16 Aprile 2020
I rentier l’aristocrazia proprietaria terriera, la classe sociale che per conservare la propria rendita avrebbe condotto il sistema allo “stato stazionario”, ovvero al blocco di un processo di crescita sostenuta dei redditi e della ricchezza
Poco più di due secoli fa David Ricardo, uno dei padri fondatori della disciplina, scriveva che “la determinazione delle leggi che regolano questa distribuzione [la distribuzione del prodotto sociale fra rentier, capitalisti e lavoratori, n.d.a] è il problema fondamentale nell’economia politica”: quanto ai salari, quanto ai profitti, quanto alle rendite.
Ricardo era un borghese e stava dalla parte dei capitalisti e vedeva nei rentier – cioè, ai suoi tempi, nell’aristocrazia proprietaria terriera – la classe sociale che per voler conservare la propria rendita avrebbe condotto il sistema allo “stato stazionario”, ovvero alla stagnazione e al blocco di un processo di crescita sostenuta dei redditi e della ricchezza.
L’avversione alla rendita caratterizzò poi un secolo e passa più tardi un altro economista inglese, John Maynard Keynes, il quale addirittura si augurava l’“eutanasia del rentier”: non proprio una decapitazione à la française, ma pur sempre una sparizione. Per Keynes il rentier era soprattutto il prestatore a interesse, ma rispetto al discorso ricardiano la sostanza non cambiava: il rentier è colui che non soltanto si mangia una fetta di torta senza aver contribuito a cucinarla, ma rende anche più complicata la produzione di torte migliori e più grandi nel futuro.
Riderete, ma sono queste le riflessioni che maturano in me in questi giorni di letture, dibattito e lotta politica intorno a questioni come Eurobond, MES, “helicopter money”, “moneta fiscale” e così via.
Immaginiamoci un mondo senza banche e dunque senza conti e prestiti bancari, assegni, carte di credito e di debito, ecc. I soldi sono solo quelli di carta. Li stampa unicamente il Sovrano (i falsari verranno puniti) e – non essendoci banche – i sudditi detengono i propri risparmi nella cassaforte di casa: un po’ di soldi di carta (che di qui in avanti chiameremo moneta), un po’ di titoli pubblici emessi dal Sovrano medesimo e, anche soltanto figurativamente, un po’ di “azioni”, a rappresentare i profitti monetari che i sudditi-capitani di impresa decidono di reinvestire nelle loro attività produttive anziché lasciarli inattivi in cassaforte o prestare al Sovrano.
Perché il Sovrano, potendo – unico fra tutti – finanziare le proprie spese stampando moneta, emette titoli pubblici, ovvero chiede ai sudditi di mettere le mani in cassaforte e prestargliene un po’ a interesse? E se in tempi di coronavirus il Sovrano non intendesse soltanto incrementare le proprie spese per migliorare le condizioni del Lazzaretto Pubblico, ma anche sussidiare le famiglie finite in povertà o le imprese che annaspano, nuovamente perché non stampare e distribuire moneta direttamente?
Questa della “helicopter money” o della “monetizzazione del debito” è in fondo una soluzione che oggi auspicano persino gli insospettabili, dal Financial Times a Jordi Gali, esponente di punta della corrente di pensiero dominante (la cosiddetta “nuova sintesi neoclassica”, ma qui sono solo etichette).
Per questo si arrovella su altre opzioni – SURE, MES, Eurobond, BEI – le quali tutte, compresi i favoleggiati Eurobond, altro non sono che specifiche varianti della medesima operazione di fondo: convincere i sudditi a mettere le mani in cassaforte e prestare al Sovrano dimezzato moneta di vecchio conio.
L’inflazione, si dice. Il problema però non è questo, o comunque non è questo il problema principale. Spesso si sostiene che l’inflazione dipenda da un eccesso di moneta in circolazione (e quindi di capacità di spesa) relativamente alle capacità dell’economia di produrre merci. C’è molto di vero, ma occorre fare attenzione.
In un caso la quantità di moneta circolante nell’economia cresce perché il Sovrano ne stampa di nuova e la spende (o la distribuisce alle famiglie o alle imprese affinché la spendano). Nell’altro caso, l’emissione di titoli pubblici, il circolante cresce comunque: invece di stamparne di nuova, il Sovrano si fa prestare moneta da chi la deteneva inattiva in cassaforte e questa moneta, attraverso la spesa del Sovrano (o di coloro ai quali il Sovrano poi la distribuisce), rientra in circolazione. In un caso come nell’altro il circolante aumenta.
Ciò naturalmente non significa che gli effetti delle due manovre siano identici. Per convincere i sudditi (gli “investitori”, diremmo oggi) a ridurre la quota di moneta e accrescere quella di titoli pubblici detenuta nelle loro casseforti (“portafogli”, diremmo oggi), occorre che su di essi il Sovrano paghi un tasso di interesse più elevato.
Infatti, come Keynes ci insegnò nella Teoria Generale del 1936, “il tasso di interesse misura […] il premio che deve essere offerto per indurre la gente a conservare la propria ricchezza in una maniera diversa dalla tesaurizzazione”. La moneta nella sua forma massimamente liquida – qui: i pezzi di carta stampati dal Sovrano, aventi corso legale sino alla prossima rivoluzione (o iperinflazione) – placa infatti le nostre ansie, averla lì in cassaforte in fondo ci permette di poter affrontare spese inattese con maggior serenità. Vuoi mettere con un titolo pubblico, che se arriva la spesa inattesa e devo venderlo prima della scadenza chissà quanto prendo?
