di Luca Rasponi
13 Marzo 2018
“Non è te che aspettavo” (Bao) racconta senza filtri difficoltà e cambiamenti nella vita dell’autore Fabien Toulmé all’arrivo della figlia Julia, nata con la sindrome di Down
Che il fumetto abbia raggiunto un livello di maturità paragonabile in tutto e per tutto alle altre forme artistiche è ormai un dato acquisito. E non è un caso che le vette più alte siano raggiunte dagli autori in grado di valorizzare al meglio le peculiarità espressive dello strumento.
Eppure le sorprese non mancano. Perché Non è te che aspettavo alza ulteriormente l’asticella, portando a un livello più elevato le potenzialità di questo linguaggio. Come? Facendo qualcosa di necessario, a partire da illustri precedenti ma con modalità completamente nuove.
In questo volume recentemente portato in Italia da Bao, infatti, l’esordiente Fabien Toulmé conduce il lettore in un viaggio all’interno del momento più difficile della sua vita: la nascita di una figlia trisomica, affetta cioè dalla sindrome di Down.
Avete presente il politicamente corretto? Ecco, buttatelo dalla finestra. Toulmé viviseziona se stesso, offrendo al lettore tutto quanto: pregiudizi, paure, pensieri negativi compresi i più atroci. Non c’è alcun filtro tra autore e lettore: siamo dentro la mente di Fabien.
Ascoltiamo i suoi timori nei mesi di gravidanza della moglie Patricia, condividiamo il suo sgomento nel momento in cui apprende la notizia, viviamo la sua confusione nelle prime settimane di vita della piccola Julia.
Il racconto è così diretto da risultare disarmante nel senso letterale della parola: presto si rimane senza barriere, senza alcuna difesa, a condividere la disperazione di un padre incapace di accettare la disabilità della figlia appena nata.
Il risultato, forse non serve nemmeno dirlo, è commovente fino allo strazio. Perché il percorso di Fabien e Patricia è autentico, senza fronzoli o soluzioni precotte: la maturità personale e la serenità familiare sono messe in discussione a tal punto da dover essere ricostruite da zero.
Un percorso articolato che comincia con il rifiuto della condizione di Julia, dettato dalla consapevolezza delle difficoltà future e dall’ignoranza in merito alle reali caratteristiche della trisomia 21.
Il contatto con esperti medici e famiglie nella stessa situazione consente ai due genitori di raggiungere lo stadio dell’accettazione. Ma si tratta ancora di un’accettazione passiva, troppo simile alla rassegnazione per consentire alla coppia di ritrovare il proprio equilibrio perduto.
Senza darsi per vinti né forzare i tempi a se stessi o alla piccola Julia, Fabien e Patricia proseguono con abnegazione sulla strada intrapresa. Ed ecco che i progressi arrivano, che l’intimità del contatto quotidiano riesce a stabilire tra genitori e figlia quel legame profondo e indissolubile che solo pochi mesi prima era sembrato una chimera.
Due genitori che amano la propria figlia: normale no? Ma quanto è difficile riuscirci in maniera autentica, senza imposizioni, quando la sorte riserva alla nuova arrivata una condizione disabilitante come la sindrome di Down?
Sfuggendo già dal titolo facili ipocrisie, Non è te che aspettavo testimonia un percorso possibile e coraggioso, perché impegnarsi a raggiungere la sincerità dei sentimenti – nei confronti di se stesso e della propria figlia – è sicuramente più difficile che fermarsi allo stadio dell’accettazione passiva.
Con uno stile che si colloca nel solco della tradizione franco-belga, compresi i suoi sviluppi più recenti à la Guy Delisle, Toulmé mette al centro del suo racconto una patologia e il disagio che ne deriva, come già Charles Burnes in Black hole e David B. in Il grande male.
Ma l’approccio è completamente diverso.
Nell’alchimia della narrazione, infatti, l’ironia gioca un ruolo decisivo, facendo da contrappunto emotivo al dolore di tante pagine. E poi la leggibilità: a dispetto delle quasi 260 pagine, la lettura del graphic novel è assolutamente fluida e scorrevole.
Non è te che aspettavo affronta un tema trattato poco e male, a metà strada tra esclusione e pietismo sia a livello sociale che di rappresentazione mediatica. Una sorta di segregazione – nonostante i miglioramenti degli ultimi decenni – che secondo alcuni addetti ai lavori perdura anche nei nostri sistemi di welfare avanzato, portando di fatto i disabili a rimanere una minoranza sostanzialmente senza voce.
Questo perché troppo spesso, peraltro in un’epoca di allentamento delle reti sociali, ci fermiamo allo stadio dell’accettazione passiva, senza capire che solo un’inclusione reale e consapevole può fare davvero la differenza. Per salire quel gradino in più e arrivare a dire, insieme a Fabien, «Non è te che aspettavo… ma sono contento che tu sia arrivata».