L’11 maggio di un anno fa veniva assassinata dall’esercito israeliano Shireen Abu Akleh, 51 anni, giornalista di al-Jazeera. Un anno dopo, nessuno ha pagato per aver l’omicidio, e le autorità di Tel Aviv solo a settembre hanno ammesso che fosse stata uccisa dai militari israeliani.
L’unica indagine indipendente, quella svolta dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani (OHCHR) aveva concluso che Abu Akleh era stata uccisa da un soldato israeliano, basandosi su materiale fotografico, video, audio e sull’ispezione dei luoghi dell’attentato.
La giornalista documentava l’assalto militare del governo israeliano al campo profughi di Jenin, in Cisgiordania. Un massacro, quel giorno come tanti giorni in Palestina.
Le ultime settimane hanno visto l’ennesima operazione militare sulla Striscia di Gaza, chiamata Operazione Scudo e Freccia, con intensi bombardamenti, che avevano ufficialmente come obiettivo i leader del gruppo Jihad Islamica – minoritario rispetto ad Hamas a Gaza – Khalil Bahtini, Tareq Ezzaldin e Jehad Ghanam, ritenuti responsabili dei lanci di razzi verso il territorio israeliano seguiti alla morte in carcere, dopo un lungo sciopero della fame, di Khader Adnan, storico leader del movimento detenuto da anni.
Oltre a loro, però son stati assassinate altre 12 persone – compresi donne e bambini – che non c’entravano nulla.
Immaginate che per colpire gli attentatori di Falcone e Borsellino qualcuno avesse proposto di radere al suolo Palermo, o che per catturare le Brigate Rosse qualcuno avesse proposto di arrestare mogli e figli e di distruggere le case delle famiglie dei brigatisti. Ma la Palestina è in uno stato di eccezione permanente, dal 1948.
Quando un giornalista viene ucciso in un teatro di guerra, quando c’è un’occupazione militare, quando si eliminano fisicamente indagati senza un processo, quando si uccidono indiscriminatamente donne e bambini, ovunque, nel mondo, la reazione è immediata e univoca. Ma non in Palestina.
Si raccontano i lanci dei razzi, le operazioni militari sono sempre in ‘risposta’, ma mai una parola sulle condizioni di vita dei civili a Gaza, costretti nell’assedio più lungo dell’umanità dal 2006. L’unico caso realizzato di Panopticon, il carcere teorizzato dal filosofo Bentham, dove il detenuto non aveva nessun luogo dove nascondersi al carceriere.
Per la Palestina, ogni volta, c’è tutta una corsa sui media mainstream a distinguersi per prese di distanza, per manipolazioni narrative, per un racconto che ‘vende’ il format di una guerra, di una democrazia contro i terroristi, di due eserciti che si combattono alla pari. Semplicemente non è così.
Non aiutano quelle narrazioni coloniali, per le quali le immagini forti dei miliziani armati fino ai denti sono spendibili, appetitose, ma rendono un’immagine distorta della realtà, contribuiscono – più o meno inconsapevolmente – a nutrire il racconto avvelenato della ‘guerra’, del ‘conflitto’, senza raccontare che ormai, militarmente e politicamente, contano poco o nulla. Se succede qualcosa ai cittadini israeliani, è perché qualche scheggia impazzita si butta con l’auto sulla folla. Di base, da anni, le fazioni armate palestinesi non hanno alcuna possibilità di fare nulla di significativo dal punto di vista della resistenza armata, che pure nel caso dell’Ucraina è giustamente riconosciuta come un diritto.
Qui, al massimo, parliamo di una forma di suicidio rituale, quando qualcuno o qualcuna, disperato o disperata, va a farsi crivellare di colpi a un check-point armato di un coltello.
Così come una narrazione militarizzata non riesce a rendere l’idea, chiara per chi lavora sul campo con constanza, che l’opzione militare ha dai tempi del bagno di sangue della Seconda Intifada perso qualsiasi credibilità nella società palestinese, almeno quanto i corrotti politici palestinesi, dell’Autorità Palestinese come orami – inesorabilmente, per quanto più lentamente – anche quelli di Hamas.
Per la Palestina, però, esiste anche un vocabolario a parte. ‘Scontri’, ‘violenze’, per non dire quel che si deve dire.
Si chiama occupazione militare, si chiama apartheid (lo dicono Human Rights Watch e Amnesty International), si chiamano esecuzioni extragiudiziali, si chiamano detenzioni illegali, si chiamano diritti umani violati sistematicamente. Eppure, per la Palestina, non vale quel che vale per il resto del mondo.
Orami è come se si fosse generato un Paradigma Palestina: da un lato la negazione di tutto quello che ormai è universalmente riconosciuto a chiunque, da un altro lato l’idea stessa dell’ingiustizia radicata in una quotidianità che diventa sistema.
Oggi più che mai, se si vuole ridare un senso ai diritti umani, è dalla Palestina che si deve ripartire. Se si vuole ritrovare lo slancio che dal 1948 a oggi ha fatto riconoscere globalmente una serie di tutele universali, e di conseguenti crimini, e in Palestina che bisogna tornare. Perché se non si svincolano i diritti dalla politica, ogni giorno, sempre, a qualunque latitudine, il processo di erosione delle conquiste dei diritti dopo la seconda guerra mondiale diventerà un processo irreversibile.
Potremmo dirci che, in fondo, non ci riguarda. Non è così però, e non solo a livello etico. La criminalizzazione delle ong, la persecuzione della solidarietà, la militarizzazione dello spazio pubblico, il controllo di massa con la tecnologia, sono oggi problemi con i quali ci confrontiamo in Italia, in Europa e nel mondo. E un tempo queste dinamiche sono iniziate in Israele contro la popolazione civile palestinese. E sono arrivate qui.
L’ultima battaglia di chi difende le politiche israeliane a prescindere, anche questa mutuata dallo stesso Israele, è di tacciare di antisemitismo le critiche al governo di Israele. Come accusare di semtimento anti italiano chi chiede spiegazioni dei naufragi di Cutro o Lampedusa, passando per le critiche alle posizioni del governo Meloni oggi come di quello Berlusconi ieri.
Nessuno si sarebbe sognato di farlo, a eccezione di fogli di estrema destra che, guarda caso, danno degli antisemiti agli altri.
Un cortocircuito che sarebbe farsa se non si nutrisse della tragedia quotidiana del popolo palestinese e se non comportasse la restrizione di libertà e diritto di critica che, sempre più, riguardano anche noi.