“Dal 31 agosto Khaled è detenuto in Israele, trattenuto senza accusa formale ed in violazione di diritti comunemente riconosciuti in Italia, in Europa e in seno all’ONU.
Il comune sentimento di apprensione e angoscia sulle sue sorti incerte si è velocemente diffuso coinvolgendo un numero crescente di persone e organizzazioni, ben al di là della cerchia dei suoi affetti.
Il legittimo desiderio di manifestare la propria solidarietà a Khaled sta spingendo, e soprattutto spingerà, molti a chiedersi cosa si può concretamente fare per intervenire attivamente sul suo caso.
A questo proposito, e in questa delicata fase, come famiglia di Khaled chiediamo di usare buon senso, di non dividersi in tante iniziative prive di coordinamento, ma di dedicare la massima attenzione ed impegno nella costruzione di una prima assemblea pubblica presso l’Università La Sapienza di Roma, l’Ateneo dove Khaled ha i suoi colleghi e i suoi docenti.
Durante l’incontro verranno condivisi gli sviluppi relativi alla giornata di giovedì 14 e e considerate le future iniziative del Comitato per la liberazione di Khaled”.
Questo il testo della nota diffusa dalla famiglia di Khaled El Qaisi, cittadino italo-palestinese, ricercatore, traduttore e studente di “Lingue e Civiltà Orientali” all’Università “La Sapienza” di Roma, stimato per il suo appassionato impegno nella raccolta e divulgazione e traduzione di materiale storico palestinese, tra i fondatori del Centro Documentazione Palestinese, associazione che mira a promuovere la cultura palestinese in Italia.
La sua detenzione è iniziata il 31 agosto scorso, quando è stato fermato dalle autorità israeliane al valico di frontiera del ponte di Allenby, al confine con la Giordania, mentre tornava a Roma da un viaggio a Betlemme con sua moglie, Francesca Antinucci, e il loro figlio di 4 anni. Si erano recati anche a visitare la famiglia di El Qaisi, che vive nel campo profughi di Azza, vicino Betlemme.
La prima udienza, tenutasi il 7 settembre a Rishon Lezion, a sud di Tel Aviv, ha portato a una proroga della sua detenzione di altri sette giorni e al suo trasferimento nel carcere di Ashkelon. Ieri, 14 settembre, El Qaisi è riapparso in aula, e la sua detenzione è stata allungata per altri sette giorni. Ancora senza alcuna motivazione ufficiale. El Qaisi sarebbe stato portato al Centro di detenzione di Petah Tikva.
La conferma è arrivata dall’avvocato Flavio Albertini Rossi, legale della famiglia di Khaled in Italia, e dalla moglie del giovane ricercatore italo-palestinese Francesca Antinucci, che aveva lanciato il primo appello per la sua liberazione.
L’avvocato difensore non è potuto comparire in udienza contemporaneamente al suo assistito, a causa delle restrizioni legali che impediscono loro di vedersi e comunicare. Questo solleva gravi dubbi sulla conformità della detenzione di Khaled con i principi di giustizia e diritti umani universalmente riconosciuti.
Khaled non ha potuto dialogare con il suo legale ma ha incontrato solo un funzionario dell’ambasciata italiana in Israele.
L’avvocato Rossi ha denunciato il totale spregio dei principi di civiltà giuridica da parte della legislazione israeliana. Questi diritti sono comunemente riconosciuti in Italia, in Europa e nell’ONU e includono il diritto a un processo equo e la prevenzione di arresti arbitrari. Tuttavia, Khaled è stato sottoposto a nove giorni di detenzione senza poter comunicare con il suo difensore e senza accesso ai dettagli delle accuse contro di lui.
Inoltre, preoccupa la possibilità che l’autorità israeliana possa sostituire la detenzione penale con quella amministrativa in assenza di prove concrete, che può essere rinnovata senza motivazioni, condizione che conoscono bene oltre 1.200 palestinesi detenuti senza un’accusa formale, senza prove e senza accesso alle ragioni del loro trattenimento. L’appello per la liberazione di Khaled El Qaisi, in pochi giorni, ha già raggiunto le 20mila sottoscrizioni e venerdì 15 settembre, alla Sapienza di Roma, si terrà un incontro di solidarietà e aggiornamento.
La Farnesina dopo l’udienza ha diffuso un comunicato in cui descrive El Qaisi come un «detenuto in attesa di giudizio». Ed è inquietante come, ancora una volta, le istituzioni italiane si trovino paralizzate quando si parla di Israele. In qualsiasi altro posto del mondo, per un cittadino italiano, sarebbe stato chiesto immediatamente di conoscere le ragioni di un fermo che ha già superato le due settimane, ma a parte la timida nota, poco o nulla si è mosso a livello di governo e ambasciata.