Ogni storia è diversa ma c’è una sola e unica lotta per la Palestina. Sembra retorico: eppure non è mai stato così reale come quando, seguendo l’intuizione di Fatima, una volontaria di 23 anni che insegna video-making ai rifugiati, e dei suoi quattro studenti palestinesi, le strade del campo di Bourj el-Barajneh hanno ospitato la proiezione del documentario Jenin, Jenin, diretto nel 2002 dal regista Mohammad Bakri.
Un uomo a cui manca la parola guida la troupe per le strade di un campo profughi. Ha visibilmente subito un trauma e mima una scena di sparatoria e morte. È il 2002 e tutt’intorno c’è Jenin, nel nord della Cisgiordania, Palestina occupata. O meglio, c’è quel che ne resta dopo il massacro avvenuto durante l’ultima invasione israeliana. Allo stesso tempo è il 2023 e ci troviamo in un campo sovraffollato nel sobborgo meridionale di Beirut, in Libano. Burj el-Barajneh al pomeriggio di un venerdì troppo caldo per essere fine gennaio. Più di vent’anni, 160 km e poche ore di guida, ignorando i confini, separano le due comunità: quella là sullo schermo e questa qui in carne e ossa. Cosa sia successo in tutto questo tempo e in uno spazio tanto ridotto eppure invalicabile è difficile da dire.
Dove, proiettate, quelle che un tempo erano case vengono sventrate dai carri armati militari israeliani, i muri crollano e le strade si svuotano di tutto fuorché del dolore e di macerie senza fine, dall’altra parte dello schermo, qui, nell’odierno Burj el-Barajneh, le vie sono invece strettissime, affollate di fili elettrici scoperti, bandiere dei partiti svolazzanti tra le immagini sciupate dei martiri, immondizia, povertà, e come un vago e diffuso entusiasmo. «È la prima volta che proiettiamo un film qui», dice Fatima, «e volevamo che si facesse all’aperto, tra le strade disfatte del campo». L’idea è nata dalla collaborazione tra Jafra e Al-Multaqa, un gruppo di giovani registi e cineasti attivi nella progettazione di proiezioni pubbliche e gratuite nei dintorni di Beirut, inclusi i campi profughi. Al mio tentativo di complimentarmi con lei per l’organizzazione di tale evento, mi risponde che il merito è del lavoro e dell’impegno dei suoi studenti, che con entusiasmo hanno saputo riunire la comunità attorno all’orgogliosa consapevolezza delle proprie radici e identità palestinesi. Come a Jenin, così a Burj el-Barajneh, così in tutti i luoghi di dispersione di oltre cinque milioni di persone che una Nakba ancora in corso continua a spargere tra i campi ufficiali e non ufficiali del Medio Oriente.
E tuttavia c’è un qui e c’è un là. Quello che sullo schermo sembra essere un accampamento di tende improvvisato all’indomani dell’ennesima catastrofe, nella Beirut di oggi appare presumibilmente più simile a un quartiere povero o trascurato di una qualsiasi periferia. Sono entrambi confinati nella definizione di “campo profughi”, eppure hanno un aspetto estremamente diverso.
Sia a Jenin che a Burj manca l’elettricità: nel primo, poiché gli israeliani hanno attaccato il campo con decine di missili, e i continui bombardamenti hanno distrutto tubi dell’acqua, fognature e generatori di corrente; nel secondo, attuale, la causa è invece della crisi economica che il Libano sta attraversando, dell’aumento dei prezzi del carburante e delle materie prime, delle continue interruzioni di energia elettrica e dell’incuria che colpisce in particolare la comunità palestinese. Due campi, entrambi al buio, per motivi diversi, in contesti diversi.
Eppure bastano poche ma determinanti dichiarazioni degli intervistati di Jenin, Jenin per annullare quelle separazioni e ricordare che sì, ogni storia è diversa: ma c’è una sola e unica lotta per la Palestina e non è mai stato tanto evidente. «Dobbiamo insegnare ai nostri figli che l’esilio è il ritorno alla nostra terra». Oppure: «Abbiamo già subito tre o quattro Nakba, adesso basta, siamo esausti». «Non c’è una sola persona nel campo che non abbia sofferto». Un applauso scrosciante di sostegno qui riempie il vuoto lasciato dai missili israeliani lì. Tuttavia l’energia vitale della resistenza è la stessa; così l’aspro rimprovero ai governi arabi per aver abbandonato la causa; e l’odio verso un Occidente che fa due pesi e due misure, e per quel massacro di Jenin – e per tante altre stragi di palestinesi passate inosservate – sotto la pressione sionista interruppe la commissione d’investigazione e dimenticò la giustizia e i diritti umani martoriati.
«My greatest wish…my greatest wish… Inno arja‘ ‘al-beit», dice nel film una bambina piena di rabbia e voglia di resistere. «È tornare a casa». Un altro applauso commosso segue le sue parole, mentre le donne più anziane si asciugano le lacrime ei volontari distribuiscono merendine alla platea. Una catena di abbracci e complimenti sentiti scioglie il pubblico che si dissolve rapidamente ai titoli di coda. Tutto ciò che rimane, una volta che la proiezione è finita e i bambini di Burj el-Barajneh sono tornati di corsa dalle loro famiglie, e ciò che sembrava una piazza adesso vuota si rivela una minuscola via, è l’indefinita certezza nel riferirsi, con quel termine apparentemente semplice ma estremamente significativo – casa – alla terra di Palestina. Come se in quell’assurda stradina divenuta cinema gli spettatori fossero stati cinque milioni.