Le intelligenze artificiali consentono a chiunque, in tempi brevi, di realizzare immagini che non sono fotografie ma che possono sostituirle: impossibile non rifletterci
Per parlare di fotografia e immagini ottenute tramite intelligenza artificiale serve innanzitutto ricordare che una fotografia è un’immagine del reale ottenuta tramite l’azione della luce su una superficie ad essa sensibile. Quindi dei raggi luminosi colpiscono una pellicola (nel caso della foto analogica) o un sensore (nel caso della foto digitale) e producono un’immagine della realtà che mi circonda. Questa sommaria definizione di Fotografia mi serve per far notare che nelle immagini realizzate con intelligenza artificiale non succede niente di tutto questo: non ottengo un’immagine del reale, non c’è azione di raggi luminosi, non utilizzo una superficie sensibile.
Quindi posso tranquillamente affermare che le immagini prodotte tramite intelligenza artificiale non sono fotografie, ma sono illustrazioni o qualcosa di simile. Ma – in quanto fotografo – potrei concludere qui questo mio intervento? Potrei dire che, non essendo fotografie, queste immagini non mi interessano? No, non posso farlo, perché le intelligenze artificiali consentono a chiunque, in tempi brevi, di realizzare immagini che possono essere assimilabili alle fotografie e che – in certi casi – possono sostituire le fotografie. Quindi – proprio in quanto fotografo – devo occuparmene.
Ho chiesto perchè sarebbe opportuno che un fotografo si interessi all’intelligenza artificiale a Roberto Tomesani, fondatore e coordinatore dell’Associazione Nazionale Fotografi Professionisti Tau Visual [ascolta l’audio]
Stessa domanda a Luca Pianigiani, editore, giornalista, docente, consulente, che da quasi 20 anni invia regolarmente Sunday Jumper newsletter gratuita che parla di fotografia e dei suoi mercati e inoltre pubblica Aiway, una rivista online dedicata alle immagini generate dall’intelligenza artificiale [ascolta l’audio]
C’è da dire che in questo momento ci si è occupati più che altro delle magagne che possono derivare da questa innovazione. Magagne generate dal fatto che, a fronte di uno sviluppo velocissimo e inaspettato degli strumenti basati sull’intelligenza artificiale, c’è una legislazione in merito che non riesce a stare al passo, è in ritardo e ha creato un vuoto normativo pericoloso per la correttezza nell’utilizzo e nella fruizione delle immagini, dove i malintenzionati possono agire indisturbati e dove – d’altro canto – i bene intenzionati si muovono senza rete di protezione e di tutela.
Una prima magagna riguarda le fake photos (parte del fenomeno deep fake): molte di esse sono diventate virali e passate sotto gli occhi di tutti. Fin qui non hanno fatto danni, anzi ci hanno anche fatto divertire. Abbiamo visto il volto del premio Oscar Tom Hanks utilizzato a sua insaputa per sponsorizzare un servizio odontoiatrico, Papa Francesco con indosso un piumino bianco, Donald Trump in lotta con la polizia che tenta di ammanettarlo, etc etc. Immagini che ci hanno sorpreso con la loro verosimiglianza e che – a dirla tutta – ci hanno stimolato a fare attenzione, ad essere vigili, pronti a smascherare le simil-fotografie generate con intelligenza artificiale. Un articolo in merito è stato pubblicato a novembre 2023 sul Washington Post, contenuto e titolo “These look like prizewinning photos. They’re AI fakes” suona come un ammonimento.
Queste fake photos insomma ci hanno messo in guardia dai potenziali rischi derivanti da un loro uso distorto o strumentale. Tanto che oggi – con qualche sbandamento e molti margini di miglioramento – a tutto questo si sta tentando di porre un freno. Perché lo si può fare in modo molto semplice: cioè imponendo un avviso, una sorta di bollino obbligatorio, che indichi chiaramente al pubblico se un contenuto è stato generato da un’intelligenza artificiale. Non mi sembra un problema: ci abbiamo messo pochissimo a imporre su ogni sito internet un ridicolo e inutile banner per l’accettazione dei cookies, possiamo fare altrettanto per questa utile indicazione che consentirebbe – per esempio – un’informazione corretta e il rispetto sia del diritto di cronaca sia del diritto a essere informati.
