di Luca Rasponi
9 Novembre 2018
Intervista all’autore di ‘Zlatan. Un viaggio alle origini del mito’, racconto dei primi anni di vita e carriera di Ibrahimović
Il 25 ottobre scorso è uscito per Feltrinelli Comics Zlatan. Un viaggio alle origini del mito, graphic novel con cui l’autore Paolo Castaldi ha ripercorso l’adolescenza e i primi anni della carriera calcistica di Zlatan Ibrahimović nel difficile quartiere di Rosengård (Malmö, Svezia).
Ho avuto il piacere di intervistare Castaldi dopo averlo incontrato nei giorni scorsi al Lucca Comics & Games 2018.
Com’è nata l’idea di Zlatan? Hai sottoposto il progetto all’editore o sei stato contattato da Feltrinelli Comics?
Mi ha chiamato Tito Faraci, nell’agosto del 2017. Ero al mare in Liguria, da mio fratello.
Mi dice, senza quasi nemmeno salutare: «Ciao Paolo, senti, la faccio breve che sono di fretta. Sono il curatore di una nuova collana di graphic novel, una roba grossa, per Feltrinelli. Ti vai di propormi un progetto a tematica sportiva? Te lo dico subito, stiamo tutti correndo, non avrai molto tempo ma credo tu possa fare qualcosa di molto bello e mi piacerebbe averti tra gli autori».
Io balbetto un attimo e poi accetto subito, frastornato. «Tito, ok, ma io ora sono al mare, per quando ti serve l’idea corredata da qualche studio?»
«Ce la fai in due o tre giorni? Stiamo per chiudere la lista dei titoli del 2018 che presenteremo tra qualche mese a Lucca Comics».
Decido di tornare a Milano e, mentre raddrizzo le curve della Serravalle, mi torna in mente quell’idea che avevo lasciato in un cassetto qualche tempo prima, nata dopo la lettura del libro Io, Ibra. Raccontare la gioventù di Zlatan Ibrahimović, la sua adolescenza e la sua formazione nel quartiere di Rosengård, a Malmö. Ero convinto fosse una storia forte e attuale allo stesso tempo. Nella biografia di David Lagercrantz, tutta la parte che precede l’entrata nel calcio professionistico di Ibrahimović è risolta in una manciata di pagine. Suggestive ma poco approfondite. Ecco, in quelle poche pagine io ci ho visto tantissimo potenziale. Così ho buttato giù un breve soggetto e l’ho girato a Tito, che lo ha accolto con entusiasmo.
Poi ho ripreso le mie ferie!
Com’è organizzato il processo creativo di un autore completo? Quali scelte narrative e grafiche caratterizzano maggiormente questo tuo ultimo lavoro?
Io parto sempre da uno spunto che mi pare forte e da lì comincio a costruire tutta la storia. La domanda è sempre «Cosa voglio raccontare con questa graphic novel?». A volte la risposta è fin da subito chiara, a volte meno.
Nel caso specifico c’è stato anche un importante lavoro corale. Ci siamo trovati in casa editrice io, Gianluca Foglia (direttore editoriale), Tito, Alessia e Camilla (le editor che mi hanno aiutato in tutta la lavorazione del volume) per decidere che direzione prendere.
Da subito è emersa prepotente l’idea del reportage. Volevo andare a toccare la situazione con mano, sul posto. Feltrinelli si è quindi adoperata per “spedirmi” in Svezia per lavorare a tutta la fase creativa e di documentazione.
Sono stato a Malmö per una settimana. Di giorno uscivo a raccogliere materiale e a realizzare interviste, scattavo fotografie. La sera restavo in stanza a scrivere la sceneggiatura, buttare giù qualche sketch, bere birra Falcon o Pripps Blå e consumare cene pronte del supermercato, smørrebrød e salmone.
Faceva freddissimo, per essere aprile. C’erano -3, – 4 gradi costantemente, anche di giorno, nevicava sempre e il vento che arrivava dal mare del Nord ti tagliava la pelle. È stata un’esperienza indimenticabile.
Per quanto riguarda la parte grafica ho solo assecondato il mio percorso, cominciato con Allen Meyer e poi portato avanti con 365.
Ho cercato di rendere il mio tratto a grafite atmosferico ma nello stesso tempo dinamico. Doveva poter rendere efficacemente sia le scene di quartiere, scure e nevose, sia le scene di calcio giocato, dove serve che l’azione sia sempre in movimento. Sono molto soddisfatto della soluzione trovata.
Nel tuo fumetto racconti una Svezia divisa in due e un sistema di welfare in piena crisi. Il modello scandinavo è davvero al tramonto?
Non sono un economista, quindi quello che racconto nel libro è solo parte di un sentire popolare ho potuto raccogliere attraverso le interviste realizzate a Malmö. Di sicuro il modello scandinavo non è mai stato così in crisi come oggi. E parlo di una crisi di valori, ancor prima che economica.
