Il trend del “ritorno alla Natura”, con i suoi alti e bassi va avanti già da qualche decennio ma nell’ultimo periodo ha avuto un’impennata. Basta guardarsi attorno: tutto ciò che è naturale (meglio ancora se organico o biologico) vende a meraviglia. Dal cibo alla cosmesi alle vacanze, ovunque spuntano prodotti ed esperienze che hanno lo scopo dichiarato di riportarci indietro a un tempo in cui l’essere umano era ancora in sintonia con la Natura, cosa che noi, stipat* nelle nostre città troppo grandi e inquinate e rinchius* nelle nostre case domotiche, non siamo più.
Tutta questa rincorsa al ritorno alle origini, però, ci ha fatto perdere di vista un fatto essenziale e cioè che, come scriveva Nietzsche, «la Natura è qualcosa di completamente diverso da ciò che viene in mente quando invocate il suo nome».
La Natura è molto più simile alle rappresentazioni fosche e potenti che ne facevano l* artist* del gotico dell’Ottocento, che non a un ordinato frutteto in un agriturismo organico; è la foresta selvaggia e incontrollata più che il bosco dai sentieri segnati in rosso dove andiamo a passeggiare il sabato pomeriggio. La Natura è il fulmine che manda in malora la domotica di casa facendo saltare la corrente e impedendoci di aprire le tapparelle al mattino, è l’alluvione o il terremoto che inghiotte la città, è l’epidemia che decima la popolazione e ci costringe a stare chius* in casa in quarantena.
Certo, potremmo discutere a lungo sul fatto che molti dei fenomeni distruttivi a cui abbiamo assistito in anni recenti sono la causa dell’azione antropica, ma un fatto rimane innegabile: la Natura con cui oggi cerchiamo di riconciliarci e riconnetterci è una Natura addomesticata, comoda, per nulla spaventosa e lontana dalla sua essenza reale.
Appare evidente che, a differenza de* nostr* antenat*, abbiamo perso la capacità di provare rispetto e timore nei confronti del mondo naturale, se non quando ormai è troppo tardi.
L’avvento dell’industrializzazione e della società capitalista ci hanno portat* a credere di essere padron* del pianeta, di controllarlo e ha messo a tacere la nostra paura di fondo, quella vocina onesta che ci dice che in realtà non siamo padron* di niente. Al massimo custodi (compito in cui abbiamo fallito miseramente), e in quanto tali “licenziabili” in qualsiasi momento.
Questa paura, tenuta nascosta e soffocata, ha però trovato altri modi per affiorare e uno di questi, secondo la tesi di Fabio Malagnini nel suo saggio Antropocene horror. Mostri, virus e mutazioni. Il cinema dell’orrore nell’era della crisi climatica (Odoya, 320 p. 22 euro), è la narrativa cinematografica dell’orrore.
L’orrore, infatti, secondo Malagnini, «è una sfida aperta alla narrazione antropocentrica: in un film horror, l’uomo non è mai, in ultima analisi, il vero protagonista ma solo il punto d’ingresso che permette di calarsi nella storia, in attesa che il mostro faccia la sua entrata. L’horror perturba i confini eretti tra di noi e il mondo che abbiamo definito esterno o ‘ambiente’. E con essi quelli di specie, genere e gerarchie naturali annesse. Strappa il velo della nostra purezza antropica».
Il libro di Malagnini è un vero e proprio viaggio nel cinema dell’orrore, dai film di zombie, agli animal horror, passando per i racconti catastrofici, di mutazioni genetiche o di simbiosi malriuscite tra umani e macchine.
Attraverso citazioni più o meno pop, ma in generale comprensibili anche per i non amanti del genere, traccia la linea sottile e spesso nascosta del terrore che l’essere umano prova nei confronti della Natura. L’horror come ce lo presenta Malagnini perde l’aspetto di sottogenere, troppo spesso snobbato sia nel cinema che in letteratura, e diventa un importante strumento di interpretazione del rapporto tra l’essere umano e l’ambiente naturale.
«Il cinema horror è un genere a budget medio-basso, rivelatosi estremamente vitale e tenace nel tempo. Ogni anno sforna decine di titoli indipendenti che possono scomparire senza troppi rimpianti o incassare molte volte i costi di produzione. Per questa ragione è anche un eccellente sismografo in grado di registrare le oscillazioni minime dell’immaginario, aderendo a paure collettive e suggestioni pretraumatiche come appunto quelle causate dalla crisi climatica».
L’horror diventa quindi strumento privilegiato di interpretazione e denuncia che si può permettere, proprio per il linguaggio che gli appartiene, di fare un’analisi lucida e spietata del nostro tempo e del nostro modo di pensare.
