10 dicembre, giornata internazionale dei Diritti Umani.
Vista da uno schermo di un computer, navigando sui siti di informazione italiani e internazionali, sembra una grottesca presa in giro. In realtà c’è da distinguere, perché il circuito mediatico ci propone sempre solo il peggio che fa notizia, o le notizie peggiori, e si dimentica, anzi spesso dileggia, il meglio che esiste.
Ecco perché ne scriviamo l’11 dicembre, per dire a chi ricorda solo le giornate internazionali o santifica le feste senza ricordarsi di essere probo anche durante la settimana, che i diritti umani sono pane quotidiano.
Sono pane nel senso più comune di questo alimento, quello che una volta non poteva mancare in tavola, che era alla base dell’alimentazione e che poi spariva nei tempi di fame e carestia e guerre, lasciando il posto al pane nero, con la farina bianca solo per il contrabbando, i ricchi, i militari di rango.
Forse ancora meglio sarebbe dire che i diritti umani sono come l’acqua, indispensabili per vivere, perché senza diritti non si vive. Perché la vita di chi è senza diritti ha diverse gradazioni di orrore e miseria, di dolore e maledizioni. Tutti i diritti, da quello a vivere ai diritti economici a quelli sociali, il diritto umanitario. Oggi ci colpiscono al cuore le immagini che vengono da Gaza. E la pervicace ottusità della ragion di stato che fa votare i democratici Usa NO alla risoluzione per un cessate il fuoco, tralasciando la ferocia del governo della destra di Tel Aviv.
Certo, per ogni barbarie commessa dalle decisioni dei potenti e dagli interessi del profitto delle influenze energetiche e di area abbiamo detto che saranno giudicati dalla Storia. È poco, nulla, per chi ha perso 21 parenti in un bombardamento come raccontava in un reel un giornalista da Gaza, le sopracciglia arcuate, gli occhi spenti, mentre ricordava parente per parente, nome per nome. E tantomeno per i morti del 7 ottobre, che qui citiamo non per essere patentati di democraticità, ma perché è giusto ricordare la strage di civili. Le due cose, attenzione, vanno insieme: lo abbiamo conquistato nel progredire della civiltà, quella che ha capito che la legge del taglione non è la legge di una umanità che progredisce nel corso dei millenni. E invece.
Nelle giornate dei Diritti Umani, che non sono solo il 10 dicembre, ma tutti giorni dell’anno e degli anni, vale ricordare il senso di impotenza che ci sta attanagliando da due mesi a questa parte.
Non c’è nulla, degli organismi, delle politiche, delle ricerche, degli studi, delle risoluzioni, che abbiamo creato dopo la Seconda Guerra, che stia funzionando e la stampa spesso gioca al farsi beffe dei ‘pacifisti’, con una bella etichetta da scomodare dopo aver tollerato i giochi dei potenti e per creare un senso di colpa e di inaffidabilità per chi, invece, crede nella realizzazione della pace.
Onu, Corti varie, trattati, risoluzioni, così come gran parte della nostra Costituzione, diritti basici come quello dell’avere una casa e un lavoro, quello di scegliere chi si vuole essere, la carriera alias, le unioni fra persone, senza discriminare sui sessi e potremmo andare avanti ché la lista è purtroppo sempre lunga. Tutto questo viene citato e usato strumentalmente da chi ha il potere e si professa difensore dei valori e dei diritti, applicando poi politiche spesso liberticide e che causano guerre e distruzione personale, fisiche e psichiche.
A cosa serve il diritto internazionale se non si applica?
A cosa serve l’Onu, se poi cinque nazioni hanno diritto di veto, retaggio di anni lontani.
A cosa serve invocare la giustizia, quando le lingue sono biforcute e il fare politica diviene uno smalto ingannevole di chi crede di poter tramare per interesse personale e stringere accordi sottobanco?
Il campo dei diritti non tollera incoerenza.
Forse è questa la più grande differenza fra la politica, che i sapienti ci diranno essere l’arte del compromesso, con una sfera che di compromessi non ne può tollerare. Perché i diritti o si rispettano o non si rispettano, in mezzo non ci sono gradazioni tollerabili.
Forse dovremmo insegnare questo a chi si candida alla politica, o all’amministrazione della giustizia, della mediazione: che la Storia è piena di compromessi che hanno portato a salvare milioni di vite sacrificandone sempre e comunque troppe. È vero. Ma che la mediazione entra in campo nel fallimento del rispetto dei diritti e che riempirsi la bocca dei diritti umani è cosa di chi ha un concetto di coerenza dentro il proprio agire.
I voti che abbiamo visto alle Nazioni Unite, o anche in altre sedi, sono mediati dalle politiche di alleanze e di sfera di influenza. Non è più ammissibile.
Le tattiche dilatorie o i fumogeni dei governi sulle questioni di salario minimo, o i capricci a favore di pancia elettorale che scomoda il diritto di sciopero, non sono accettabili, perché fanno male, negano diritti.
Ecco perché far politica è un lavoro, meglio dovrebbe essere una vocazione, complesso. Ecco perché non è vero che lo possano fare tutti, perché serve preparazione e dedizione e un senso di responsabilità che sussurra all’orecchio per ogni scelta l’interrogativo sui diritti delle vite delle persone. Nei Paesi ricchi e ancor più rispetto ai Paesi poveri, sul clima e sulle guerre.
Il diritto umanitario, poi è il campo più sensibile di questa responsabilità.
L’11 dicembre, cioè tutti i giorni dei diritti umani, significa anche questo: imparare a non tollerare l’incoerenza. Un diritto rispettato non toglie diritti a nessun altro, la mediazione che riesce ad affermare i diritti ha il tempo di chi soffre e non di chi disegna strategie di egoismo.
Sono tempi disumani, ma è anche vero che i diritti umani sono diventati, spesso per i più giovani, un vero e proprio programma di un buon governo delle società. Per questo vederli annichiliti significa portare l’ennesimo fendente contro il senso di umanità che cresce, nonostante la disumanità e la bestialità che vediamo di fronte ai nostri occhi su poveri e donne, popoli oppressi e rinnegati, lavoratori e pensionati, disabili e ogni persona che è portatrice di diritti.
Non è volere la luna, ma neanche accettare che in base al cinismo ci si possa permettere di retrocedere dopo secoli di un cammino portato avanti con forza da una maggioranza.
E su questo l’ultimo invito a riflettere: perché sì, siamo maggioranza. E a volte ce lo dimentichiamo, incantati dalle sirene degli spietati, che sono più forti e meglio organizzati, hanno più soldi e ci controllano. Siamo più forti, ma è necessario reagire.
È necessario tornare a parlare di diritti come asse fondante del nostro vivere globale.