Nulla rispetto a quel che sta succedendo in Italia o in altri Paesi del sud Europa, per ora ci arrivano scricchiolii e lievi ondeggiamenti, nulla di irreversibile, credo. Però l’avanzata delle destre radicali e populiste è un chiaro segnale di un qualcosa che si è spezzato.
Le generose politiche sociali, di gestione dell’immigrazione e dell’asilo in Svezia hanno attirato negli ultimi anni un gran numero di lavoratori stranieri. Questo ha avuto un impatto sul welfare non indifferente e alcuni svedesi iniziano a domandarsi se è lecito, in tempo di crisi, spendere così tanti soldi per aiutare chi viene da un altro Paese. Nel dibattito politico non si fa distinzione tra chi viene dal Pakistan e chi dall’Italia, ad esempio. Le destre svedesi rivorrebbero di nuovo un paese in mano ai “biondi”, senza eccezione alcuna.
È iniziato così un braccio di ferro tra chi crede che il modello scandinavo, inclusivo e assistenzialista, sia solo da riformare in alcune sue parti ma resta comunque un modello vincente e all’avanguardia (e io personalmente sono di questa opinione) e chi invece vorrebbe pensionarlo in favore di un sistema più sovranista e identitario, alla Trump per intenderci, cominciando col chiudere i confini.
Si può ancora parlare di società attraverso lo sport, e il calcio in particolare, considerando quello che è diventato oggi?
Certamente. Perché c’è il Calcio, lo sport, quello che si chiama sempre nello stesso modo ovunque, che vive degli stessi codici da anni, sia che si pratichi in un campo di periferia, sia che si pratichi a San Siro, e il calcio (con la c minuscola), che è invece un modello di spettacolo e intrattenimento, fatto di contratti, milioni di euro, sceicchi e scandali finanziari neanche tanto ben celati.
Sono due realtà che corrono parallele ma che, al contrario di quel che si crede, non si incrociano mai. Lo dico anche nell’intro della graphic novel. Ogni calciatore, quando ha la palla tra i piedi, pensa solo a fare gol. Con la stessa voglia e la stessa grinta di quando era al campetto sotto casa.
Poi, quel che succede prima o dopo a quei 90 minuti è altra storia. Ma il calcio, inteso come gioco, come il passare la palla, entrare in scivolata, parare un rigore, resterà sempre un qualcosa di puro e democratico.
È un linguaggio universale, semplice e uguale a qualunque latitudine, alla portata di tutti. E un fenomeno sociale così vasto e radicato racconterà sempre delle storie. E se racconti delle storie di vita reale, vissuta, stai raccontando la società.
Nel fumetto fai notare differenza tra la spocchia di chi è nato vincente e la spacconaggine di chi ha dovuto conquistarsi tutto. Ritrovi questa differenza anche ad alti livelli, ad esempio tra certe uscite di Zlatan e quelle di altri giocatori o allenatori?
La frase in quarta di copertina «Puoi togliere il ragazzo dal ghetto, ma non potrai mai togliere il ghetto dal ragazzo» lascia intendere proprio questo.
La formazione che ti dà un quartiere difficile come Rosengård, una famiglia come quella in cui Zlatan è cresciuto, lascia tracce indelebili, che ti si cuciono addosso come una seconda pelle, e non basta una scrollata o un giro nei piani alti per lavarle via.
Poi certo, con l’età puoi smussare alcuni angoli, senti di dovere dare l’esempio ai tuoi figli che ti ascoltano in tv, arriva il benessere, i soldi, ecc… ma quegli anni in cui ognuno di noi forma il proprio carattere, così delicati e importanti, restano.
Ed è per questo che un Maldini, formatosi nell’agio di una famiglia benestante milanese, avrà un diverso modo di approcciare la vita. È inevitabile.
A Rosengård, se non ti mostri forte e arrogante, diventi un bersaglio. E a chi piace essere un bersaglio a dieci, dodici anni?
Uno dei sottotesti del racconto è proprio questo: non giudichiamo con superficialità una persona se prima non sappiamo qualcosa del suo vissuto.
Zlatan è stato accusato della stessa arroganza che mise sulla graticola i primi rapper afroamericani diventati celebri tra gli ‘80 e i ‘90, che ostentavano collanone d’oro e diamanti, che riempivano i loro testi di rime autocelebrative.
I borghesi di Manhattan, che ovviamente trovavano quell’atteggiamento di cattivo gusto e diseducativo, erano sempre lì pronti a giudicare, a puntare il dito.
Ma credo sia troppo facile ritenere sconveniente e diseducativo un atteggiamento di autoaffermazione, anche ostentato, anche esagerato e sopra le righe, quando non si ha mai avuto davvero l’urgenza di essere qualcuno per non soccombere.