In questa direzione si sono mossi sia il Parlamento Europeo con l’AI ACT (una regolamentazione sull’intelligenza artificiale approvata a dicembre che dovrebbe gradualmente entrare in vigore nei prossimi due anni) sia il Parlamento Italiano con il disegno di legge 917 intitolato “Misure sulla trasparenza dei contenuti generati da intelligenza artificiale”. Entrambi prevedono che i contenuti prodotti dall’intelligenza artificiale – foto, video, audio, deepfake e altri generi di materiali – siano chiaramente riconoscibili tramite etichette e filigrane ben distinguibili. Un’univoca etichettatura, o watermarking, che pare una piccola cosa ma in realtà riguarda la fiducia dei cittadini e una convivenza civile.
E in questo senso si stanno muovendo anche le case produttrici di fotocamere. Leica, Nikon, Sony e Canon hanno sviluppato una tecnologia capace di inserire nei loro ultimi modelli delle firme digitali riportate in ogni foto, al fine di distinguere queste ultime dai falsi sempre più sofisticati. Questa nuova tecnologia di autenticazione per ora pare a prova di manomissione e includerà informazioni tratte dai metadati, quali nome del fotografo, data, ora e luogo di realizzazione della fotografia. Insomma questa prima magagna – piano piano – la stiamo superando.
Una seconda magagna riguarda il diritto d’autore. Come ormai saprete i generatori di contenuti basati su intelligenza artificiale lavorano grazie ai dataset, nel nostro caso degli archivi di immagini che opportunamente elaborati generano altre immagini, quelle richieste dagli utenti. Un abnorme archivio di foto, illustrazioni, disegni, dipinti e chi più ne ha più ne metta. Immagini che ogni generatore di immagini IA ha fatto proprie. E farle proprie significa che se l’è prese, senza avvisare, indisturbato (tanto non ci sono leggi che riguardano tutto questo). Qualcuno però ha fatto notare che quelle immagini sono frutto di lavoro, di tempo, d’energia, di investimenti e sono spesso tutelate da copyright: insomma – secondo alcuni – non possono essere fagocitate da un bot come se nulla fosse. Ad esempio The New York Times ha fatto causa a OpenAI e Microsoft, accusando le due aziende di aver usato articoli e immagini protetti da diritto d’autore, per sviluppare i propri sistemi di intelligenza artificiale. Altri casi simili di denuncia sono seguiti e tutto fa presupporre che presto saremo di fronte a una class action – una causa collettiva – cui potrebbero unirsi gli autori che si ritengano danneggiati dalle azioni di OpenAI. Tutti pare abbiano detto una frase tipo “Se volete usare i nostri materiali per i vostri bot dovete sborsare un bel po’ di soldi”. Qui la magagna si fa più sgradevole, perché riguarda questioni economiche.
Sinceramente io non riesco ad appassionarmi né a questi contenziosi giuridici, né ai loro risultati monetari. Quello che invece mi interessa molto sono le riflessioni e le implicazioni artistiche che essi stimolano. Perché qualcuno la pensa diversamente da The New York Times.
Tra questi c’è Guido Castagnoli, fotografo italiano che vive a Berlino e che sta conducendo una ricerca visiva interessante, in parte pubblicata sul suo account Instagram. Sotto una delle sue immagini (realizzate con Midjourney) leggo:
Molte persone pensano che le creazioni di immagini IA siano collage di molte immagini esistenti. Questo non è assolutamente vero. L’IA non fa collage più di quanto tu faccia un collage quando ti viene chiesto di disegnare una casa con un albero in un giardino. Questo processo basato sulla memoria dei ricordi conservati nel nostro cervello (un riferimento visivo basato sulle parole) è ciò che chiamiamo “esperienza”. E l’IA sta funzionando esattamente allo stesso modo. Non ruba pezzi di immagini esistenti in giro. Ricorda la forma delle cose che ha visto in anni di allenamento e adesso le sa disegnare. Tutto quello che vedi in questa immagine non è mai esistito prima della sua creazione. Tutto è nuovo. Quanto nuovo e fresco è il disegno di un bambino che ha imparato a raffigurare il mondo.
