19 Novembre 2020
Se è vero che i diritti saranno la spina dorsale della prossima grande idea politica, dobbiamo ricordare e far sì che ci si ricordi come la conquista dei diritti non sia sempre un cammino morbido.
Se digitiamo ecosocialismo su google troviamo una definizione e degli scritti teorici interessanti. Banalizzando molto le due parole che si fondono portano il proprio bagaglio primigenio in un concetto propedeutico al nuovo. L’ecologia non è proprio cosa degli ultimi anni, anche se la condivisione delle preoccupazioni legate ai mutamenti del clima hanno reso tutti ormai edotti del dramma, mentre l’azione di Greta Thunberg ha creato un’effige simbolica di una protesta.
Il socialismo è troppo da riassumere in due parole, quindi ne userò una: eguaglianza.
Perdonata la banalizzazione iniziale, la fusione delle due parole ci porta dentro un concetto turbo per la nostra contemporaneità. Può imprimere una spinta forte, anche se non definitiva, per questo lo definisco propedeutico a una nuova idea. Con ordine.
Voglio risparmiarmi la critica al capitalismo, vorrei darla per assodata, abbiamo sotto agli occhi da anni e anni cosa provochi, senza esser riusciti a vincere, sebbene si sia combattuto.
Vorrei, invece, che ci concentrassimo su fattori di anestesia sociale che nelle socialdemocrazie soprattutto, nelle democradure e regimi totalitari non ce ne era bisogno, hanno rallentato il processo di emancipazione del Novecento. Il secolo del sangue, ma anche delle conquiste.
La beatificazione del centro moderato
Negli ultimi anni il processo di beatificazione, in Italia, dei viaggi al centro e aggiungo moderato, è stata una prassi concertata. Non trovo altra spiegazione al discorso dominante in politica e sul mainstream che ha esaltato una ricerca esasperata ed esasperante del centro, sottolineando come la sinistra rossa fosse radicale, estrema. I toni pacati, una sorta di galateo delle notizie, i vecchi commentatori capaci di assimilare agli anni di piombo qualsiasi nuovo singulto di conflitto, più o meno violento, non fosse che una sola scritta su un muro, i politici che si affannano a condannare.
Condannare la violenza non dice, non ha mai detto, nulla. Peraltro.
L’epoca del moderatismo e dell’anestetico sociale si intreccia con l’esplosione digitale.
Il mondo cambia marcia. E cambiano le abitudini, non tanto di noi cinquantenni – anche, molto e in maniera radicale davvero questa volta – ma soprattutto la fruizione da parte dei nativi digitali e dei vecchi analfabeti digitali. Una tripartizione interessante, in cui c’è una generazione cerniera, quella dei cinquantenni, che in fondo si è espressa ai minimi storici, se guardiamo la hall of fame dei morti che ci lasciano del Novecento e le grida smarrite del popolo e dei commentatori che si chiedono: e adesso come faremo.
Adesso ve lo svelo: faremo, o avremmo potuto fare, che si lasciava spazio, che non si rincorreva il talento fiorito trascurando quello sbocciato o in bocciolo, senza bloccare l’ascensore sociale. La generazione cerniera oggi si chiede, con tanta intelligentia svincolata da tessere e strutture di partito che cosa avrebbe dovuto, o che cosa può ancora dare, perché, per fortuna, cinquanta oggi son pochi, dicono.
I vecchi sono tanti. Abbandonati al rancore e al populismo becero che fa presa dai televisori di domenica in, della D’Urso e dei tg, spesso marmellata indistinta di notizie che li terrorizzano, urlate. I giovani se ne sbattono sostanzialmente i coglioni e crescono. Crescono come possono; chi con una famiglia che ricorda e fa memoria, chi nel nulla dei valori e dentro una sottocultura un po’ hooligan e un po’ protofascista di onore, fedeltà, fratellanza, anche senza che abbia per forza un colore politico. Perché i colori sono finiti e restano a noi per comodità di giudizio di categoria, o a loro per semplificare qualcosa che non capiscono, perché non lo hanno vissuto. O, ancora, per riconoscere la bontà di un sapore che sfugge e giocare con quelli che per noi erano i reali giorni della politica di gioventù. In buona fede, loro, assoluta. Noi discutiamo della cittadinanza italiana, lo ius soli. I vecchi insultano i neri sulla 90, un po’ a casaccio, rancore, i giovani sono già dentro una società diversa che di quel dibattito politico riconosce forse solo una cosa: beh, ma cosa aspettano? Ma se è già così.
