“Fermati, accanto a te c’è un altro uomo. Incontralo, dice Lévinas. […]
Il volto dell’altro è il libro su cui sta scritto il bene”
Ryszard Kapuściński, L’altro
Non è casuale la scelta di aprire una riflessione sull’incontro con una citazione che se ne fa a suo modo testimone. Il giornalista polacco Ryszard Kapuściński incontra – intertestualmente – il filosofo lituano naturalizzato francese Emmanuel Lévinas. Lo incontra e ne abbraccia la filosofia del dialogo, che si interseca qui, nel saggio-testamento pubblicato nel 2006, al suo ragionare attorno all’Altro.
Siamo sempre l’Altro per il nostro Altro, ripete Kapuściński, ma spesso per rendercene conto dobbiamo prima porci nella condizione di un incontro con esso; sarà questo stesso incontro – in apparenza, paradossalmente – a rivelarci in fondo qualcosa di noi stessi. L’incontro offre uno specchio, su cui si riflettono i tratti del proprio e dell’altrui.
“Quando vivevo nel mio paese non ero consapevole di essere bianco e che ciò potesse influire in qualche modo sul mio destino – racconta il reporter nel volume. – È stato solo in Africa alla vista dei suoi abitanti neri che me ne sono reso conto. Grazie a loro ho scoperto il colore della mia pelle, al quale altrimenti non avrei pensato”. È il viaggio – divenuto una deviazione dalla norma man mano che, scrive Kapuściński, nel corso dei millenni l’uomo è andato sedentarizzandosi – a offrire la più naturale occasione di incontro con l’Altro.
Il viaggio, come deviazione dalla normale sedentarietà del quotidiano, si esotizza, attirando un’aura di curiosità tanto maggiore quando si configura come eccezionale, difficile, ricercato.
Tali sono stati i viaggi attraverso l’Unione Sovietica affrontati nel 1947 e 1956 rispettivamente dalla coppia di reporter americana formata da John Steinbeck e Robert Capa e da quella francese composta da Dominique Lapierre e Jean-Pierre Pedrazzini, già citati nella precedente sezione.
Così come per Erodoto, primo “reporter” secondo Kapuściński, la meta del viaggio era anche per questi quattro giornalisti e fotografi quella di conoscere, rendendo all’Altro (al Bárbaros) tutta la dignità che gli spetta.
Benché idealmente forse più naturale, non è infatti stato questo nei secoli il più comune esito dell’incontro: “Ogni volta che l’uomo si è incontrato con l’altro ha sempre avuto tre possibilità di scelta: fargli guerra, isolarsi dietro un muro o stabilire un dialogo”, schematizza Kapuściński, individuando nella prima l’esito più diffuso (e tragico) dell’incontro nella storia umana.
Vincitore del premio Nobel per la letteratura nel 1962 e famoso per il suo capolavoro Furore (1939) dedicato alla pesantissima crisi e al profondo degrado che colpirono le campagne statunitensi negli anni Trenta, John Steinbeck visitò l’Urss in compagnia del fotografo ungherese naturalizzato americano Robert Capa.
Era l’estate del 1947, agli albori della guerra fredda. Che il regime staliniano permettesse a due americani di visitare il paese ha dell’eccezionale, ma in fondo l’avventura rispondeva alle esigenze di entrambe le parti in causa: Mosca sperava che il lavoro di Steinbeck e Capa avrebbe favorito l’instaurazione di buoni rapporti tra le due superpotenze, evitando così una guerra calda con Washington che sarebbe stata definitivamente fatale per il paese dei Soviet, già in ginocchio dopo la devastante seconda guerra mondiale; dall’altro lato, si soddisfaceva l’interesse del futuro premio Nobel, ovvero documentare ciò che era ancora quasi completamente ignorato oltrecortina, “conoscere il popolo russo”.
“Sui giornali quotidianamente si leggevano migliaia di parole sulla Russia. E su ciò che Stalin andava pensando, sul piano dello stato maggiore russo, sulla disposizione delle truppe […]. E ci accorgemmo che c’erano cose che nessuno scriveva mai sulla Russia, cose che ci interessavano più di ogni altra. Che abiti indossa la gente da quelle parti? Si danno anche feste e ricevimenti? E che genere di cibi si mangia? […] Ci parve che sarebbe stato bello scoprire tutte queste cose, fotografarle, scriverne. […] Avremmo evitato la politica e i grandi problemi”.
Diario russo (1948), da cui sono tratte le citazioni qui riportate di Steinbeck, è il resoconto per “taccuini” e immagini del viaggio di quaranta giorni che il Voks, l’ente statale sovietico che si occupava dei rapporti con l’estero, organizzò per i due reporter statunitensi: da Mosca a Kiev, proseguendo con Stalingrado (oggi Volgograd) e la Georgia, gli spostamenti erano prestabiliti e non modificabili, e i due erano scortati pedissequamente da una “guida” (rinominata da Steinbeck e Capa “the Kremlin gremlin”) loro assegnata dagli organi statali. Gli incontri erano a loro volta stati selezionati a monte.
Ciononostante, il risultato va ben oltre il cartonato di apparenze che forse il Cremlino avrebbe voluto mettere in bella mostra – e lo fa anche attraverso gli scatti di Capa: “In Russia vedemmo molte cose che non collimavano con ciò che ci eravamo aspettati, perciò è una fortuna avere delle fotografie perché una macchina fotografica non ha preconcetti e fissa semplicemente quello che inquadra”.
