29 Ottobre 2019
Una domanda, senza risposta, di fronte a violenze in divisa di un sistema killer, che si chiama capitalismo
Polizie ed esercito, Paesi e motivi spesso diversi, ma con un minimo comun denominatore rispetto al divario sociale, ai primi e agli ultimi e alle prepotenze del sistema killer, il capitalismo, che non sfrutta e uccide solo il pianeta, ma l’uomo e che travestito da istituzione comanda, muovendo le leve delle schiere di antisommossa o divise. O il potere assoluto delle dittature travestite, lupi travestiti da agnelli. O ancora la pretesa di essere stati di diritto, e allo stesso tempo capaci di pestare cittadini inermi a bastonate nel nome di una legge che in maniera tristemente grottesca fu chiamata ‘per la sicurezza del cittadino’.
Non sono descrizioni ideologiche. Per nulla, è tutto nelle immagini che abbiamo visto scorrere sotto i nostri occhi dalla Turchia al Cile, da Hong Kong a Mosca, in Ecuador, in Spagna, Catalogna.
Vedere e leggere delle violenze cilene ci ha catapultato indietro alla macelleria di Pinochet, vedere i pick-up con i militari che entrano nelle case, i fucili che sparano ad altezza uomo, i gas cs sparati in Spagna, contro ogni convenzione internazionale, le botte indiscriminate che si rifugiano dentro il branco in divisa che separa dal gruppo e poi pesta brutalmente con manganelli, bastoni, cannoni ad acqua, fino appunto al fuoco reale. I video, le foto ci sono. Niente è coperto e non si può dire che la notizia non aveva conferme. E quindi, che si fa?
Io condivido in rete e ci metto anche un emoticon arrabbiato. E poi? Poi marcio sotto i consolati o le, ambasciate. Ed è giusto dimostrare, ma non si capisce quale effetto vogliamo ottenere. Sebastián Piñera , presidente del Cile, ci prende in giro con un tweet dopo la più grande manifestazione del Paese in cui si acclamava Victor Jara, cantautore cileno devastato dalle tortura e poi ucciso, e scrive va bene, adesso cambiamo, non vi preoccupate. Il sangue versato non si spazza con un. cinquettio digitale.
E poi mi fermo e mi sento male, perché se le radio degli anni 70 trasmettevano nelle fabbriche la repressione golpista e gli operari scendevano a picchetto e manifestazione, oggi le fabbriche sono spogliate da qualsiasi coscienza politica. Davanti aij cancelli di scuola ci sarebbero stati picchetti e volantini al ciclostile. Ma adesso c’è la diretta costante e posso guardare seduto comodo in cucina la questione dell’autodeterminazione catalana diventare solo una repressione della piazza con un senso di impotenza che cresce guardando sempre più affamato le telecamere della diretta.
Il militare cileno che strizza un seno alla manifestante che sta arrestando è un’immagine di lugubre repertorio che non pensavamo di poter più vedere, nella nostra testa. E invece è accaduto, proprio mentre mi mangiavo una patatina, oppure decidevo che film andare a vedere.
Cosa potevamo fare allora per quei paesi sequestrati e violentati?
Perché sono rimasti gli uomini neri?
Ma soprattutto: e adesso io che cosa faccio?
Protesto, condivido, sensibilizzo, boicotto. Va tutto bene, ma in quella piazza, nelle strade di Barcellona a Istanbul stanno prendendo a calci in faccia le persone, con dirette eloquenti, e i cittadini si guardano increduli che ci sia tutta questa violenza.
Ecco, la parola è violenza. E l’altra parola è divisa. Violenza di stato. Che cosa è lo stato, bastano elezioni ‘democratiche’ per legittimare coprifuoco nelle strade. Basta dirsi democratici per far saltre gli occhi dalle orbite con proiettili di gomma. Non credo proprio. Eppure c’è ancora quella falsa moderazione che impone alla maggioranza di pensare che le forze di polizia, in quanto emanazione di uno stato di ‘diritto’ siano titolate a reprimere in nome di una legge.
