime di Hafiz al-Asad che, per sedare una rivolta guidata dalla fratellanza musulmana, prese d’assedio per ventisette giorni la cittadina di Hama torturando e uccidendo più di diecimila persone (le cifre di questa strage sono molto discordanti e variano dai diecimila ai quarantamila morti).
Questo tragico avvenimento fa da sfondo al romanzo Elogio dell’odio (Bompiani, 2011, trad. F. Prevedello) dello scrittore siriano Khaled Khalifa che, narrando la storia di una giovane donna di Aleppo, svela le complesse dinamiche che hanno portato alla nascita e al radicamento dell’odio nella società siriana, con evidenti conseguenze anche nella attualità.
La protagonista, influenzata da uno zio e immersa nel clima di terrore e brutalità instaurato dal governo di al-Asad, decide di entrare a far parte del movimento dei Fratelli Musulmani; lo scrittore, capitolo dopo capitolo, descrive la lenta ma inesorabile trasformazione della ragazza che, rinchiusa in se stessa, pare trovare nell’odio l’unica riposta alla violenza del regime:
“[…], l’odio si era impossessato di me e ne ero entusiasta. Sentivo che l’odio mi avrebbe salvato perché mi ispirava quella sensazione di superiorità che stavo cercando. […] ‘Abbiamo bisogno dell’odio perché la nostra vita abbia significato’. Questo pensai mentre festeggiavo il mio diciassettesimo compleanno.”
Arrestata e torturata in carcere, la protagonista comprende, pian piano, l’insensatezza di un sentimento come l’odio soprattutto quando questo proviene dalla rigida e irremovibile consacrazione a una sola e unica appartenenza:
“L’unica verità che avevo sempre difeso, l’odio, andò in frantumi, costringendomi a tornare alla domanda delle domande. Qual era il vero rapporto tra il sentimento di appartenenza a qualcosa, all’organizzazione, ad esempio, o alla famiglia e il mio essere? […] la mia vita era stata un insieme di cose prese in prestito da altri […]. Avevo passato tutto quel tempo a credere in ciò che altri avevano voluto io credessi. Ti danno un nome e lo devi amare, devi difenderne l’esistenza.”
La “democraticità” con cui il regime elargiva la sua violenza è descritta nel romanzo Lo specchio del mio segreto (Castelvecchi, 2011, trad. E.Chiti), di Samar Yazbek, nel quale, questa volta, le vittime della repressione appartengono al gruppo religioso alawita, lo stesso del Presidente.
La scrittrice, che nel 2011 ha dovuto lasciare la Siria per la sua opposizione al governo, in questo libro racconta la travagliata storia d’amore tra Said Nasser, un ufficiale a servizio del regime, e la giovane attrice Leila al-Sawi.
Il romanzo è ambientato negli anni ’90 ma prende il via dalla morte di Hafiz al-Asad (mai nominato esplicitamente), nel 2000. Nel primo capitolo, infatti, troviamo Said incredulo e distrutto dal dolore, intento a guardare in televisione i funerali del Presidente, la persona che gli era più cara al mondo e che “era pronto a difendere a prezzo della sua stessa vita”.
“Un rosso che tinge lo schermo di un color porpora e trasforma il fusto del cannone con sopra il feretro del Presidente in un carro divino sceso improvvisamente dal cielo e penetrato nella calca umana. […] [Said] È sorpreso nel distinguere così chiaramente la bocca del cannone e lo sfiora il pensiero che chi ha avuto l’idea di questo carro è un idiota: il feretro doveva essere portato a braccia. Perché il Presidente è sorto dal popolo ed è al popolo che dovrebbe tornare.”
Said Nasser è una chiara metafora di quello stato di alienazione con cui tutti i regimi riescono a “deformare” l’individuo distruggendone la soggettività.
La cieca venerazione per la figura del ra’is e il suo offrirsi completamente agli interessi del Partito trasformano questo personaggio in un “automa” incapace di instaurare qualunque tipo di rapporto umano. Durante l’interrogatorio ad Ali, fratello di Leila, l’ufficiale ripete meccanicamente tutti gli slogan diffusi dal Partito; Samar Yazbek evidenzia così i deleteri effetti della propaganda ba‘athista
“« […] Un partito di opposizione! Sei pazzo? Ti sembra il momento di fondare un partito di opposizione? Che avete nel cervello? Niente, niente! Questo mondo si governa con la forza. E sai che vuol dire? Che dev’esserci un uomo forte che ci governa tutti ». […] «Io costruisco la patria».
[Ali:] «Lei la distrugge».
Said lo aveva schiaffeggiato, facendolo cadere […] lo aveva insultato e ricoperto di calci.”
L’incontro con Leila risveglierà solo momentaneamente l’umanità di questo robot che, infatti, come un soldatino obbediente tornerà presto a schierarsi tra le fila del potere, facendo incarcerare e torturare la sua stessa amante.
I lavori fin qui citati, pur fortemente aderenti alla realtà, sono frutto della fantasia degli autori ma, purtroppo, sono molti gli intellettuali siriani che hanno potuto scrivere le loro personali memorie dal carcere.
