“Non abbiamo lavato l’automobile per riportare in Francia un po’ di terra russa
e le innumerevoli testimonianze di amicizia che i cittadini sovietici vi hanno tracciato”
Dominique Lapierre, C’era una volta l’Urss
Nella terminologia impostasi all’interno degli studi postcoloniali risalta il termine gramsciano di subalterno, poi rilanciato da molti altri pensatori, Gayatri Chakravorty Spivak in primo luogo.
Si tratta di un termine di derivazione latina che rimanda, guarda caso, all’etimo stesso della parola “Altro”, così spesso ricordata in queste riflessioni.
I viaggi alla scoperta dell’Altro, in questo caso sovietico, ripercorsi attraverso i volumi Diario russo della coppia composta da John Steinbeck e Robert Capa e C’era una volta l’Urss di Dominique Lapierre, arricchito dagli scatti di Jean-Pierre Pedrazzini, vanno a scavare in questa direzione, senza la pretesa di abbandonare la propria prospettiva di partenza, non negandola, ma riconoscendone l’imprescindibilità.
La voce (sub)alterna è accolta e raccolta, senza mai sostituirsi pretestuosamente a quella di chi racconta il viaggio compiuto.
È per questo motivo che non manca a tratti il sapore del folklore e dell’esotismo nella narrazione, in particolare forse nei capitoli dedicati in entrambi i resoconti alla Georgia (in cui Steinbeck si arrischia maldestramente a definire i georgiani come “russi”).
Eppure restano due testimonianze sincere di un incontro voluto, ricercato, documentato con una società che si è rivelata, a differenza delle narrazioni piatte diffuse al tempo, lungi dall’essere mostruosa e assuefatta al regime, quanto piuttosto intrisa di profonda speranza e forza di volontà, di resilienza e fiducia nel presente e nel progresso storico, una società non del tutto assimilabile alla descrizione deprimente di un regime totalitario.
La “banalità” di questo quotidiano socialista non troppo distante da quello capitalista infastidiva anzi Robert Capa che, uso a guerre e rivoluzioni, si ritrovava davanti una realtà semplice e per molti versi moralista, fatta di operai stacanovisti e ragazze semplici e naturali, “così ammodo che ci ha fatto sentire, noi che non abbiamo mai ritenuto di essere particolarmente scostumati, come due libertini”.
Sarà forse uno scherzo del destino che entrambi i fotografi di questi viaggi, Capa e Pedrazzini, perderanno di lì a poco la vita in contesti assai meno tranquilli e banali: il primo nel 1954 nel corso della prima guerra d’Indocina, il secondo nel 1956 durante la rivoluzione ungherese, soffocata proprio dai carri armati sovietici.
Il mitologico Altro sovietico si rivela quindi, grazie al viaggio e all’incontro, ben più umano, caldo, vicino rispetto alla cartolina ingrigita immaginata in partenza. La rarità dell’incontro e le circostanze politiche, economiche, culturali lo hanno a lungo tramandato però in una versione meno complessa e ricca di questa, che resta così una testimonianza importante anche oggi, che quell’Atlantide come esperimento è venuta a mancare, è rimasta sommersa tra le onde della storia.
“Sappiamo che questo diario non soddisferà né i chierici della sinistra né il sottoproletariato di destra.
I primi diranno che è antirusso, gli altri che è filorusso.
Certamente è una cosa superficiale, ma come avrebbe potuto non esserlo?
Non abbiamo conclusioni da trarre, tranne che il popolo russo è come tutti i popoli del mondo.
Di certo c’è gente cattiva tra loro, ma i buoni sono la stragrande maggioranza”
John Steinbeck, Diario russo