Guardando le immagini di questi giorni: quale legge potrà mai dire che si devono strizzare i seni a una giovane che protesta? Quanti comportamenti ‘deviati’ sono stati o saranno sanzionati? Possibile che dopo stagioni di riattivazione della memoria abbiamo ancora per le strade fanatici che inneggiano ai peggiori carnefici e macellai della storia? Chiedere autodeterminazione è rivolta? Vale decine di anni in carcere per personaggi che lavorano dentro il campo della politica, non di una formazione armata?
Le domande possono proseguire, ma è la risposta personale che manca. Manca a chi ha visto un pezzo del Novecento e gli inizi del secolo delle torri gemelle e si preoccupa perché in prospettiva manca una risposta anche per chi oggi è un simpatico manifestante che urla contro l’inquinamento e lo sfruttamento del pianeta e domani sarà un sovversivo da bastonare, torturare, violentare, spaventare con quello che abbiamo visto in questi giorni, che ha un nome, non spaventiamoci, ce l’ha: terrorismo di stato. Non alzate il sopracciglio, il terrorismo è creare il senso di panico e paura, ilterrore di mandare i propri figli in piazza e leggere decreti che se applicati alla lettera, anch qui in Italia, possono fartelo sparire per una mezza giornata. In altri Paesi è peggio, c’è tortura, ci sono le botte e le violenze sessuali che poi vengono diffuse in un racconto che crea a sua volta ansia, panico e terrore. Questo è terrorismo.
La stampa è troppo spesso connivente. Conniventi gli analisti che si riparano dietro una moderazione che viene ritenuta oggi un valore di per sé, come se esternare le proprie idee, portando motivazioni e ragionamento sia da disprezzare in nome di una medietà che non fa vacillare i cardini delle nostre società contemporanee. Ma il problema viene solo spostato un po più in là e si ripresenterà con più energia, con più violenza, perché riguarda un diritto inalienabile, che è quello di poter esprimere le proprie idee e cercare di affermarle sugli altri.
Dicono, a volte, che evocare il conflitto come un valore positivo sia deresponsabilizzante per chi lo scrive. Non credo. Evocare il conflitto, senza che arrivi a violenza, ma non avendo paura che sia un conflitto duro e aspro, è dire che non siamo salvi dagli orrori del Novecento. Anzi che molte delle conquiste che abbiamo ottenuto, che hanno ottenuto i resistenti delle varie epoche di quel secolo o ce le teniamo strette oppure finiremo con il perderle.
La comunità internazionale è muta e impotente. Le grandi istituzioni sono incapaci di fermare alcunché. L’Onu è un fallimento. L’Unione europea è incapace di ricoprire un ruolo protagonista che potrebbe e dovrebbe avere, per l’attacco sovranista a tenaglia che da fronti opposti viene finanziato e supportato nei singoli Paesi. Bastano tre righe per scrivere di questa impotenza, ma è uno dei buchi neri più inquietanti di questi nostri decenni. Non c’è un garante internazionale che abbia una voce chiara, che abbia i mezzi per imporre misure davvero efficaci e la reputazione stessa di queste istituzioni è ormai affogata in una sequela di incoerenze che hanno attraversato la storia di conflitti, in cui le persone che soffrono sulla propria carne l’inazione della diplomazia sanno che peso dare alle parole vuote.
Sta in noi, sta in voi, non far spegnere le fiamme. Quelle della rabbia, quelle della dignità, quelle del conflitto, che un giorno potrà essere necessario anche qui, nell’apparente società ordinata, dove gli ultimi rimangono ultimi, perché la retorica troppo spesso ha vinto le sue partite a tavolino. Non abbiamo paura del conflitto.
Cosa posso fare io? La domanda che gira nella testa ha bisogno di una risposta.