Dunque: sia la stampa di nuova moneta sia l’emissione di titoli pubblici incrementano il circolante, ma la seconda soluzione richiede un aumento dei tassi di interesse sui titoli. A sua volta, l’aumento dei tassi potrebbe affievolire lo stimolo alla domanda aggregata che la manovra del Sovrano intendeva favorire, per esempio perché diventa relativamente più conveniente per i sudditi-capitani d’impresa prestare al Sovrano invece che reinvestire nell’attività produttiva i propri profitti monetari (meno “azioni” e più titoli pubblici).
Nella misura in cui ciò dovesse accadere, la manovra finanziata dall’emissione di titoli pubblici sarebbe certamente meno inflazionistica di quella finanziata dall’emissione monetaria, ma sarebbe anche meno espansiva. Di più: sarebbe meno inflazionistica in quanto meno espansiva.
Riassumiamo, dunque. Il Sovrano deve scegliere. Se stampo moneta la torta (il PIL reale, quello che si mangia per davvero) sarà verosimilmente più grande, i tassi di interesse più bassi e non avrò accumulato alcun debito ulteriore da ripagare in futuro. L’inflazione sarà però probabilmente più elevata e, poco ma sicuro, i rentier mi toglieranno il loro appoggio, dal momento che tale manovra porta a una riduzione del tasso di interesse reale (tasso nominale meno inflazione), la loro fonte di sostentamento.
Se invece emetto titoli pubblici, la torta crescerà di meno, qualche capitalista attratto dai tassi più elevati diventerà rentier e avrò accumulato nuovo debito da onorare un domani; l’inflazione però aumenterà più lentamente e questa volta, per il probabile aumento del tasso di interesse reale, i rentier vecchi e nuovi mi osanneranno.
Aveva ragione Piero Sraffa, grande economista italiano e amico di Keynes nella Cambridge dell’”alta teoria”, a segnalare il fatto che il tasso di interesse si potesse considerare una variabile in certo modo “esogena”, ovvero politicamente controllabile.
E’ certamente vero che negli ultimi anni la BCE ha praticato una politica di tassi di interesse molto bassi e da questo punto di vista i rentier non se la sono passata un granché bene (in una certa, piccola, misura rentier siamo anche tutti noi piccoli risparmiatori, non soltanto l’industria dei money manager cui affidiamo i nostri averi); ma è altrettanto vero che le politiche di austerità imposte specialmente nei paesi a più elevato debito pubblico hanno con ogni evidenza prodotto un aumento del rapporto debito-PIL, ciò che di per sé, per ogni dato tasso di interesse, accresce la quota di reddito nazionale appannaggio della rendita finanziaria.
Non solo: la stessa politica che teneva bassi i tassi di interesse sui titoli pubblici (il famoso QE, Quantitative Easing), ha anche favorito i circuiti della speculazione finanziaria: l’abbondante liquidità di cui le banche ordinarie si sono trovate a disporre e che non poteva essere prestata ad un’economia agonizzante di austerità ha finito per essere impiegata nel grande casinò della scommessa finanziaria.
Viene in mente il Marx del 18 Brumaio di Luigi Bonaparte (1852): “L’indebitamento dello Stato è l’interesse diretto dell’aristocrazia finanziaria quando governa e legifera per mezzo delle Camere; il disavanzo dello Stato è infatti il vero e proprio oggetto della sua speculazione e la fonte principale del suo arricchimento. Ogni anno un nuovo disavanzo. Dopo quattro o cinque anni un nuovo prestito offre all’aristocrazia finanziaria una nuova occasione di truffare lo stato che, mantenuto artificialmente sull’orlo della bancarotta, è costretto a contrattare coi banchieri alle condizioni più sfavorevoli”.
Certo, in Italia non siamo più al 1992, quando il pagamento degli interessi sul debito pubblico assorbiva un impressionante 12% del PIL, ma siamo ancora all’incirca al 4%. È ancora troppo e in nessun modo possiamo permettere alla rendita, in un momento di tale durezza economica, sociale e psicologica, di soffocare le speranze di rinascita.
Se i sovrani inglese, nordamericano e giapponese hanno già provveduto ad una più sostenuta monetizzazione del debito; se persino il conosciutissimo ex-capo economista del Fondo Monetario Internazionale, Olivier Blanchard, ci dice che non dobbiamo preoccuparci dell’inflazione; se, come ci ha ricordato Mario Draghi nel famoso intervento sul Financial Times, in tempi eccezionali (guerre) questa soluzione ha costituito nella storia una risposta normale; se, insomma, il Sovrano europeo rimane insensibile a questo coro di voci non sospettabili di estremismo, non si può non pensare che costringere un regno a mettersi oggi nelle mani dei mercati finanziari significhi volerlo costringere domani alla solita e drammatica austerità (che, sia detto per inciso, fa pagare sempre più ai lavoratori che ai capitalisti l’ingordigia del rentier), a un indebolimento così sfibrante e strutturale da diventare facile preda degli altri regni.
Concludo allora con un auspicio. Che questa tremenda pandemia induca i giovani a trasformare l’Europa, un paese per vecchi, in un posto migliore. Al Sovrano non è bastata neppure questa. Non so come, ma occorrerebbe rovesciarlo.