È il caso del romanzo La conchiglia (Castelvecchi, 2014, trad. F Pistono) dello scrittore Mustafa Khalifa, e della raccolta poetica Il luogo stretto (Nottetempo, 2016, trad. E. Chiti) di Faraj Bayrakdar.
La conchiglia, ambientato negli anni ’80 narra, sotto forma di diario, i giorni di prigionia di Musa, alter ego dello scrittore, arrestato al suo rientro in Siria perché accusato, lui ateo e di famiglia cristiana, di far parte dei Fratelli Musulmani. Il breve dialogo tra due poliziotti, riportato nelle prime pagine del romanzo, rivela la totale arbitrarietà degli arresti:
“I due poliziotti mi scortavano. […] In fondo al corridoio un giovane si è messo a gridare, vedendoci: «[…] E questo chi è? Un rosso o un verde?».
«Sono tutti la stessa merda».”
Musa, rinchiuso per tredici anni nel terribile carcere di Tadmur, subisce tutte le torture che le associazioni a difesa dei diritti umani spesso elencano nei loro rapporti. A causa dell’ostilità dei suoi compagni di cella, loro sì membri dei Fratelli Musulmani, per dieci anni non parla con nessuno e forgia attorno a sé una conchiglia per tentare di proteggere la sua umanità. Uscito dal carcere, Musa si interroga sulla società siriana e sulla sue responsabilità:
“Guardo la gente. Scruto i volti. Quanta indifferenza! Quante di queste persone sanno cosa è accaduto, cosa ancora accade, nella Prigione del deserto? A quanti di loro interessa? […] È concepibile che un popolo così notevole non sappia cosa succede all’interno del proprio paese? Se davvero non lo sapesse, sarebbe terribile; se lo sapesse e non facesse niente per cambiare le cose sarebbe ancora più tremendo.”
Il poeta Faraj Bayrakdar, arrestato nel 1987 per affiliazione al partito comunista, ne Il luogo stretto affida ai suoi versi le sofferenze, le speranze e i sogni di quei tredici anni passati nel carcere di Sednaya, oggi divenuto famoso.
Come lo stesso Bayrakdar afferma nell’introduzione, solo la poesia, onirica libertà nei giorni della reclusione, è riuscita a mettere in salvo la sua anima dal carcere e da quel meticoloso tentativo di “togliere senso all’essere umano”.
“Fermatevi a piangere
non sui resti di un dio lontano
né su un uccello
gravato dallo spazio
non mi prendete
non mi lasciate
forse la distruzione senza lingua mi possiede
forse sperate di ritardare un poco la mia morte
perché il mio corpo è cella
e la poesia è libertà inattesa”
Nel 2000, morto Hafiz al-Asad, dopo un repentino cambiamento della costituzione per adeguarla all’età dell’erede, è salito al potere suo figlio Bashar, il “Signor Futuro” come ironicamente veniva chiamato dall’intellettuale Samir Kassir, ucciso nel 2005.
Il discorso di insediamento del nuovo presidente aveva fatto sperare in un reale cambiamento della situazione siriana, ma la “Primavera di Damasco” non è mai sbocciata. “Il Manifesto dei 99” con cui nel settembre del 2000 gli intellettuali siriani avevano chiesto di rimuovere la Legge di Emergenza e rilanciare le libertà, è stato ignorato dal regime che nel 2001, con l’arresto del deputato Riyad Sayf, ha invece dato il via a un nuovo ciclo di epurazioni.
Senza aspettare segnali dall’alto, però, quella società terrorizzata e immobile, che Mustafa Khalifa aveva scrutato fuori dalla prigione, lentamente è mutata.
La rivoluzione esplosa nel 2011, presentata dai media occidentali come un fenomeno inatteso e inspiegabile, è stata la conseguenza di questo cambiamento e la più naturale risposta ad anni di dittatura. Dopo sei anni di morte e assedio, i tanti siriani costretti a lasciare il paese continuano a opporsi al governo di Bashar al-Asad dai paesi d’esilio.
Tra questi c’è il fotografo Jaber al-Azmeh che nel suo lavoro Wounds racconta la rivoluzione e l’oppressione, mentre in The resurrection utilizza il giornale di propaganda al-Ba‘th (parola la cui traduzione è proprio “resurrezione”) per far “parlare” il popolo siriano.
Dietro la sempre valida retorica delle parole al-amn wa al-istiqrar (sicurezza e stabilità), omicidi e torture continuano a essere la normalità nel governo del “Signor Futuro”. A ottobre dello scorso anno è arrivata anche in Italia la mostra Nome in Codice Caesar, composta da una serie di foto scattate da un ex fotografo della polizia militare del regime siriano che documentano la morte e le torture inflitte ai detenuti nelle carceri tra il 2011 e il 2013.
L’ultimo report di Amnesty International (febbraio 2017) ha denunciato che, dal 2011 al 2015, solo nel carcere di Sednaya, circa tredicimila persone sono morte per impiccagione, dopo essere state sottoposte a torture ripetute e sistematiche… E il popolo siriano ancora attende quella “primavera che dovrebbe far sbocciare le rose riarse di Damasco” (Kassir, Il tempo delle rose, in Primavere, Mesogea, 2006).