Paradiso Italia, intervista a Mirko Orlando

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9 Settembre 2019

Paradiso Italia (Edicola Ediciones) è un esempio di graphic journalism che combina fotografia e fumetto

Secondo i manuali di giornalismo, il buon reportage è quello che riesce a mantenere il giusto equilibrio tra l’immersione del cronista nella realtà raccontata e l’indipendenza del suo punto di vista.

Equilibrio difficile quando si è di fronte a temi controversi e ampiamente dibattuti come le migrazioni di questi anni. Perché la tragedia del Mediterraneo e le contraddizioni del sistema di accoglienza sono sotto gli occhi di tutti, e non è semplice raccontarle con onestà intellettuale, senza ricercare nella realtà conferme alle proprie tesi.

Con Paradiso Italia (Edicola Ediciones, maggio 2019) Mirko Orlando riesce a fare esattamente questo, producendo un ottimo esempio di graphic journalism, che restituisce un quadro ricco di informazioni e giornalisticamente sincero senza mai tascurare l’umanità delle persone incontrate.

Dalle palazzine occupate dell’ex Moia di Torino alle baracche della periferia di Ventimiglia, da chi tenta di superare il confine con la Francia in Val di Susa ai braccianti di Borgo Mezzanone (Foggia), Orlando ha raccolto testimonianze forti e significative che spiegano cosa significa essere un migrante in Italia, senza ipocrisie o edulcorazioni, direttamente dalla voce di chi vive oggi questa esperienza drammatica e paradossale.

 

«Tessere l’apologia del migrante è ridicolo quanto calunniarlo». Il tuo è un racconto molto sincero e diretto, senza sconti per i protagonisti delle storie riportate compreso l’autore: come l’hanno presa le persone di cui hai raccolto le testimonianze una volta letto il graphic novel finito?

Le reazioni possono essere svariate, ma in generale non ci sono mai stati particolari problemi d’incomprensione, anche perché in fase di preparazione ci tengo a mettere le cose in chiaro fin dall’inizio: trascrivo ciò che mi dicono le persone intervistate senza distorcere il loro punto di vista, e mi riservo di commentarle con assoluta onestà e in piena libertà critica. Questo è un lavoro dove è necessario farsi una reputazione, perciò devi evitare qualsiasi ambiguità. Allo stesso tempo, questo è un lavoro che non ti permette di assecondare le persone in tutto e per tutto… neppure te stesso. Gli eventi che si documentano vanno rispettati nella loro natura anche se contrastano con il tuo punto di vista, anche se in qualche modo disconfermano verità che credevi assodate.

L’ibrido tra fotografia e fumetto ricorda Il fotografo di Emmanuel Guibert, mentre lo stile grafico underground applicato al graphic journalism evoca subito Joe Sacco. Quali sono state le fonti d’ispirazione per il tuo lavoro?

Quelle che hai detto… più un’infinità di altri autori, che vanno da fumettisti come Andrea Pazienza fino a giornalisti come Ryszard Kapuściński. Alla fine quel che conta, per me, è raccontare la realtà che mi circonda con una certa onestà, per cui la questione stilistica è sempre subordinata a questo scopo. All’interno di questa cornice i riferimenti a determinate tradizioni stilistiche, spesso con del vero e proprio citazionismo, aiutano a collocare il mio lavoro in una prospettiva che ha alle spalle una chiara tradizione, un certo modus operandi che il lettore può facilmente cogliere. Poi, scattando io stesso le fotografie, è ovvio che si possono ricercare anche fonti d’ispirazione specificatamente fotografiche, come Paolo Pellegrin, Francesco Cocco, o Pino Bertelli.

«Devo assolutamente fare qualcosa», «Tutti dicono che vogliono fare qualcosa… ma poi nessuno fa niente»: cosa può fare ciascuno di noi per dare un contributo reale e concreto alla soluzione della crisi umanitaria legata alle migrazioni di questi anni?

Senza la collaborazione dell’Europa neppure l’Italia può fare molto, figuriamoci un comune cittadino. I problemi globali richiedono soluzioni globali e non locali se si vuol fare le cose sul serio. Noi tutti, però, possiamo giocare la nostra parte cominciando con lo smettere di tollerare il razzismo. Non siamo un popolo razzista, ma da noi il razzismo è fin troppo tollerato, e ciò ha fatto precipitare il discorso pubblico in una voragine di indecenze, falsità e calunnie. Le barbarie si originano sempre dal decadimento del linguaggio, quando i discorsi si fanno gretti o manichei, o quando, ad esempio, i contrari diventano sinonimi. Prendi la parola “buonismo”, che è il contrario di “bontà”, ma che viene invocata ogni volta che qualcuno fa un gesto di semplice umanità. Oppure, in maniera ancor più evidente, le “ONG”, che sono il contrario dei “trafficanti” e che invece vengono descritte come complici… insomma, dobbiamo partire dallo smettere di tollerare queste abiette semplificazioni.