Ecologia e uguaglianza.
Forse sì, sono le parole giuste, se evocano un immaginario nuovo, anche in chi ha qualche stagione sulle spalle, ma soprattutto solo a chi non è diventato cinicamente insensibile alla forza della politica, chi non vuole vivere la dimensione partitica e di incarico come avviene da tempo immemore: se sei eletto, dal giorno dopo sei in campagna elettorale. Se sei nel partito, devi condividere le scelte, anche quelle di incoerenza, altrimenti sei fuori.
Le manifestazioni dei Fridays For Future, ne ho frequentate parecchie, ai miei occhi di cronista han detto poche e semplici cose: è una protesta condivisa, per una paura che nel corteo trova momento di sfogo e catarsi gioiosa, il messaggio è così semplice perché lo stai soffrendo sulla tua pelle. Ma nelle interviste che ho realizzato mi ha colpito il tenore di molte risposte.
Il campione non è assolutamente rappresentativo per dedurne teorie, ma percezioni sì, corroborate anche da altri fatti che vedo: la mancanza di una abitudine costitutiva del chiedere nuovi orizzonti, cioè quella del conflitto. Un partito verde in Italia c’è. Meglio; ci dovrebbe essere, davvero. Non c’è nulla paragonabile a un vero partito verde. Le sfumature verdi stanno anche dentro le formazioni di sinistra e centrosinistra. Ma non è questo il punto. Così è ragionare come una volta. Il punto è che cosa possiamo affrontare come sfida valoriale condivisa che sia proponibile a chi si avvia a guidare il mondo, sempre che quelli che ci hanno bloccati finora muoiano una buona volta.
La trasmissione dei saperi
Si diceva, una volta, la trasmissione dei saperi. Ottimo compito, oggi. E della memoria, sempre. Anche perché a scuola studiano paragrafi brevi per quelli che furono anni scolpiti nella nostra memoria, anche solo venti anni fa, a Genova.
Le foto di Falcone e Borsellino: un simbolo in bianco e nero che oggi dovrebbe trasformarsi in una consapevolezza diversa rispetto a un omaggio ormai istituzionalizzato. Non c’è più la rabbia, ci può essere lo sdegno, lo stupore, il voler partecipare e sapere di più. Ecco perché la componente ecologica, che stravolge la prospettiva e abbatte, con i tempi giusti e da accelerare, la società del profitto e la dimensione dell’eguaglianza ,che può essere vissuta non in chiave da guardia rossa, ma come una occasione di redistribuzione sociale a partire dai nostri doveri e dai nostri diritti, può essere un meccanismo importante e propedeutico.
Una nuova idea: intanto costruiamo un ponte
Verso cosa non lo so e sarò anzi curioso di conoscerlo quando le intelligenze di chi vive la primavera avranno di che dire. Se riuscissimo a creare un ponte sarebbe bellissimo.
Fine delle farfalle sui fiori.
Ci vogliono soldi.
Ci vuole struttura, diversa da un partito, ma una rete, un network.
Ci vuole un mezzo di informazione o una strategia molto coordinata.
Non c’è bisogno di vecchi maestri, né di risciacqui di coscienze di chi vive troppe stagioni da movimentista per perdersi anche questa, manco fosse una figurina per l’album. Ci vogliono migliaia di passi in avanti e migliaia di passi indietro quando c’è da far spazio, meglio; di lato, perché il patto generazionale è una necessità.
Detto questo, rimane il punto sul conflitto.
Se è vero – e io lo credo – che i diritti saranno la spina dorsale della prossima grande idea politica, dobbiamo ricordare e far sì che ci si ricordi come la conquista dei diritti non sia sempre un cammino morbido. Presuppone, appunto, un conflitto. Dove non è necessaria a tutti i costi la violenza, senza escluderla in maniera ipocrita dal novero delle possibilità.
Ecco l’ecosocialismo, io l’ho inteso così e mi perdoneranno i teorici ortodossi, è una chiave, che sarebbe tempo di usare.