di Luca Rasponi
9 Febbraio 2020
Recensione del reportage a fumetti di Francesca Mannocchi e Gianluca Costantini (Oscar Ink)
È possibile conoscere la Libia di oggi, oltre la patina superficiale dei notiziari? Cosa sta succedendo davvero in un Paese di cui si parla ogni giorno, ma che pochi di noi possono dire di conoscere davvero?
Le risposte a queste domande si trovano il Libia, reportage a fumetti di Francesca Mannocchi e Gianluca Costantini pubblicato da Ocar Ink a fine 2019, nel pieno dell’offensiva del genera Haftar su Tripoli.
Il momento dell’uscita rende il volume tremendamente attuale, nei giorni dei difficili colloqui che tutto il mondo osserva con apprensione. Ma la capacità di smarcarsi dalla stretta attualità è la caratteristica vincente e più apprezzabile di questo lavoro.
«Una pietra miliare del graphic journalism italiano»
Questa definizione, che si legge in quarta di copertina, rende bene l’idea di come l’approfondito lavoro sul campo della giornalista Mannocchi abbia trovato un compendio ideale nelle immagini dell’illustratore Costantini.
Il volume copre infatti un arco temporale di cinque anni – dall’inizio della guerra civile del 2014 all’avanzata di Haftar nel 2019, passando per l’avvento dell’Isis nel 2016 – allargandosi ulteriormente grazie a una serie di flashback.
La rivoluzione del 2011, evento scatenante delle vicende odierne, trova a sua volta un ideale punto di partenza nel massacro di Abu Salim: 1.270 prigionieri politici di Gheddafi uccisi in carcere il 29 giugno 1996 dopo un tentativo d’insurrezione.
A dare questa chiave di lettura è il drammatico racconto di Hussein, sopravvisuto alla strage e prigioniero per 23 anni ad Abu Salim. La sua testimonianza è la prima di una serie che costituisce l’ossatura del volume, determinando la suddivisione in capitoli.
«Un paese in cui bisogna scavare dietro le apparenze, per vedere la verità»
Questa è la Libia di oggi, spiega Mannocchi, precisando come «tutto quello che dall’altra parte del mare, in Europa, sembra chiaro, invece sull’altra costa è fluido e pieno di ombre. Come la vita».
Con queste premesse, il racconto fluisce spontaneo da una galleria di volti e voci che sembra uscita da altri lavori di Costantini, come Le cicatrici tra i miei denti. Con la differenza che quel condensato di ritratti e citazioni esplode in un torrente di immagini e parole.
Da vignettista qual è, tra bianchi e neri densissimi Costantini crea figure iconiche, a tratti quasi sacrali. Ma la sovrapposizione tra più livelli grafici all’interno della tavola – dove le vignette mancano o sono soltanto un elemento accessorio – è il perfetto complemento alla sceneggiatura di Daniele Brolli.
Il racconto scorre fluido, senza stacchi, se non per le cesure tra un capitolo e l’altro del racconto, che in ogni caso non creano al lettore alcuna difficoltà nel collocare tutti gli elementi all’interno di un unico scenario.
Quella Libia che Francesca Mannocchi fa emergere dalle testimonianze sul campo con sensibilità e umanità alle quali non si può né si deve rinunciare, che sono indispensabili a un racconto giornalistico approfondito e di qualità.
Esemplare in questo senso il capitolo La nebbia libica, con la testimonianza di Amir, prigioniero nel centro di detenzione di Zawija.
In «un Paese in cui l’unica economia che resiste è quella che si fonda sul sogno degli uomini e delle donne che vogliono attraersare il Mediterraneo», Mannocchi incrocia punti di vista fondamentali per capire la situazione.
Quello di Isaa, responsabile della Guardia costiera di un piccolo paese portuale, impegnato a salvare vite da solo senza alcun mezzo. E quello di Hafed, trafficante dal quale scopriamo che in realtà gli scafisti non esistono: sono solo migranti scelti in mezzo agli altri un attimo prima della partenza.
«Le stesse milizie che governano il territorio e che cercano di mostrare all’Europa che possono controllare l’immigrazione clandestina sono strettamente connesse al business dei trafficanti. Ne sono dominus».
Da queste parole emerge chiaro un meccanismo tutt’altro che nuovo, se è vero che Gheddafi otteneva soldi minacciando Berlusconi e Sarkozy di «tingere l’Europa di nero».
Nel frattempo il regime è caduto, ma nulla è cambiato. Perché le milizie servite a rovesciarlo non sono mai state integrate nell’esercito regolare. Anzi sono diventate ancora più potenti in seguito agli accordi stretti da Serraj con l’Occidente.
Ora le milizie, racconta Ibrahim, controllano luoghi e strutture nevralgiche, i traffici di esseri umani, armi e denaro. Persino le banche: in un Paese ricchissimo di materie prime, il contante scarseggia e ogni mattina si creano file interminabili agli sportelli di ogni filiale per prelevare.
In questo meccanismo all’apparenza inesorabile, tanti sono i complici e ancora di più le vittime
Come Wered, partita giovanissima dall’Eritrea per aiutare la sua famiglia e finita nelle grinfie dell’Isis, in una sordida alternanza tra stupri e prigionia.
L’incertezza assoluta, lo dice chiaro e tondo il giovane giornalista Salem, è il dramma della Libia di oggi. Dove ancora non si può raccontare nulla di sgradito al potere, ma è venuta a mancare la sensazione di sicurezza dovuta al controllo totale esercitato da Gheddafi.
«Se questi sono i risultati, perché ribellarsi ancora?» si chiedono molti libici, che sperano nel ritorno di un “uomo forte” come Khalifa Haftar. Perché considerano «la dittatura come sola alternativa alla confusione politica».
Le conclusioni sono affidate alle strazianti parole di Tewa: «Dittature come quella di Gheddafi uccidono le anime perché danno troppo», sono “dittature dell’abbondanza”, dove si riceve tutto il necessario in cambio dell’obbedienza.
«La Libia insegna che il denaro narcotizza. E l’interesse, quando è grande com’è grande in Libia, diventa oblio». «La nostra ricchezza è la nostra catena» dice ancora Tewa. «E tutti intorno, anziché aiutarci a liberarci dalle catene, le stringono. Ogni guerra di più».