Guido Castagnoli – IG: @guido_castagnoli_studio
Ancora Guido, altra immagine e altra considerazione:
Molte persone stanno usando l’IA come strumento per ottenere esattamente ciò che hanno in mente. Pensano che se non avessero il controllo totale il risultato non avrebbe paternità. Io invece penso che l’aspetto più interessante dell’IA sia la sua propria immaginazione, la sua propria creatività. Una piscina di immaginazione collettiva dove tutti possono nuotare democraticamente e farsi stupire dal paesaggio circostante per poi tornare a casa con nuovi ricordi stimolanti.
Guido Castagnoli – IG: @guido_castagnoli_studio
Guido Castagnoli, fotografo italiano che vive a Berlino parla della sua ricerca artistica condotta con immagini generate tramite intelligenza artificiale [ascolta l’audio]
Benissimo, in ambito artistico non è importante se l’immagine creata con IA sia chiamata fotografia o illustrazione o artwork (da un certo momento in poi anche Guido Castagnoli chiama “artworks” le sue immagini). E non è manco importante che sia un’immagine del reale.
Ma nell’ambito del fotogiornalismo o della fotografia documentaria (ovvero dell’informazione e dell’approfondimento fatto con le immagini) sì, è molto importante che io sappia se quella foto riguarda la realtà. Ne va della sua credibilità, della veridicità della notizia, dell’attendibilità della testata che la pubblica, nonché del rispetto dei soggetti coinvolti.Quindi torniamo alle fotografie, alle immagini del reale ottenute tramite la luce che colpisce una superficie ad essa sensibile.
Anche qui io, fotografo, devo interessarmi a quelli che sono gli aspetti positivi delle IA, ai nuovi strumenti che abbiamo a disposizione. A tutto ciò che non è una magagna, ma tutt’altro. Sono i benefici delle IA, dei quali possiamo usufruire proprio in quanto fotografi. Mi interessano perché sono aspetti ed effetti che riguardano la fotografia nel suo ambito tecnico, linguistico, comunicativo, critico (potrei riassumere parlando di ambito creativo o artistico, ma in questo settore pare siano brutte parole).
Non mi riferisco solo agli aggiornamenti di software per la post produzione delle fotografie, anche se tutti abbiamo potuto apprezzare le nuove funzioni di Photoshop o Lightroom, implementati proprio grazie alle IA.
Mi riferisco invece alle possibilità o potenzialità di nuovi strumenti. Quelli che diversi illustri addetti ai lavori hanno definito “giocattoli”. Chiamiamoli come vogliamo, consapevoli che sono una diretta derivazione della cosiddetta IoT: Internet of Things (internet delle cose, o nelle cose) che ha prodotto la PaaS: Photography as a Service (fotografia come servizio): ovvero elettrodomestici dotati di fotocamera in grado di realizzare fotografie su comando e da remoto. Finora si è trattato di citofoni, frigoriferi, aspirapolvere, etc etc. Oggi si parla di strumentini (il diminutivo si riferisce alle loro piccole dimensioni), dotati di IA e ovviamente di fotocamera, che dunque riescono anche a produrre immagini del reale grazie a raggi luminosi che colpiscono superfici ad essi sensibili, cioè fotografie del vero.
Humane AI Pin è un dispositivo indossabile o device wearable (leggi molto piccolo, tanto da poter essere “spillato” ai nostri indumenti) che funziona grazie all’intelligenza artificiale. Utilizza una serie di tecnologie per interagire con l’utente: comandi vocali (che consentono di scrivere messaggi, effettuare chiamate, ascoltare musica o tradurre una conversazione), comandi gestuali (per scorrere le pagine o ingrandire le immagini), proiettore laser (per visualizzare sul palmo della mano informazioni utili come l’ora, la data e le notifiche) e – eccoci – una fotocamera che consente di effettuare foto e video caricate direttamente nel Cloud.