Così, il racconto di un’epidemia mortale che né scienza né sistema politico sono in grado di arginare getta luce sulla nostra incertezza rispetto alla resilienza della società davanti alla catastrofe; la messa in scena del cannibalismo ci costringe a rimettere in questione la visione specista ribaltando sull’umano ciò che esso infligge agli altri animali; un’invasione degli zombie, con la loro fame insaziabile che non guarda in faccia a nessuno, può rappresentare un grido di denuncia verso un sistema capitalista che, diventa sempre più evidente, non può essere sostenibile.
Da Picnic a Hanging Rock a Grano rosso sangue, il paesaggio dell’horror e l’incapacità umana di coglierne le sue stratificazioni culturali e naturali rendono l* protagonist* completamente in balia delle forze che governano il luogo; la rappresentazione cruenta e senza sconti di sacrifici umani per propiziarsi la Natura e gli dei, ci mette davanti all’interrogativo inquietante su chi, nel momento in cui le risorse non basteranno più, diventerà sacrificabile, così come l’idea della cieca fiducia nel sacrificio ci propone anche una nuova interpretazione dei gesti rituali che compiamo ogni giorno.
Scrive Malagnini: «L’offerta rituale attraverso cui la comunità intende propiziarsi il corso naturale degli eventi e allontanare nel tempo un destino rovinoso può persino ricordare la fiducia che oggi riponiamo, per contro, in uno ‘sviluppo’ compatibile grazie al quale crediamo di poter mitigare la catastrofe ecologica con un’economia green. […] Se la civilizzazione industriale viene oggi riconosciuta come fattore climatico determinante, non per questo gli umani sono diventati nel frattempo molto più abili nel riconoscere le interdipendenze che li uniscono ai non umani, secondo tempistiche e dimensioni che sfuggono alla loro comune percezione. L’imbarazzo che si esprime nello scegliere da Starbucks una bevanda ritenuta più ecosostenibile o il ridicolo di acquistare un’auto meno devastante di altre pensando di salvare il pianeta sono le espressioni quotidiane più ovvie di un sistema di pensiero volenteroso e colpevolizzante che agisce e opera pur sempre su una scala minima, circoscritta a effetti umani individuali limitati nello spazio e nel tempo».
Questa riflessione è ambigua e inquietante e non possiamo che chiederci se arrivat* a questo punto c’è davvero qualcosa che possiamo fare? Quali divinità ci sono rimaste a cui chiedere aiuto? Esiste ancora una speranza a cui aggrapparsi? E soprattutto, chi può dare risposta a queste domande?
Non la politica, completamente inetta di fronte alle catastrofi a cui assistiamo ormai sempre più spesso. Non la scienza, che oscilla continuamente tra posizioni più ottimiste sulla possibilità di invertire la rotta ad altre senza speranza.
Quello che Antropocene Horror sembra suggerire è che è arrivato il momento di accettare questa posizione di incertezza e la paura che ne deriva; accettare che non abbiamo il controllo totale e ridimensionare la percezione che abbiamo di noi stessi come umani.
«L’equivoco maggiore», scrive Malagnini, «consiste nel ritenersi adesso, proprio in quanto agenti responsabili dell’Antropocene, ancora una volta ‘la misura di ogni cosa’ e naturalmente destinata a ripararla. A fare terraforming, come dice Derek Woods, sono anche non umani come mucche, generi, storni, mais, molecole di azoto, petrolio, computer, archei metanogeni e fabbriche. Il soggetto dell’Antropocene, quindi, non è solo umano e dirlo non equivale ad assolverci o a negare che possiamo a nostra volta influenzare questa epoca geologica, a patto di non pensarla come una totalità indistinta».
Malagnini, con la sua minuziosa analisi di decine di film horror ma anche di romanzi e saggi sull’ecologia, ci invita a fare un bagno di umiltà, a scendere, come esseri umani, dal piedistallo in cui ci percepiamo “la misura di ogni cosa” e ad aprire gli occhi sull’enorme complessità della situazione ambientale che stiamo vivendo.Antropocene Horror non è un libro fiducioso. Come molti dei film che cita non nega la possibilità della catastrofe, e non offre scialbo ottimismo pronto all’uso.
L’horror che ci presenta è un horror militante, che vuole denunciare e risvegliare le coscienze, ma che se dovesse fallire avrebbe comunque raggiunto il suo altro obiettivo. Del resto, come scrive il filosofo statunitense Eugene Thacker, l’horror «è un tentativo non filosofico di pensare filosoficamente al mondo senza di noi».