di Luca Rasponi
9 Febbraio 2019
Recensione di “Lamiere. Storie da uno slum di Nairobi” (Feltrinelli Comics), reportage a fumetti di Giorgio Fontana, Danilo Deninotti e Lucio Ruvidotti
Decostruire gli stereotipi è il primo ostacolo da superare per raccontare in modo diverso una storia nota. Per molti – nonostante i ripetuti disordini e il recente rapimento di Silvia Romano – il Kenya continua a essere un luogo da cartolina.
Ma basta un titolo come Lamiere. Storie da uno slum di Nairobi, per far capire che c’è poco da pensare alle vacanze.
A questo punto i più si focalizzeranno sul mood dei “poveri africani” (in alcuni casi accompagnato dalla compassione, in altri dal disprezzo), mentre a qualcun altro torneranno alla mente le atmosfere del romanzo Shantaram di Gregory David Roberts.
Ma siamo ancora fuori strada. Perché il reportage a fumetti di Giorgio Fontana, Danilo Deninotti e Lucio Ruvidotti – pubblicato appena due giorni fa da Feltrinelli Comics – compie uno sforzo di obiettività per raccontare, “semplicemente”, la realtà per quella che è.
Con una sceneggiatura estremamente lineare, che guarda alle radici del linguaggio giornalistico, il solo disegno assume sulle spalle la responsabilità di ricordarci che quello che vediamo è comunque filtrato attraverso lo sguardo di un autore, e quindi dalla sua soggettività.
I disegni e soprattutto i colori scelti da Ruvidotti, che sembrano usciti dalla tavolozza di Andy Warhol, producono un effetto di straniamento che spazza via definitivamente ogni traccia di retorica, del resto praticamente assente anche dai testi di Fontana e Deninotti.
Non c’è pietismo perché non c’è distanza tra narratori e realtà osservata.
Gli autori si calano completamente in essa, con il loro bagaglio di spontaneità ed esperienze personali, senza fingere di trasformarsi in antropologi o etnografi per l’occasione.
Lo dimostra lo spazio dedicato all’ironia e al gioco: può esserci leggerezza anche nella vita dello slum, dove nonostante la povertà estrema si trova una parrucchiera all’ultima moda e i ragazzi sono simili a quelli di tutto il mondo – estetica hip hop, avversione per le regole e perenne ricerca di ragazze che non si fanno trovare.
Eppure non possiamo dimenticarci dove siamo, né gli autori se ne dimenticano mai.
Lo slum di Deep Sea, tra i più grandi della capitale Nairobi, è un concentrato di case in lamiera senza pavimento, distrutte continuamente da devastanti incendi e (ri)costruite all’occorrenza in appena due giorni.
Le fogne a cielo aperto come fiumi, l’acqua corrente che quando non viene rubata diventa veicolo di malattie, un limbo di umanità alienata dalla totale assenza di privacy e da un disagio sociale lampante, aggravato dal fatto – per quanto possa sembrare assurdo – che chi vive in queste baracche non ne è quasi mai il proprietario, ma paga addirittura l’affitto.
I freddi dati dicono che in Kenya gli slum occupano il 5-6% della superficie urbana, ma ospitano in compenso il 60% popolazione: una tendenza insospettabilmente presente in tutte le metropoli del pianeta, se è vero che un cittadino su quattro vive in una baraccopoli.
Messa così, a proposito di stereotipi, sembrerebbe la situazione più lontana del mondo dalle vite mediamente agiate di noi “occidentali”. Eppure, come racconta padre Ettore Marangi – missionario che accoglie gli autori insieme ai volontari della ong Rainbow for Africa – gli altri kenioti definiscono gli slum “i posti degli sconfitti”.
Una colpevolizzazione della povertà ormai diffusa a tutte le latitudini.
Di pari passo con la superficialità di un’azione politica spesso incapace di agire sulle cause reali dei problemi: le persone che vivono nelle baraccopoli, spiegano gli autori, vengono infatti «usate come capro espiatorio o materiale da propaganda, sgomberate quando fa comodo per mostrare il pungo duro del governo contro “la criminalità”, fotografate e citate come esempi di resistenza (anche da noi)».
Nonostante queste condizioni di vita drammatiche – cui si contrappone la ricca Nairobi metropolitana – gli abitanti di Deep Sea non si appiattiscono sul ruolo di vittime passive delle circostanze.
Dai bambini, che gli autori ritraggono vivaci e curiosi come tutti i bambini del mondo, fino alle donne, vera e propria spina dorsale per la vita sociale dello slum. Mentre gli uomini, spesso alcolizzati, sono assenti o peggio ancora violenti.
L’opera dei volontari di Rainbow for Africa si concentra principalmente sulle donne, alle quali vengono insegnati rudimenti di medicina e igiene, a cominciare dal lavaggio delle mani che in una realtà del genere rappresenta già un piccolo miracolo quotidiano.
Di fronte agli operatori della ong un compito difficile.
Dare continuità all’attività dell’hospice per contribuire, almeno in parte, ad offrire cure mediche a una popolazione che non ha diritto ad alcuna assistenza sanitaria se non a pagamento, mentre deve affrontare vere e proprie piaghe come l’Hiv (1,5 milioni di malati su 50 milioni di kenioti, il 12% degli abitanti degli slum con punte del 30% a Kangemi).
In un simile contesto, ascoltare pensieri e riflessioni di volontari e missionari sul senso e l’utilità della loro presenza a Deep Sea è davvero istruttivo: ora una carrellata di citazioni sarebbe sicuramente d’effetto, ma toglierebbe molto piacere alla lettura.
«Grazie per avermi chiesto il suo nome» dice ai medici volontari la sorella di una donna appena morta dopo un’operazione disperata. Basta questo per capire quanto in basso possiamo costringere a vivere gli altri esseri umani. E realizzare quanto ancora è lungo il cammino per spezzare il dominio dell’uomo sull’uomo.