Rabbit è un dispositivo tascabile basato sulla IA che viene promosso come “assistente virtuale” o” aiutante virtuale”. Fisicamente è uno scatolotto arancione, più piccolo di uno smartphone, con un piccolo schermo touch, un pulsante da premere per dare comandi vocali e un sedicente e minuscolo “comparto fotografico” in grado di ruotare di 360 gradi, battezzato Rabbit Eye. Con l’occhio del coniglio si possono fare foto e videochiamate. Ma soprattutto con esso Rabbit può vedere intorno a sé, imparare e darti soluzioni su richieste anche articolate (pianificazione viaggi, acquisto biglietti, etc) interfacciandosi con varie piattaforme (Amazon, Spotify, Uber, etc). Non è escluso che un giorno possa arrivare anche a scattare una foto per conto suo sapendoti o vedendoti distratto.
Apple VisionPro: non c’è quasi bisogno di parlarne. È un visore che combina il mondo virtuale con quello reale, offrendo esperienze immersive e funzionalità basate su IA. L’interfaccia tridimensionale consente la visualizzazione di app affiancate su qualsiasi scala. Il controllo su Vision Pro avviene esclusivamente tramite occhi, mani e voce. Le telecamere all’interno dell’auricolare tracciano i movimenti degli occhi e possono quindi identificare ciò che l’utente sta guardando. La funzione EyeSight può avvisare chiaramente gli altri quando l’utente scatta una foto o registra un video, perché la fotocamera è naturalmente integrata.
Questi aggeggi mi consentono di realizzare real photos, mi costringono ad aggiornare le mie metodologie di ripresa, mi consentono di riflettere sul nuovo mezzo fotografico, mi stimolano a prendere in considerazione gli aspetti etico-deontologici della diffusione immediata di un’immagine, mi spingono a cambiare la grammatica del linguaggio fotografico.
Camminare con uno di questi giocattoli appeso al collo – ad esempio – quali e quanti nuovi e inesplorati spunti può dare alla street photography?
Oppure.
Un servizio fotografico potrà essere realizzato dotando i soggetti di un “giocattolo” del genere, capace di offrire molteplici punti di vista di un evento o di un luogo o di un personaggio. Magari integrando il racconto con immagini ottenute usando e regolando con l’IA le numerose fotocamere già presenti negli elettrodomestici di ultima generazione. Insomma, non sarà più solo la capacità di un fotografo, con il suo stile unico e uniforme, a realizzare le immagini, ci sarà anche l’imprevedibile e variegata interpretazione di un IA, che privilegia la spontaneità e l’immaginazione, e che offre una visione “egoless” ( come la definisce Guido Castagnoli) cioè pura, priva di quella ricerca e di quel bisogno esibizionistico di autorialità che già appare anacronistica.
Roberto Tomesani dell’Associazione Nazionale Fotografi Professionisti Tau Visual mi dice qual è l’atteggiamento dei fotografi nei confronti dell’intelligenza artificiale [ascolta l’audio]
Tutto questo però deve ancora succedere. Per adesso siamo in un momento ludico, quel periodo nel quale abbiamo scoperto un nuovo gioco e ne proviamo le regole e le potenzialità, stupendoci degli straordinari risultati. Lo stiamo esaminando e utilizzando sul lato tecnico, senza ancora averci messo delle idee, senza averci messo del nostro, senza criticarlo, senza superare gli stereotipi che ci propone. Quando ciò avverrà allora ne vedremo delle belle e probabilmente vedremo anche delle fotografie utili all’informazione, all’approfondimento e alla critica.
Non è d’accordo con me Luca Pianigiani, redattore ed editore della rivista online Aiway, che qui contestualizza la sua posizione [ascolta l’audio]
Voglio concludere con un ulteriore ammonimento, un’altra magagna.