È uscito invece solo nel 2005 C’era una volta l’Urss, un volume che a distanza di quasi cinquant’anni ripercorre il viaggio – “la fantastica avventura”, come sottotitola il Saggiatore nell’edizione italiana – affrontato nell’estate del 1956 dai giovanissimi reporter Dominique Lapierre e Jean-Pierre Pedrazzini (e relative consorti) da Parigi al Caucaso sovietico, a bordo di una Simca Marley: “Le folle d’oltrecortina rimarranno sicuramente a bocca aperta davanti al suo bel colore giallo e nero. […] Facciamo dipingere sopra i parafanghi anteriori PARIS MATCH e MARIE-CLAIRE, sotto i finestrini IN LIBERTÀ SULLE STRADE DELL’URSS e russo sopra i parafanghi posteriori, GIORNALISTI FRANCESI. A grossi caratteri rossi, sul bagagliaio, facciamo scrivere FRANCIA”.
L’idea dei francesi era insomma quella di un ingresso trionfale nel paese dei Soviet, che si facesse a suo modo vessillo di una certa idea di Francia e di blocco occidentale.
Inizialmente, Lapierre propone a Pedrazzini un viaggio – sempre, rigorosamente, via terra – alla scoperta della Cina; il collega fotografo, però, gli risponde: “Perché non proporre a Match di inviarci sulla luna? […] Come ti può venire in mente che i cinesi possano aprire le porte a quattro turisti capitalisti in macchina?”. L’Urss è allora la candidata di seconda scelta (“E se allora si tentasse l’avventura in Russia? Magari sarebbe più facile…”).
Benché Pedrazzini si confermi anche in questo caso scettico – “Perché vorresti che i russi ci lasciassero vedere tutto quello che si ostinano a nascondere dietro una Cortina di Ferro?” – Lapierre non demorde: è giovane, appena venticinquenne, curioso e interessato a vedere con i primi occhi quel mondo a un tempo così vicino e così lontano, inaccessibile.
Il primo tentativo in ambasciata è negativo, ma “la mia breve esperienza di giornalista mi ha insegnato che un niet non deve mai essere considerato definitivo”.
Corre l’anno 1956 e le combinazioni astrali giocano a favore dell’idea dei francesi: a fine febbraio, nel corso del XX congresso del partito comunista, il nuovo leader sovietico Nikita Chruščëv inaugura la destalinizzazione del paese, denunciando i crimini del suo predecessore.
Lapierre tenta l’impossibile, inviando su foglio intestato di Paris Match una lettera direttamente a Chruščëv al Cremlino (“i postini di Mosca devono pur conoscere l’indirizzo esatto del compagno Nikita!”). Pedrazzini pare finalmente persuaso dell’idea apparentemente strampalata del collega: “Hai pensato a mettere un francobollo per la risposta?”, si preoccupa.
I due accompagnano così prima la visita ufficiale dell’ex presidente francese Vincent Auriol invitato a Mosca in primavera e, poi, ottengono il lasciapassare ufficiale per la loro impresa: è lo stesso Auriol a parlarne a Chruščëv durante la visita a Mosca – “Vogliono percorrere il vostro paese in automobile con le loro mogli per fare un ritratto dell’URSS di oggi”, spiega l’ex capo di stato francese. Nonostante la risposta del segretario generale sovietico non prometta in apparenza nulla – “È una pessima idea, compagno presidente! Le nostre strade sono talmente esecrabili che le mogli dei vostri protetti chiederanno il divorzio in capo a quindici giorni!” –, a inizio giugno un telegramma ufficiale invita Lapierre e Pedrazzini a compiere davvero il viaggio, con guida designata e tragitto e incontri prestabiliti.
Da Parigi la Simca Marley passerà per Minsk, Mosca, Gor’kij (oggi Nižnij Novgorod), l’Ucraina, arrivando fino a Tbilisi. L’avventura, intanto, era iniziata già a Parigi.
Sia il viaggio del 1947 che quello del 1956 si configurano come due incontri profondamente ricercati: non sono spostamenti guidati da fini altri da quello dell’incontro con l’Altro, spinti dalla curiosità di scoprire una realtà quotidiana diversa e, in sostanza, per lo più ignota, ancora non raccontata nei fatti, ma solo idealizzata – nel bene e nel male.
Da questo incontro, come vedremo nella prossima sezione, le narrazioni, le prime impressioni escono sfatate, divelte alla base, generando un naturale meccanismo di autoriflessione su noi stessi, su quello che conosciamo, sulle nostre capacità interpretative.
“Quando ritornerai a Ponente, ripeterai alla tua gente gli stessi racconti che fai a me?”, chiede Kublai a Marco Polo, che risponde (al khan, ma anche e soprattutto a noi):
“Io parlo, parlo, ma chi m’ascolta ritiene solo le parole che aspetta.
Altra è la descrizione del mondo che farà il giro dei capannelli di scaricatori e gondolieri
sulle fondamenta di casa mia il giorno del mio ritorno, altra ancora quella che potrei dettare in tarda età,
se venissi fatto prigioniero da pirati genovesi e messo in ceppi nella stessa cella
con uno scrivano di romanzi d’avventura. Chi comanda al racconto non è la voce: è l’orecchio”
Italo Calvino, Le città invisibili