Perché risulta evidente che tutta questa quantità di fotocamere che riprendono ogni momento e ogni soggetto che si affaccia nei nostri dintorni e nella nostra vita, pone un problema. Non tanto di privacy, perché – lo ricordo, semmai ce ne fosse bisogno – tutti questi strumenti hanno un pulsante on/off con il quale possiamo spegnerli, non è obbligatorio tenerli accesi – e inoltre la nostra privacy è già messa a repentaglio da ciò che quotidianamente noi stessi postiamo sui social network.
Il problema riguarda la sorveglianza, la giustizia e la libertà di espressione. Ed è legato all’utilizzo di video o fotocamere per l’identificazione biometrica remota o riconoscimento biometrico altrimenti detto riconoscimento facciale. Addirittura si è paventata l’ipotesi che certe immagini e certe tecnologie possano essere utilizzate per la “polizia preventiva” (prevedere le probabilità con cui può essere commesso un reato, da chi e dove. Paura!) o il “social scoring” (classificazione della reputazione dei cittadini. Doppia paura!!). Capite che, messi nelle mani sbagliate (quelle che spesso si vantano di essere nel giusto) questi strumenti possono essere facilmente utilizzati in modo scorretto o strumentale per screditare o incolpare avversari politici, esponenti di un pensiero non gradito o concorrenti in ambito economico.
Tutto ciò però – bisogna sottolinearlo – non dipende dall’intelligenza artificiale, non è colpa dell’IA. Giacché per attivare tutti questi strumenti è sufficiente (ed è stato sufficiente) utilizzare tutte le immagini e le informazioni che – come già detto – ognuno di noi immette spontaneamente e quotidianamente sui social network. Piuttosto c’è da dire che queste nuove tecnologie legate all’IA hanno semplificato e velocizzato questi metodi, e di conseguenza hanno permesso ai sostenitori di un inasprimento della repressione preventiva di avere una scusa per dare nuovo vigore alle loro pretese di controllo. Quindi l’IA non come causa ma come effetto politico indiretto.
Sull’uso dell’intelligenza artificiale a scopi di controllo e sedicente sicurezza si esprimono Luca Pianigiani (Aiway) [ascolta l’audio]
e Roberto Tomesani (Associazione Nazionale Fotografi Professionisti Tau Visual) [ascolta l’audio]
Una buona notizia è che persino nel già citato AI Act il Parlamento Europeo ha preso le distanze da questo uso pericoloso e aberrante delle IA a scopi di repressione preventiva. Tanto che il relatore del testo Brando Benifei ha dichiarato: “(…) il riconoscimento delle emozioni è proibito. Abbiamo chiare indicazioni sui casi d’uso vietati che non sono ammessi in Europa, come la polizia predittiva, il social scoring e il riconoscimento biometrico”, precisando poi che “è permesso usare i cosiddetti sistemi di analisi dei crimini, ma senza che siano applicati a specifici individui ma solo a dati anonimi e non devono indurre a pensare che qualcuno abbia commesso un crimine”.
Roberto Tomesani commenta l’incontro con Brando Benifei organizzato dall’Associazione Fotografi professionisti Tau Visual [ascolta l’audio]
La cattiva notizia è che Parlamento e Consiglio Europei sono arrivati a queste conclusioni dopo una lunga e accesa discussione. Un principio che dovrebbe servire a impedire abusi da parte delle forze dell’ordine è stato parecchio osteggiato da chi – evidentemente – non disdegna uno stato più autoritario.
Concludendo davvero: non demonizziamo le immagini, il cui utilizzo corretto è indispensabile e auspicabile, soprattutto per avere un’informazione critica e alternativa a quella dei mass media main stream. Ma non dimentichiamoci il bilanciamento tra diritti, questione sempre più ostica, che nel futuro prossimo dovremo affrontare con sempre maggior frequenza e sempre maggior attenzione. Certo, tutto ciò non riguarda la fotografia. Ma è un’altra storia? A pensarci bene, mica tanto. Restiamo vigili.
Leonardo Brogioni